Lo stretching è sicuramente una disciplina difficile: sono state scritte decine di libri e ancora non è stata detta la parola fine. Esiste perfino una macchina da palestra per l’esecuzione di tutti gli esercizi di stretching. Il grosso problema (che anche il semplice uso della macchina senza un valido istruttore non risolve) è l’esecuzione degli esercizi. I libri infatti possono avere delle illustrazioni o dei commenti testuali del tipo “la posizione di allungamento va raggiunta lentamente e mantenuta fino a quando si ha la sensazione che il muscolo regga bene la tensione raggiunta” (la frase che uso nel mio libro); i dvd possono mostrare pure dei filmati. Nonostante ciò, continuo a vedere persone che eseguono male lo stretching (molti lo eseguono anche al momento sbagliato e con tempi errati): gli errori sono talmente tanti che non è facile correggerli con poche indicazioni.
Stretching: la teoria
Per capire i fondamenti dello stretching è importante conoscere:
a) le basi dell’elasticità muscolare e della flessibilità articolare
b) l’anatomia-fisiologia del muscolo.
Senza queste basi chi parla di stretching (atleti, allenatori, preparatori ecc.) parla a vanvera. Infatti lo stretching può far ben o far male a seconda delle decine di parametri che lo caratterizzano.
Infatti, a differenza di una normale contrazione muscolare, durante lo stiramento dei muscoli, l’actina e la miosina annullano l’effetto del legame elettrostatico tipico della contrazione. Interviene anche la terza proteina, la titina per garantire oltre l’elasticità, anche la resistenza, la cosiddetta tensione di riposo. Se lo stiramento continua nel tempo o nell’intensità, la struttura del sarcomero può essere compromessa fino ad arrivare alla rottura. La ricerca ha dimostrato che in media un sarcomero può stirarsi fino al 150% della sua lunghezza a riposo.
Gli organi di controllo – Le fibre nervose dei muscoli striati (volontari) possiedono due tipi di recettori in grado di rilevare lo stiramento: gli organi del Golgi e i fusi neuromuscolari. L’interazione fra recettori e stimolo dà origine a particolari riflessi e controlli del movimento.
Gli organi del Golgi sono presenti nella zona fra muscoli e tendini, ma non all’interno dei tendini. Essi sono sensibili soprattutto alle tensioni generate dalla contrazione. I fusi invece sono posti parallelamente al muscolo con due terminazioni sensoriali, primarie e secondarie; solo le primarie reagiscono allo stiramento dinamico. La soglia di scarica degli organi del Golgi è 30 volte superiore a quella dei fusi; per questo motivo la risposta degli organi del Golgi è molto più lenta, mentre quella dei fusi è immediata. In ogni caso un allungamento di 30 secondi è più che sufficiente per stimolare anche gli organi del Golgi.
Il funzionamento dei muscoli in genere avviene a coppie agonista/antagonista: quando si flette l’avambraccio si contrae il bicipite e si stira il tricipite, mentre accade il contrario quando si stende il braccio. Bicipite e tricipite formano la coppia. Quando un muscolo riceve un impulso di contrazione, il suo antagonista si rilascia perché non lo riceve.
I riflessi – Tutti conoscono il riflesso della rotula colpita con il martelletto. Il riflesso ha lo scopo di mantenere la tonicità muscolare ed è la risposta a un improvviso aumento della lunghezza del muscolo. Lo stiramento di un muscolo allunga le fibre e i fusi. Questa deformazione dei fusi attua un riflesso che contrae il muscolo per ridurre al minimo il suo allungamento (una sorta di principio di azione-reazione).
Esiste però anche un riflesso che coinvolge gli organi del Golgi: è il riflesso miotatico inverso. È inverso perché il muscolo anziché contrarsi si rilascia. Quando lo stiramento o la contrazione muscolare oltrepassano un certo limite, gli organi del Golgi (ma anche altri recettori) intervengono e si produce un riflesso per bloccare la contrazione, il muscolo si rilascia e la tensione scompare.Questo riflesso è possibile perché gli impulsi degli organi del Golgi hanno la forza di neutralizzare quelli dei fusi. In realtà anche gli impulsi degli organi del Golgi possono essere neutralizzati da altri segnali provenienti da un livello superiore del sistema centrale. Spesso è proprio questa disattivazione del sistema di controllo del riflesso miotatico inverso che porta all’infortunio durante lo stretching.
Come si vede è veramente molto ottimistico sperare di eseguire bene lo stretching senza un acculturamento preciso! Diffidate di chi vi propina soluzioni senza essere preparato.

Appare ottimistico sperare che lo stretching faccia sempre e comunque bene: difficoltà di esecuzione e tipologie diverse lo rendono spesso oggetto di discussione anche fra i professionisti
Stretching: le tipologie
Lo stretching è una disciplina estremamente complessa e in continua evoluzione e sarebbe riduttivo ridurla a poche linee principali. È però importante farsi un’idea di massima di quelle che sono le varie tipologie di stretching per ricercare i massimi benefici a seconda delle proprie finalità (prestazione, riabilitazione, prevenzione infortuni ecc.).
È curioso notare, studiando i vari testi sullo stretching (e sono moltissimi), che spesso gli esercizi proposti sono un miscuglio delle varie tipologie, a seconda delle preferenze dell’autore e delle finalità che si prefigge. Di seguito, senza la pretesa di essere totalmente esaustivi analizzeremo brevemente le tipologie di stretching più note.
È importante notare che la nostra “lista” potrebbe non essere esattamente sovrapponibile a quella proposta da altre fonti, questo perché non tutti gli autori usano i medesimi criteri di suddivisione.
Le tipologie di stretching che prenderemo in considerazione sono le seguenti: stretching statico, stretching balistico, stretching dinamico, stretching passivo, stretching attivo, stretching globale attivo, stretching propriocettivo, C.R.A.C., C.R.S.
Stretching statico – Codificato da Bob Anderson, lo stretching statico è la tipologia di stretching più semplice e probabilmente quella che gode di maggiore notorietà. Consiste nell’allungare un muscolo (oppure un gruppo muscolare) per poi mantenere lo stiramento massimo; come dice la terminologia non c’è alcun movimento e si deve arrivare alla posizione il più lentamente possibile. I vantaggi dello stretching statico sono ovvi: è facile, non è faticoso, apporta benefici a livello di elasticità. Gli unici svantaggi sono che non è specifico, che non migliora la coordinazione e che non attiva le terminazioni primarie dei fusi che sono sensibili alla velocità del movimento.
Alcuni usano la locuzione stretching statico come sinonimo di stretching passivo, utilizzo che non è condiviso da tutti gli autori che con stretching passivo fanno riferimento a una tipologia di stretching con differenti caratteristiche.
Stretching balistico – Com’è facilmente intuibile dalla terminologia, questo tipo di stretching implica dei movimenti rapidi e ritmici, salti e rimbalzi poiché utilizza la velocità come forza motrice per lo stiramento. È un tipo di stretching teoricamente molto interessante, ma ormai in disuso (anche se in alcune palestre viene ancora proposto) perché è considerato più dannoso che utile (alto è il rischio di incorrere in strappi o stiramenti muscolari), non consente ai muscoli di adeguarsi e rilassarsi alla e nella posizione allungata. Viene ancora utilizzato, ma molto raramente, da atleti particolarmente preparati.
Stretching dinamico – È una variazione del precedente, a metà strada fra il balistico e lo statico: il movimento è comunque controllato, senza salti, slanci o scatti. Di fatto, consiste in oscillamenti controllati di braccia e gambe effettuati in modo da portare dolcemente il soggetto al limite della propria gamma di movimento (al contrario dello stretching balistico che tende a forzare una parte del corpo oltre la sua gamma di movimento).
Il tipico esempio di stretching dinamico è rappresentato da oscillamenti piuttosto lenti e controllati di braccia e gambe o anche da torsioni del tronco. Secondo il noto autore Thomas Kurz gli esercizi di stretching dinamico dovrebbero essere effettuati eseguendo una serie di 8-12 ripetizioni.
Viene spesso consigliato in quei programmi sportivi che prevedono movimenti a velocità elevata perché agisce sull’elasticità di tendini e muscoli. Il muscolo agonista, contraendosi piuttosto rapidamente, tende ad allungare il muscolo antagonista.
Il limite maggiore è proprio nella difficoltà di controllo del movimento dal quale dipendono strettamente i benefici dello stretching.
Stretching passivo – Noto anche come stretching rilassato o come stretching statico passivo, è una tecnica che si utilizza quando il muscolo agonista è troppo debole o è poco elastico; in genere è tipico di una riabilitazione dopo un intervento e si attua con l’aiuto di un fisioterapista (o di qualche attrezzo) che tende la struttura oltre l’ampiezza del movimento attivo per rieducarla.
Inutile sottolineare che in uno sportivo sano questa tipologia di stretching è poco indicata perché il rischio di infortunio è elevato, anche se alcuni atleti la utilizzano come tecnica di “raffreddamento” dopo un allenamento particolarmente intenso.
Stretching attivo – È lo stretching che sollecita i muscoli senza l’uso di una forza esterna. Consideriamo un soggetto in piedi. Un operatore può sollevargli la gamba verso l’alto di un angolo di, supponiamo, 150° (capacità passiva); il soggetto, senza l’aiuto dell’operatore, può sollevarla fino a 90° dal suolo (capacità attiva). Se mantiene la tensione esegue uno stretching attivo (libero). Lo stretching attivo è poi resistente se vengono usate resistenze, nel nostro esempio un peso alla caviglia.
Lo stretching attivo è sicuramente quello più moderno; esistono molte scuole, fra cui quella più conosciuta è quella di Wharton cui è dedicato un articolo apposito, Lo stretching di Wharton.
Stretching globale attivo – Noto anche come stretching globale decompensato, è una forma di stretching basata sul principio che soltanto gli stiramenti globali hanno reale efficacia. Tali stiramenti devono essere effettuati tramite posizioni in grado di allungare tutta una catena muscolare portando a una rieducazione della postura. Lo stretching globale attivo si rifà ai principi della cosiddetta Rieducazione Posturale Globale, un metodo riabilitativo ideato da Philippe E. Souchard.
Lo stretching globale attivo utilizza nove posture; ognuna di esse agisce su una determinata serie di catene muscolari. Viene consigliato sia come alternativa allo stretching tradizionale sia come metodo di prevenzione contro le patologie da sovraccarico muscolo-tendinee.
Stretching propriocettivo – Denominato PNF (Proprioceptive Neuromuscolar Facilitation), si basa sui complessi meccanismi delle unità coinvolte nello stiramento (muscoli, tendini, recettori, coppia agonista/antagonista ecc.). Questo metodo nacque negli Stati Uniti, ideato a Washington da Karbat, Knot e Voss. Era un metodo riabilitativo per curare i postumi della poliomielite. Una variante è nota in osteopatia con il nome di tecnica d’energia muscolare. Esistono molte scuole e ciò rende difficile una valutazione globale del metodo, anche se le difficoltà concrete superano di gran lunga i benefici. Grazie a un operatore si esegue una serie di movimenti che aumentano l’elasticità del soggetto, stimolando in sequenza opportuna e nel modo corretto tutti i concetti coinvolti nella gestione dell’elasticità (dalle unità ai riflessi). Si comprende che l’esecuzione è fondamentale e che l’operatore deve avere una grande professionalità. Un’esecuzione non corretta non solo è inefficace, ma potrebbe tradursi in un inutile stress. È noto anche come stretching isometrico eccentrico.
Vedasi per approfondimenti La PNF (stretching propriocettivo).
C.R.A.C. – C.R.A.C. sta per Contract Relax Antagonist Contract, ovvero “contrazione, rilassamento e contrazione dei muscoli antagonisti.
Si tratta di una forma di stretching molto simile a quella precedente, dalla quale si differenzia nella fase finale dell’allungamento. Prevede la contrazione dei muscoli antagonisti a quelli che si stanno allungando. Per eseguirlo è necessaria la presenza di un’altra persona che aiuti il soggetto nella contrazione isometrica iniziale dei muscoli oggetto di allungamento e che collabori, nella fase finale dell’allungamento, alla contrazione dei muscoli antagonisti.
C.R.S. – C.R.S. sta per Contract Relax Stretching ovvero “contrazione, rilassamento e stretching”. È una modalità di stretching che consiste nella contrazione isometrica di un muscolo per 10-15 secondi circa, seguita da un rilassamento di 5-6 secondi dopodiché si esegue l’allungamento.

Lo stretching non previene gli infortuni e anzi, se non eseguito correttamente, può contribuire a innescarli
Stretching: la pratica
Consideriamo alcuni fatti:
a) molti terapeuti non sono in grado di spiegare chiaramente perché lo stretching dovrebbe funzionare, non ne conoscono le motivazioni fisiologiche e, interrogati, si arrampicano sugli specchi, fornendo spiegazioni approssimative con la semplice logica del buon senso (del tipo: “se allunghi i muscoli, sono più pronti allo sforzo”).
b) Molti sono i runner che ci hanno scritto dicendo che i loro problemi sono cessati quando hanno smesso di fare stretching.
c) Sono stati proposti diversi metodi di stretching, il che è già indice di confusione anche fra gli addetti ai lavori. Per citarne uno, il metodo Wharton ebbe notevole fama nel 1992 quando fu usato dagli atleti americani alle olimpiadi di Barcellona; ma se funzionava veramente perché non fu più utilizzato a livello di team nazionale nelle olimpiadi successive?
Cerchiamo pertanto di fare il punto sulla situazione.
Prove limitate – Le ricerche che per anni hanno promosso lo stretching come parte integrante dei programmi di fitness per diminuire il rischio di infortuni, per alleviare il dolore da rigidità o per migliorare la prestazione sportiva non contengono che generiche indicazioni, trasformate dai lettori in verità assodate e divulgate ai quattro venti. In queste ricerche si ipotizzano diverse soluzioni (a volte anche in contrasto) senza tuttavia fornire un’analisi e senza portare risultati sperimentali. Si tratta cioè di idee da sviluppare che sono state considerate già sviluppate!
I supposti benefici dello stretching – Si parte ovviamente da una diminuzione diretta della rigidità muscolare, definita come la forza richiesta per produrre un certo allungamento e causata da modifiche nella viscoelasticità passiva, arrivando a una diminuzione indiretta dovuta all’inibizione del riflesso e dei ponti actina-miosina. Ovviamente una diminuita rigidità consente un maggiore ampiezza di movimento.
Previene o no? – Ricerche successive hanno mostrato che lo stretching prima dell’esercizio non previene né gli infortuni cronici né quelli acuti. Tuttavia lo studio su animali ha mostrato come lo stretching continuo (cioè 24 ore al giorno!), confrontato con la classica seduta di pochi minuti al giorno, può produrre ipertrofia con quindi teorica prevenzione degli infortuni. Altre ricerche non sono riuscite a stabilire un livello minimo in termini di tempo al giorno perché lo stretching possa produrre risultati significativi.
Per il dolore? – Per quanto riguarda la funzione dello stretching nell’alleviare il dolore da indolenzimento, la ricerca ha messo in evidenza che non è importante diminuire la rigidità, quanto aumentare la tolleranza all’estensione. Cioè il paziente deve sentire meno dolore applicando la stessa forza al muscolo, anche se quest’ultimo mantiene la stessa rigidità. Lo stretching avrebbe cioè un effetto analgesico e la cosa non sempre può essere positiva.
I danni dello stretching – In effetti i danni derivano proprio dall’effetto analgesico. Il muscolo viene sollecitato oltre misura, ma, a causa dell’analgesia, il dolore è sopportabile: il successivo impegno fisico provoca un danno a breve irreversibile. Quindi una raccomandazione importante: mentre si fa stretching tensione sì, ma dolore o fastidio (lo stadio in cui l’analgesia è attiva) no.
Quale stretching? – Il problema è poi di definire come fare stretching. Alcune ricerche ritengono che il bouncing stretching (o ballistic stretching, quello balistico, ottenuto con movimenti armonici del corpo) possa essere addirittura pericoloso. Anche sui tempi non c’è accordo: a seconda dei vari autori si va dai 10 ai 60 secondi. Il problema è che chi propone un tempo diverso giudica inefficace o addirittura dannosa l’altrui scelta.
Caldo o freddo? – Una cosa che molti non sanno è che la ricerca afferma che senza fattori sinergici (rinforzanti) lo stretching perde gran parte della sua efficacia. Tali fattori sono il calore superficiale, il freddo superficiale (notare la contraddizione), il calore profondo e il riscaldamento (l’unico mezzo facilmente a disposizione).
Cercheremo adesso di rispondere alle seguenti questioni:
a) durata e frequenza dello stretching perché si possa ragionevolmente sperare in un effetto;
b) il ruolo reale della temperatura corporea nello stretching;
c) il reale scopo dello stretching.
Non considereremo situazioni patologiche.
Durata e frequenza – Per capire come ottimizzare i due parametri, occorre capire il concetto di viscoelasticità. I muscoli non sono puramente elastici, ma viscoelastici. Una sostanza elastica si allunga sotto l’azione di una forza e ritorna alla sua naturale lunghezza dopo che la forza si è azzerata. L’effetto non dipende dal tempo. L’azione della stessa forza su una sostanza viscosa (si pensi alla melassa) è invece dipendente dal tempo.
Una sostanza viscoelastica ha entrambe le proprietà. Se si applica la forza a un muscolo questo si allunga; quando la forza cessa, ritorna lentamente alla sua originale lunghezza. Non si tratta di una deformazione plastica, poiché il ritorno alla lunghezza iniziale è completo: ci vuole solo del tempo.
Anche se lo stretching interessa i tendini e le altre strutture, la rigidità della struttura è dovuta alla viscoelasticità del muscolo: sono i suoi tempi che determinano il ritorno nella posizione di riposo.
Per la maggior parte dei soggetti è sufficiente una durata di 15-30 secondi; per una percentuale significativa occorre un tempo più lungo e diverse ripetizioni per il singolo gruppo muscolare.
L’aumento di escursione dinamica si ottiene per una diminuzione della viscoelasticità e per l’effetto analgesico descritto nella prima parte dell’articolo. Da notare che se si allunga il tempo di stretching si agisce solo sul fattore analgesico, cioè la viscoelasticità non aumenta. Da esperimenti su animali risulta invece che la viscoelasticità aumenta con quattro ripetizioni (34); esperimenti su umani hanno portato a cinque il valore massimo di ripetizioni per avere aumento di viscoelasticità. La situazione è complicata poi dal fatto che per alcuni gruppi muscolari (adduttori) è stato dimostrato da ricercatori statunitensi che non cambia nulla al variare della durata dello stretching (15, 45 secondi o due minuti!).
Alcuni autori hanno proposto, ragionevolmente, che la durata dello stretching deve dipendere dal gruppo muscolare interessato.
Gli effetti a lungo termine – Come abbiamo visto è molto difficile ottenere dati significativi da ricerche che considerano gli effetti immediati dello stretching. Spostandoci su ricerche che studiano gli effetti a lungo termine le cose diventano meno contraddittorie. Dopo sei settimane l’estensibilità muscolare è massima se la durata degli esercizi è di 30 secondi (rispetto a 15) e non c’è nessun beneficio a portarla a un minuto. Altri studi mostrano che dopo sei settimane uno stretching di 30 secondi produce lo stesso effetto di 3 ripetizioni di 30 secondi (ovviamente per giorno). Altri ancora hanno mostrato poi che, se è vero che con stretching da 10 o 20 secondi in sei settimane non si ottiene molto, prolungandolo fino a dieci settimane si ottengono gli stessi effetti di uno stretching da 30 secondi per sei settimane.
Gli effetti della temperatura – Per ottenere il massimo aumento di viscoelasticità è necessario un riscaldamento iniziale, mentre il solo riscaldamento non l’aumenta (è per questo che chi evita lo stretching dovrebbe eseguire allunghi blandi dopo il riscaldamento e prima dell’allenamento). Su questi punti tutte le ricerche sono concordi (anche se molti runner eseguono lo stretching PRIMA del riscaldamento!).
Diverse sono le posizioni sull’effetto passivo del caldo e del freddo. Nello stretching statico per alcuni gruppi muscolari, fra cui il tricipite surale, il caldo ha migliorato la situazione; il freddo, se applicato nei primi secondi dell’esercizio (!), sembra funzionare. Nello stretching PNF (facilitazione neuromuscolare propriocettiva) non c’è nessun miglioramento con la variazione di temperatura superficiale.
Previene o meno gli infortuni? – Alla fine di questa lunga escursione nei meandri della ricerca possiamo concludere che:
1) nonostante la credenza comune, la ricerca clinica ha dimostrato che lo stretching non previene gli infortuni, mentre un riscaldamento pre-corsa sì.
2) Lo stretching, aumentando l’estensione muscolare, è fondamentale per la prestazione.
3) Ricerche canadesi mostrano che, se si dà importanza più alla prevenzione che alla prestazione, sarebbe più opportuno aumentare i tempi di riscaldamento ed evitare lo stretching.
Qual è il più efficace? – Anche se alcuni risultati smentiscono la maggioranza delle ricerche, lo stretching PNF è quello che consente di aumentare maggiormente l’estensibilità. Fra le differenti tecniche (tanto per complicare la situazione) il metodo agonista-contrazione-relax è risultato migliore di quello contrazione-relax (cioè contrazione seguita da stretching passivo), a sua volta superiore alla più banale tecnica mantieni-relax (cioè contrazione isometrica con resistenza applicata gradualmente per nove secondi). In realtà si tratta di esercizi molto complessi che richiedono un apprendimento solido per evitare i rischi. Infatti, tutte le tecniche PNF aumentano l’estensibilità aumentando la tolleranza alla trazione e il muscolo è soggetto a una contrazione eccentrica durante lo stretching. La conseguente analgesia può migliorare la prestazione, ma aumenta i rischi di infortunio rispetto allo stretching statico.
Per quest’ultimo, si è visto che non è necessario eseguirlo ciclicamente (cioè stretching, relax e poi nuovamente stretching).
Stretching e corsa: qual è il migliore per il runner?
Il primo tipo di stretching comparso sulla scena, il cosiddetto stretching balistico, è stato abbandonato diversi decenni fa. Gli atleti che lo provarono scoprirono che il passaggio rapido da una posizione a un’altra provocava dolori muscolari e a volte anche stiramenti.
Dopo questa prima versione ne apparve una seconda, lo stretching statico, che raggiunse ben presto un’enorme diffusione grazie a libri, articoli e poster nelle palestre. Nello stretching statico il runner raggiunge la posizione e la mantiene per 30-60 secondi.
Poiché non ci sono movimenti rapidi, affermano i sostenitori di questa attività, lo stretching statico non può provocare dolori muscolari. Al contrario, dovrebbe favorire la flessibilità mediante un adattamento graduale all’allungamento.
Molti runner hanno ricevuto notevoli benefici dallo stretching statico, ma altri hanno comunque sofferto di dolori ai muscoli e non hanno risolto i loro problemi a livello di infortuni. Peraltro, un articolo pubblicato sulla rivista Research Quarterly qualche anno fa sollevò alcuni dubbi circa i benefici di questa pratica specifica.
I ricercatori utilizzarono due gruppi di persone di sesso maschile in età compresa fra i 18 e i 22 anni e li sottoposero rispettivamente a una serie di 17 esercizi di stretching balistico e statico.
I risultati mostrarono che il secondo gruppo andò incontro a un maggior livello di dolore ai muscoli e a una maggiore produzione di CPK (un enzima che, come noto, è correlabile agli infortuni a livello del tessuto muscolare) rispetto al primo gruppo. Perché? Una possibile spiegazione può essere ricavata osservando la fisiologia muscolare. Tutti i muscoli hanno un riflesso d’estensione che viene attivato dopo un movimento rapido e intenso oppure dopo due secondi di allungamento. Questo riflesso fa sì che il muscolo cominci una lenta contrazione. Se si continua l’allungamento mentre il muscolo cerca di contrarsi possono sorgere problemi.
Oggi si preferisce sostanzialmente lo stretching statico non massimale; non essendo massimale si minimizzano le probabilità di infortunio ed è facile da insegnare e mostrare all’atleta. Essendo la corsa prolungata non particolarmente critica in termini di elasticità (come i salti o la velocità), si ottengono buoni risultati pratici.
Per approfondire: Lo stretching del runner; Stretching per le gambe; Stretching del tricipite surale e Lo stretching (video).
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