In questo articolo vogliamo analizzare il rapporto fra triathlon e salute, cioè la valenza salutistica di questa disciplina. Come vedremo, la situazione è analoga a quella di altri sport, per esempio la corsa. Innanzitutto, il concetto di triathlon è troppo vago, esattamente come nella corsa si va dai 100 m alla maratona e oltre, nel triathlon c’è un’enorme differenza fra chi fa un ironman e chi fa un triathlon sprint. Per fissare le idee, analizzeremo l’ironman e l’olimpico.
Triathlon e salute: l’ironman
Semplificando, l’ironman è molto simile alle ultramaratone. Da un punto di vista salutistico, in genere si deve dare un giudizio negativo, a meno che l’atleta non sia di caratura notevole, diciamo che il suo tempo deve essere inferiore alle 10h30′. Fissare un tempo limite è una garanzia non solo sulla caratura dell’atleta, ma anche sul suo grado di allenamento, condizione fondamentale per ogni sport nell’ottica della salute e del benessere personale.
Tutti coloro che, realisticamente, comprendono che il tempo limite sarà sempre al di fuori della loro portata, dovrebbero ripiegare su altre forme di triathlon, meno usuranti per l’organismo. Riuscire nell’impresa di finire un ironman in 12 h potrà gratificare la propria autostima, ma non è certo un favore fatto a sé stessi.
Triathlon e salute: l’olimpico
Nell’olimpico non ci sono i problemi di usura (metabolica e articolare) che ci sono nell’ironman, ma si devono comunque porre dei vincoli, affinché la propria pratica sportiva sia salutistica.
I vincoli derivano dalla semplice, ma fondamentale considerazione che, per portare giovamento, qualunque attività fisica presuppone un buon allenamento a essa. Fare triathlon da poco allenati semplicemente perché così si pensa di essere atleti migliori (che magari nella corsa e nel ciclismo non riuscivano a ottenere granché per una concorrenza che nel triathlon è certamente minore) è barare con sé stessi. Quindi la domanda fondamentale è: quando si è allenati per un olimpico?
Tralasciando considerazioni sul programma d’allenamento (supponiamo che sia corretto o che comunque non abbia gravi difetti), il parametro su cui fissare l’attenzione è la frequenza. Per esempio, sappiamo che per la corsa non si può parlare di allenamento decente se l’atleta si allena due sole volte la settimana; analogamente il ciclista del week-end è sempre un ciclista sottoallenato; infine, altro esempio eclatante è l’over 40 che pratica calcetto una volta alla settimana. Si deve notare che allenarsi una o due volte alla settimana difficilmente permetterà di avere un peso veramente atletico, cosa dimostrata dai tanti ciclisti “occasionali” (una, due uscite settimanali) in sovrappeso.
L’obiezione che il triatleta può fare al concetto di frequenza è che “uno sport allena l’altro”. Fisiologicamente non è proprio così e per convincersene basta considerare che un runner molto ben allenato che sospende la corsa e pratica solo ciclismo, anche a livello intenso, perde almeno 10″/km dopo un mese di astensione dalla corsa. Quindi l’allenamento all’altro sport c’è, ma non è certo ottimale. Realisticamente, per essere ben allenato a un olimpico, un triathleta dovrebbe, settimanalmente, allenarsi (almeno):
- 2 volte nel nuoto
- 3 (2) volte nella corsa
- 3 (2) volte nel ciclismo
dove le parentesi non valgono insieme, cioè almeno 2 allenamenti di corsa e 3 di ciclismo oppure 2 di ciclismo e 3 di corsa. In totale sono sempre 7 allenamenti coerenti con le distanze del triathlon olimpico (cioè per esempio gli allenamenti di corsa dovrebbero essere tarati per i 10 km).
Che poi, durante la settimana, si faccia un allenamento al giorno oppure si facciano uno o due bigiornalieri con uno o due giorni di riposo, poco importa.
Il riassunto di quanto detto è che, salutisticamente, condizione necessaria per il triathlon olimpico è fare sette allenamenti settimanali ripartiti come sopra.

Il triathlon è uno degli sport multidisciplinari più noti in assoluto: si articola su tre prove -una di nuoto, una di ciclismo e una di corsa- che gli atleti devono svolgere in immediata successione.