Runner è un termine inglese che può assumere diversi significati a seconda del contesto; in ambito sportivo è sinonimo di podista; sportivamente parlando, quindi, il runner è “un soggetto che pratica la corsa o a livello amatoriale oppure a livello professionistico”. Fin qui una definizione “da vocabolario”; le cose però cambiano quando si scende a un livello più pratico, meno accademico; a questo proposito sarà illuminante il paragrafo seguente che spiega nel dettaglio le differenze che intercorrono fra un runner e un jogger; quest’ultimo è un termine, sempre di origine inglese, che fa riferimento a chi pratica il jogging, una forma di corsa generalmente effettuata a un’intensità medio-bassa. Una premessa necessaria: nel sito sono presenti una sezione di base sulla corsa e una orientata al running. Si potrebbe dire che nella sezione Corsa si trovano le basi dell’attività, mentre in quella Running si trovano i dettagli per chi vuole di più. Ed è vero, ma si può ragionare anche in altro modo: il jogger sicuramente leggerà con interesse molti articoli (ma non tutti!) della sezione Corsa, ma molto probabilmente non leggerà nessun articolo della sezione Running perché tutto sommato non gli “servono” (come non gli servono magari gli articoli sulle ripetute nella sezione Corsa).
Runner e jogger – Le differenze
Qual è quindi la differenza fra running e jogging, o meglio fra runner e jogger?
Vediamo innanzitutto alcune risposte sbagliate.
- Il runner è colui che corre almeno X volte alla settimana. Sbagliata, perché ci sono jogger che escono anche tutti i giorni.
- Il runner è colui che corre i 10 km almeno in X minuti. Sbagliata, perché le prestazioni di un soggetto dipendono dalla genetica e dall’età.
- Il runner è colui che fa allenamenti professionali come ripetute, fartlek, corsa in salita ecc. Sbagliata, perché molti di coloro che li fanno non li capiscono e li fanno talmente male che risultano addirittura controproducenti.
Passare dall’essere un jogger a essere un runner significa una sola cosa:
conoscere esattamente il proprio valore attuale sui 10000 m.
Questa può sembrare una definizione molto riduttiva del termine runner, ma è una definizione pratica che parte dal livello di jogger. Se chiedete a un jogger quanto impiega a correre 10000 m, o vi risponde che non lo sa con precisione oppure indicherà un intervallo: “45-50′” è la risposta classica. Per un runner 5′ di differenza su 10 km sono un’enormità. Potrebbe rispondervi 42’30” oppure 52’30” oppure 30′ (se vi risponde 25′ non è un runner, è solo un bugiardo!), ma la sua risposta sarà precisa.
Una tale risposta è importante perché denota una certa esperienza e la volontà di capire la corsa, cose che in genere il jogger non ha. Dalla definizione consegue che, se un jogger vuole diventare runner, deve conoscere e ottimizzare le proprie prestazioni sui 10000 m. Non ha pregio correrli una volta per poter dire “io corro 10 km in 44′”, perché quell’unica esperienza non è detto che sia significativa (notate l’aggettivo attuale nella definizione sopra data). Occorre che l’atleta abbia l’esperienza necessaria per capire cosa vuol dire (per lui) correre la distanza in 44′ o in 43′: quanto “sangue” gli costa quel minuto in meno.

Qual è la differenza fra running e jogging, o meglio fra runner e jogger?
Le quattro età del runner
In modo molto pratico, la popolazione dei runner può essere classificata facendo riferimento a quattro tipologie di “età”. Queste sono facilmente identificabili con un esame attento di tale popolazione; a differenza dell’età naturale, non è detto che il singolo individuo le passi tutte e quattro. Si tratta cioè di età potenziali.
Il principiante
Chiunque inizia a correre non può che definirsi principiante; se è vero che chi proviene da altri sport potrebbe subito iniziare alla grande, è anche vero che senza gradualità si rischiano molti infortuni.
Il principiante (o il jogger, che è una forma evoluta di principiante) corre senza una precisa attenzione alla prestazione. Che inizi a correre da sedentario o che passi alla corsa da altri sport per lui la cosa più importante è prendere familiarità con la corsa.
Questa condizione può durare qualche settimana, diversi anni o per tutta la vita. Ricordiamo:
senza attenzione alla prestazione non si può parlare di running.
Il recordman
Realisticamente quando si evolve dalla condizione di principiante si incomincerà a migliorare; si entra cioè nella fase del recordman, concetto così importante che a esso è dedicato un intero articolo.
L’immortale
Cosa accede quando non si migliora più?
Un vecchio giocatore di scacchi mi raccontò una volta come la cosa più difficile da gestire della sua carriera fosse stata la collinetta. Il termine si riferiva all’andamento della sua prestazione agonistica, lentamente crescente fino a un massimo e poi lentamente decrescente. Mi disse che, nel momento in cui si accorse che le sue prestazioni stavano calando, per ben tre anni non giocò più a scacchi.
Lo stesso concetto è presente nel mondo della corsa amatoriale. Abbiamo già visto come gestire un calo di prestazione temporaneo. Più difficile è gestire la collinetta, cioè un calo di prestazione definitivo. A questo punto esistono tre strade ben distinte; l’atleta ha tre possibilità:
- abbandona la corsa;
- attraversa una fase intermedia in cui la prestazione è ancora importante;
- incomincia a correre solo per la salute.
La seconda fase è tipica dell’immortale. Poiché con l’età di può peggiorare pochissimo (diciamo attorno ai 2″/km attorno ai 50 anni), soprattutto se l’atleta non è ottimizzato (come peso, quantità e qualità degli allenamenti), un ulteriore miglioramento di parametri non collegati all’età può fargli credere che non peggiorerà mai o che il peggioramento sia così minimo da ritenersi non importante ai fini del suo rapporto con la corsa.
Ciò porta il soggetto a permanere nella dimensione agonistica con lo stesso spirito del recordman. In ciò non c’è nulla di sbagliato. In fondo siamo nella stessa condizione del professionista che, amando la corsa, continua a gareggiare anche se sa che non vincerà più le olimpiadi.
Il vero problema nell’amatore è che la mancata consapevolezza dell’inevitabile declino lo porta spesso a comportarsi nella maniera opposta a quella desiderabile. Infatti per durare il più a lungo possibile in questa fase sono necessarie due componenti: la specializzazione e la progressione annuale.
La specializzazione
- attenua l’invecchiamento con l’età (perché il corpo resta sempre concentrato sugli stessi stimoli);
- consente di allenarsi con meno tempo a disposizione (perché le tipologie di allenamento sono minori);
- minimizza la possibilità di infortunio (spesso dovuto all’esecuzione di qualcosa di nuovo o comunque di non usuale).
Notiamo come alcuni amatori tendano invece a fare l’esatto contrario. Appena le prestazioni calano, diversificano. Secondo alcuni ciò dovrebbe aiutare ad annoiarsi di meno, ma quando si ritorna ciclicamente su una distanza, ecco che il divario è enorme e anche chi ha le fette di salame sui propri occhi non può non notarlo con conseguente ulteriore depressione della motivazione.
Ecco alcuni esempi di specializzazione:
- gare in pista fino a 3000 m
- dai 3000 m a gare su strada fino a 8 km
- 5000-10000 m e gare su strada fino a 12 km
- dai 10000 m alla mezza
- mezza maratona
- maratona
- corsa campestre
- corsa in montagna (dai 10 ai 20 km)
- ecc.
La progressione annuale tende a limitare il problema che l’atleta comunque cala in prestazione, anche se specializzato. Il fulcro del concetto di progressione annuale è mostrato dall’entusiasmo psicologico degli atleti che, dopo un infortunio, migliorano comunque velocemente. Nonostante non abbiano la certezza di tornare come prima, ecco che sono resi euforici dai miglioramenti sostanziosi che verificano dopo il periodo di stop. Questa condizione psicologica ben si addice al recordman.
La progressione annuale consiste pertanto nell’iniziare la stagione con un periodo di relativo scarico per poi ricostruire la stagione in modo scientifico. L’obiettivo non sarà più il record, quanto arrivare il più vicino possibile al risultato della precedente stagione. Incredibilmente nell’amatore questo obiettivo funziona altrettanto bene come lo stimolo del record e permette di concentrarsi per vivere al meglio la corsa e il programma di allenamento.
Il periodo di scarico di solito coincide con il periodo più difficile dell’anno (per esempio il mese invernale più freddo); può essere di assoluto riposo (nel qual caso non dovrebbe superare le tre settimane), di diversificazione (per esempio orientato ad altre attività come il nuoto o la palestra) o di relativo mantenimento con riduzione del chilometraggio settimanale (anche del 50-65%) e dell’intensità (per esempio solo fondo lento).
Poi per un altro anno… si torna a fare sul serio!

Senza attenzione alla prestazione non si può parlare di running
Il wellrunner
La fase dell’immortale può durare qualche anno, fino a una decina, ma poi anche l’ottimista più incallito dovrà rendersi conto che il divario della sua massima prestazione è enorme.
Realisticamente quando il peggioramento al km è arrivato a 30″ si dovrebbe passare nelle file dei wellrunner.
Cosa cambia? Che diventa fondamentale correre per la salute, quindi evitare gli infortuni (che magari bloccano per mesi) è imperativo.
Si corre per stare bene, per avere un fisico reattivo e in linea con le procedure di allenamento che sono tipiche di un’età avanzata. Niente vieta di dare un occhio alla prestazione che però non diventa il fine, ma un semplice mezzo di controllo della propria efficienza.
Obiettivi del runner
Dopo aver passato in rassegna le quattro potenziali età del runner, è utile concentrarsi su quelli che sono gli obiettivi di chi pratica la corsa. Ogni runner, infatti, fissa degli obiettivi a breve, medio e lungo termine. Scopo principale di questo paragrafo è quello di passare in rassegna i pro e i contro delle varie scelte ai fini di una corretta gestione della propria attività sportiva e del proprio allenamento. Infatti, anche se molti non lo sanno,
l’obiettivo influenza l’allenamento.
Iniziamo dalla posizione meno ambiziosa.
Nessun obiettivo – È tipico di chi è passato dalla fase di principiante a quella di runner; non avendo risultati eccelsi si corre per il gusto di correre, per la salute ecc. ecc. L’allenamento viene fortemente condizionato dall’assenza di stimoli. Mancano prove massimali (la fatica resta un fattore bloccante come i 150 battiti del cardiofrequenzimetro che “assolutamente” non si devono superare), si è frenati da condizioni meteorologiche avverse, da impegni di lavoro ecc.
La corsa ha una priorità tutto sommato bassa, è importante, ma non tanto da meritare una programmazione. La situazione può perdurare per anni, ma spesso evolve verso obiettivi più ambiziosi o implode verso una forma di attività fisica saltuaria.
La partecipazione – Classico obiettivo decoubertiniano, nasconde diverse motivazioni. Chi è troppo umile sceglie questo stile per evitare di confrontarsi con obiettivi che ritiene al di sopra della sua portata; chi non vuole nessun stress dai suoi hobby lo sceglie per vivere in tranquillità ciò che ama; chi invece è ammalato di protagonismo sceglie la partecipazione a obiettivi prestigiosi per travisare la realtà, soprattutto agli occhi di chi di corsa sa poco (“ho partecipato ai mondiali”, “alla maratona di New York“, “ho corso una cento km“), confondendo (nei casi più gravi anche in cuor suo!) la partecipazione con la caratura sportiva, con la vittoria.
L’importante non è vincere, ma partecipare, ma se partecipo, vinco.
Questo è il ragionamento del protagonista che sostanzialmente di decoubertiniano ha ben poco.
La domenica! – Classico obiettivo di migliaia di runner, è uno degli obiettivi più deleteri. Non è possibile gareggiare tutte le domeniche e avere un allenamento ottimale e una prevenzione dagli infortuni ottimizzata. Come variante, molti alternano domeniche agonistiche a domeniche partecipative, interpretando alcune corse come allenamenti o come scampagnate con gli amici. In ogni caso, se la competizione domenicale è l’obiettivo, gli obiettivi in realtà diventano troppi, tutti uguali e sostanzialmente alla lunga non c’è obiettivo. Chi appartiene a questa classe psicologica dovrebbe per lo meno scegliere un ristretto campione di gare da privilegiare e da preparare con cura.
L’avversario – Di solito è una conseguenza del precedente. Poiché la semplice partecipazione domenicale non è stimolante, la si lega alla sfida con uno o più avversari. Come tutte le cose ripetitive, alla lunga non è molto motivante e la rabbiosa determinazione dei primi tempi può trasformarsi in apatia quando il nostro avversario diventa troppo forte e le scuse abbondano (“non ho più tempo per allenarmi”, la vecchia storia della volpe e l’uva). Se viceversa la sfida è troppo facile, a parte una buona dose di sadismo nei confronti del rivale, non si vede cosa possa farci continuare a ricercare un simile obiettivo.
La sfida – Questo è sicuramente l’obiettivo più complesso da descrivere. Ognuno di noi reagisce quando si trova di fronte a una sfida. C’è chi scappa (e allora non sceglierà questo obiettivo, a meno di non ricadere nel caso citato dell’impresa impossibile, più sotto), chi la accetta e chi la ricerca come motivazione principale.
La ricerca della sfida ha sfumature molto complesse. Dal punto di vista negativo, si può affermare che quando la sfida è un mettersi alla prova per dimostrare a sé stessi e agli altri quanto si vale occorre scindere l’esame dal risultato. Se la sfida è importante come esame che ci dice il nostro valore siamo allora di fronte a un individuo insicuro che difficilmente ricaverà sicurezza reale e duratura da un risultato positivo. Chi ha “bisogno” di dimostrare agli altri ciò che vale è perché è più o meno convinto di non valere nulla. Se la sfida è importante come risultato siamo di fronte a un soggetto che vuole semplicemente conoscere i propri limiti, senza sentire il bisogno di dimostrare nulla, che sa già di valere. Poiché esame e risultato sono sempre presenti si potrebbe pensare che le due posizioni si confondano. In realtà, il soggetto insicuro vive tutta la preparazione come quella di uno studente ansioso che deve dare un esame importante, senza cioè tranquillità; il soggetto sicuro la porta avanti razionalmente, con equilibrio. Se il risultato è negativo, l’insicuro è depresso, frustrato, mentre la persona sicura analizza con calma i motivi dell’insuccesso, corregge il tiro e trae nuove energie dall’esperienza. Se il risultato è positivo, l’insicuro si esalta, ma la sua insicurezza lo rimette subito alla prova, magari con imprese impossibili che produrranno frustrazione e depressione; il soggetto sicuro è soddisfatto, appagato e si gode in tranquillità il suo risultato.
Il record – A prescindere dal fatto che il record non deve diventare un’impresa impossibile (vedasi più avanti), occorre anche rilevare che non può essere il solo e unico obiettivo che il runner si pone. Troppi runner s’illudono di poter migliorare all’infinito. Certo (a differenza dei professionisti) i miglioramenti possono durare anche anni, decenni, ma nella maggioranza dei casi, in presenza di un ottimo allenamento e di un ottimo status sportivo (vedi peso forma) i miglioramenti si esauriscono in pochi anni. Poi, il concetto di record dovrebbe essere sostituito da quello più logico di obiettivo cronometrico che tenga conto dell’età del soggetto, del suo grado di allenamento e di tutto ciò che lo rende realistico.
Il titolo – È sicuramente l’obiettivo meno logico per un amatore. Diventare campione provinciale in una determinata categoria e in una determinata distanza può far piacere, ma quasi sempre non dipende da noi, ma dalla presenza o dall’assenza di avversari più forti. Fissare un obiettivo che non dipende da noi è quanto di più illogico si possa fare. Quindi, i titoli vanno considerati come ciliegine sulla torta e non come piatti principali della propria vita sportiva.
L’impresa impossibile – Si potrebbe definire “velleitaria”, ma uso l’aggettivo impossibile perché a tutti sia chiaro che velleitario vuol dire “al di là delle capacità del soggetto”.
Perché si sceglie masochisticamente un’impresa impossibile? Sono talmente tante le ragioni, che meriterebbero un articolo a parte. Si può citare l’ignoranza; molti amatori che corrono le ripetute nella preparazione di una maratona a 4’30” al km (per esempio 4×2000 m con 3′ di recupero) pensano che ciò dia loro la garanzia di correre la maratona a un “facile” 5’/km. È incredibile quanti runner non conoscano il loro reale valore (spesso amplificato anche da gare con misurazioni molto, molto ottimistiche). Un’altra causa che porta all’impossibile è un esagerato protagonismo agonistico. Si fissa un traguardo perché lo si ritiene essenziale per potersi “stimare” sportivamente. C’è gente che incomincia a correre e si pone come obiettivo il correre la maratona sotto le tre ore in uno o due anni, senza porre la minima correlazione con il proprio reale valore sportivo. Altra causa può essere un’eccessiva propensione a vivere la vita (e quindi lo sport) come un insieme di sogni senza i quali sarebbe meschina e priva di senso. La grande impresa è vista come facente parte di uno di questi sogni che rendono lo sport meno faticoso.
A prescindere dalla causa, la scelta di un’impresa impossibile si rivela sempre fallimentare, anche quando il soggetto “ci prova”, ben sapendo egli stesso di non avere possibilità (il caso del sognatore, comunque conscio che il suo è un sogno). L’allenamento risulta sovradimensionato sia qualitativamente sia quantitativamente e i test e le verifiche sul campo diventano frustranti e alla lunga demotivanti.
L’obiettivo ideale
È quello che raccoglie i migliori frutti dell’allenamento. Se lo si analizza in dettaglio si scopre che raccoglie in sé i pregi dei vari obiettivi di tipo “puro”, evitandone i difetti. Vediamone le caratteristiche.
Realistico. Non deve superare cioè la capacità del soggetto.
Motivante. Non deve esservi cioè la certezza del suo raggiungimento. Chi ha già corso una maratona non può porsi come scopo il semplice “partecipare alla seconda” (a meno che nella prima non sia giunto strisciando e ora voglia arrivare bene!) perché l’obiettivo è troppo facile e rischia di portare alla prova un soggetto sottoallenato rispetto alle sue reali possibilità. La percentuale di successo varia a seconda della caratura dell’atleta. Se nell’atleta che partecipa alle olimpiadi può essere dell’1%, in un amatore è corretto fissare obiettivi con una percentuale di raggiungimento del 50%.
A medio termine. Un obiettivo a breve termine (la domenica!) non consente una programmazione adeguata e intralcia ogni piano di allenamento corretto; uno a lungo termine alla fine rischia di essere demotivante perché il soggetto non riesce a mantenere la concentrazione necessaria.
Ufficiale. Deve cioè avere una cornice di ufficialità che ne sottolinea l’importanza e certifica il risultato. Fare il proprio record in una maratona è diverso dal fare una prestazione cronometrica in una non competitiva di 42 km con un percorso “dubbio”. L’importanza della manifestazione deve essere coerente con il valore del soggetto. A questo proposito faccio notare come molti siano i runner che partecipano a mondiali o europei senior quando questi si svolgono in Italia, in casa praticamente. Si tratta spesso di atleti di caratura non eccelsa, attirati dal “nome” della manifestazione. Al di là di ogni protagonismo (sono arrivato ventunesimo ai mondiali: nella sua categoria erano in ventuno!), è da notare come un runner equilibrato, ma di valore non compatibile con i vertici, non possa non riconoscere che la manifestazione non possa essere motivante, al di là del semplice: “io c’ero”. Diversa è la partecipazione di un runner che termina una maratona nazionale in 3h45′, sostanzialmente in mezzo al gruppo: utilizza una manifestazione prestigiosa non per la semplice presenza, ma per tentare un record in mezzo a tanti altri runner di pari valore.
Sfidante in senso positivo. È il corretto completamento di motivante. Il soggetto ricava uno stress positivo (eustress) dalla sua meta perché vive la preparazione come una sfida che ha buone possibilità di vincere. Il confine fra il soggetto insicuro e quello sicuro di sé sta proprio nella consapevolezza della probabilità di riuscita. L’insicuro che partecipa alla cento km per dimostrare a sé di essere in grado di correrla non sa (se richiesto) quante possibilità ha di finirla in un certo tempo; l’atleta ben preparato e consapevole del proprio valore che vuole scendere sotto le 3h in maratona partendo da un record di 3h01′ sa invece che può riuscirci diciamo al 40% o al 60%: a prescindere dai numeri, a un’attenta valutazione della situazione riesce a formulare la sua probabilità di riuscita.
Runner – La programmazione annuale
Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di obiettivi; per cercare di conseguirli è decisamente opportuno pianificare annualmente la propria stagione podistica. Si deve subito precisare che, parlando di programmazione annuale non si vuole trattare della vecchia programmazione piramidale, ormai sostituita dal ciclo di allenamento dell’atleta. Una visione moderna della programmazione annuale intende, infatti, semplicemente fissare gli obiettivi della stagione, ottimizzandoli rispetto alle caratteristiche dell’atleta.
Mentre per i professionisti il discorso è complicato da fattori legati al loro status, per l’amatore, il cui unico scopo dovrebbe essere quello di correre per vivere meglio e per fare sport il più a lungo possibile, è facile tratteggiare due profili tipici, motivandoli con la moderna teoria dell’allenamento.
Requisito fondamentale per cui ha senso parlare di programmazione annuale è che l’atleta riesca ad allenarsi abbastanza costantemente, non sia decisamente sovrappeso e sia in grado di correre almeno una mezza maratona (non sia cioè un principiante).
Primo profilo: il mezzofondista – È colui che gareggia sulle classiche distanze delle gare su strada domenicali, non disdegnando la mezza maratona; può anche provare la maratona occasionalmente, non più di una volta all’anno.
Secondo profilo: il maratoneta – È colui che corre più di una maratona all’anno.
Sembrerebbe impossibile ricondurre le miriadi di podisti a due soli profili, ma, ragionandoci sopra, vedremo che gli altri profili contengono errori più o meno grossolani nella gestione.
Il primo profilo
Da un punto di vista stagionale si caratterizza così:
Primavera-Estate: gare su strada (da 10 a 21 km), serali (da 5 a 10 km), eventuali gare in pista su distanze superiori ai 3000 m.
Autunno: come sopra o in alternativa preparazione di una maratona.
Inverno: preparazione invernale (con eventuali corse campestri) o in alternativa preparazione di una maratona se non l’ha corsa in autunno.
Vediamo gli errori tipici di questo profilo:
a) a causa di campionati provinciali, regionali, Grand Prix ecc., preparazione di distanze tipiche del mezzofondo veloce. Se nulla vieta di correre un miglio, è abbastanza assurdo sperare di conciliare la preparazione per gare di 10 km con quella per un miglio (o peggio un 800 m).
Altrettanto assurdo è sprecare un mese o sei settimane per preparare una gara decisamente più corta di quelle abituali. L’errore non è quindi correre la gara corta, ma prepararla ad hoc: si mandano al proprio corpo stimoli continuamente diversi che provocano trasformazioni che non sempre si riesce a gestire.
b) Assenza dei periodi di scarico. L’atleta gareggia tutto l’anno, certo che, trattandosi di gare corte, non possano fare danni. Assurdo dal punto di vista teorico e pratico, spesso un tale atteggiamento accorcia la vita atletica del soggetto, sia a causa di netti cali di rendimento sia per l’aumentata predisposizione agli infortuni.
c) Partecipazione a due o più maratone nel periodo autunnale o invernale. Per farlo occorre essere maratoneti, soprattutto come mentalità. Partecipare alle maratone perché non ci sono altre gare interessanti è una pessima strategia.
d) Vedere la preparazione invernale soprattutto come periodo quantitativo (predomina il lento) o potenziante (il cosiddetto potenziamento che tornerà utile in estate!?). In realtà il soggetto confonde un corretto periodo di scarico e costruzione invernale con un periodo di rilassamento in cui predominano allenamenti tutto sommato facili.
Il secondo profilo
Da un punto di vista stagionale si caratterizza così:
Primavera-Estate: gare su strada (da 10 a 21 km), serali (da 5 a 10 km), eventuali gare in pista su distanze superiori ai 3000 m.
Autunno: preparazione di una maratona.
Inverno: preparazione invernale e preparazione di una maratona in tardo inverno o inizio primavera (fino al mese di aprile compreso).
Gli errori tipici di questo profilo:
a) come sopra.
b) Come sopra, ma non nel senso di gareggiare spesso quanto di correre troppe maratone. Se correre una maratona come lunghissimo si può fare teoricamente anche un paio di volte al mese (nella parte agonistica della stagione), correrla al massimo è un altro discorso. Dai dati di atleti di vertice appare assolutamente irragionevole correre più di cinque maratone all’anno.
c) Abolizione nel periodo primaverile-estivo (da maggio ad agosto) della conversione su distanze più corte. A parte il fatto che per un amatore correre a ritmi svelti rallenta l’invecchiamento, preparare una maratona (che magari si correrà anche in Scandinavia con temperature ottimali) con il clima italiano nei mesi centrali dell’anno è un inutile stress per il proprio fisico.
d) Periodi di scarico totale dopo una maratona. Se l’atleta sente il bisogno di staccare con la corsa per tre o più settimane non è un maratoneta e sta sbagliando profilo. Periodo di scarico sì, stop per riposare no.
Esaminiamo ora altri profili che contengono implicitamente errori di programmazione.
L’invernale – Punta tutto sulle competizioni invernali, spesso le campestri. Per un amatore le campestri possono far parte della preparazione invernale, ma senza che costituiscano un obiettivo prioritario. Le competizioni campestri amatoriali sono organizzate spesso su distanze troppo brevi per essere veramente allenanti e con percorsi alla Rambo che (oltre ad amplificare la possibilità di infortunio) non consentono velocità decenti. L’invernale esaurisce tutte le sue cartucce in pochi mesi e vivacchia per il resto dell’anno, non capendo il motivo di certi “sorpassi”.
L’agonista – Non ama particolarmente gli allenamenti e si allena con le gare; partecipa a non competitive, a gare serali, a gare lunghe, a mezze maratone. Per lui la programmazione la fa il calendario: se c’è una corsa nei paraggi, DEVE farla.
L’antiagonista – È colui che per scelta o per necessità non gareggia che in poche occasioni all’anno, spesso concentrate in una particolare stagione. Sia che sia maratoneta sia che sia mezzofondista, fare poche gare all’anno non consente di fare una programmazione sufficientemente diversificata. Se il professionista può puntare tutto l’anno su un appuntamento, l’amatore, se lo fa, non avendo le stesse motivazioni, rischia di fondere e di disinnamorarsi della corsa.
Lo specialista – Si è convinto di essere uno specialista della pista, delle gare in salita ecc. L’errore di fondo è rappresentato dal fatto che la specializzazione ha senso solo ad alti livelli. Un amatore che fa solo gare in pista, solo gare in montagna ecc. finisce per dare al proprio corpo sempre gli stessi stimoli e, inevitabilmente, invecchia sportivamente prima di chi varia.
Il variabile – Modifica continuamente la programmazione, spesso perché vengono meno gli obiettivi che si era prefisso. In genere la paura di affrontare l’obiettivo provoca una continua rinuncia o un continuo rinvio. Tante mezze programmazioni non fanno una programmazione decente.
Il perfezionista – Sceglie una programmazione eccessivamente cesellata, non può saltare un allenamento, cerca continue verifiche. In un certo senso è schiavo del programma che, anziché aiutarlo, lo “uccide”.
Il rinunciatario – Non programma perché la sua attività dipende da quella dei compagni di allenamento, dal gruppo cui appartiene. Anche se le caratteristiche sono simili, ogni atleta deve avere la propria programmazione e un programma collettivo è possibile solo di massima.
Questi sono alcuni spunti di riflessione. L’importante è che giunga il messaggio:
non ci si può allenare bene se non si hanno le idee chiare su cosa si vuol fare.
Runner estivi e invernali: come mitigare l’effetto della stagione sulle prestazioni
Con l’arrivo della primavera per molti runner cambia lo scenario delle prestazioni. Mentre per molti finisce l’incubo dell’inverno, per altri si apre la stagione più interessante dell’anno. A parte preferenze psicologiche di clima (chi soffre il freddo, chi il caldo) o di gare (chi ama le campestri e chi le odia), una buona parte di atleti si esprime fisiologicamente meglio solo in uno dei due periodi, invernale (da novembre a marzo) o estivo (da aprile a ottobre). Senza volere indagare le cause (che sono molto più complesse del semplice fattore climatico), è utile dare consigli per mitigare l’effetto della stagione sulle proprie prestazioni.
Runner invernali (come comportarsi nel periodo estivo)
Sono i più penalizzati perché la maggior parte delle gare si svolge nel periodo estivo. La situazione si capovolge nel caso dei maratoneti che in genere possono trovare le migliori condizioni climatiche. Pertanto:
Non maratoneti – Cercare sopratutto la qualità, a scapito della quantità. Utilizzare anche sport alternativi (come la mountain bike), sfruttando le belle giornate, per evitare che la corsa prosciughi troppe energie psichiche e fisiche. Se i problemi sono legati al caldo (per esempio sudorazione eccessiva), valutare la loro rimozione con lo studio dell’alimentazione (per esempio diminuzione o eliminazione dell’assunzione di sale ) e con check-up medici.
Maratoneti – Utilizzare il periodo per divertirsi, con allenamenti mirati a gare più corte; utile la corsa in montagna (il clima è “più invernale”); anche in questo caso affiancare la bici alla corsa può essere molto utile. Non commettere l’errore di iniziare a preparare seriamente una maratona, partendo ad agosto!
Runner estivi (come comportarsi nel periodo invernale)
Non maratoneti – Utilizzare il periodo negativo per dedicare molte sedute al potenziamento; non sforzarsi di mantenere a tutti i costi i livelli estivi (magari allenatevi con chi d’estate va più piano) e di gareggiare sempre; anzi riducete al minimo le competizioni, selezionandole opportunamente.
Maratoneti – Probabilmente la prossima maratona sarà per lo meno a marzo (se non ad aprile, altrimenti che “runner estivi” sareste?); prima di iniziare la preparazione vera e propria, comportatevi come i “non maratoneti estivi”.
Gli errori del runner
Questo paragrafo riassume gli errori più grossolani che ogni runner dovrebbe evitare se vuole “capire” veramente la corsa. Molti errori sono già trattati singolarmente nel sito, ma è sicuramente utile riassumerli e averne una visione di insieme perché, incredibilmente, la percentuale di runner che vi cade è ancora altissima. La lettura di questo paragrafo può essere considerata un valido test per:
- valutare l’affidabilità di personaggi cui vorreste affidarvi per consigli, allenamenti ecc.;
- valutare se avete le basi per poter diventare allenatori di voi stessi.
Non si tratta di concetti soggettivi o opinabili (come per esempio la scelta delle scarpe), ma di dati di fatto inconfutabili.
Gli 8 più comuni errori del runner
L’ordine di presentazione rispecchia un po’ la percentuale di coloro che cadono in errore.
1) I dolori del giorno dopo: ho le gambe piene di acido lattico.
È questo l’errore più comune e grossolano, in cui cadono anche molti terapeuti (provate con il vostro massaggiatore, il vostro medico ecc.). Dall’articolo sui dolori muscolari:
Contrariamente alla credenza comune, il dolore successivo allo sforzo NON è dovuto all’accumulo o all’azione dell’acido lattico. Anche alte concentrazioni di acido lattico (le più alte si hanno al termine di gare di velocità prolungata come gli 800 m) un’ora dopo lo sforzo si sono drasticamente ridotte fino ad azzerarsi qualche ora dopo.
I dolori derivano dai microtraumi sia meccanici sia biologici. Da questo punto di vista esce ridimensionata la figura del massaggiatore che, se utile nell’immediato post-sforzo (come accade nei professionisti), è del tutto inutile o addirittura dannosa quando ormai il quadro clinico si è consolidato, rischiando di aggiungere a un trauma un altro trauma (il massaggio non deve essere cioè masochistico: se provoca dolore è lesivo e non curativo).
2) Prima della gara prendo un energetico.
Altro comportamento dettato solo dall’illusione di poter migliorare le prestazioni e dall’insicurezza. Prendere energetici (carboidrati) immediatamente prima della gara non solo non ha senso, ma rischia di far peggiorare la prestazione; infatti per il meccanismo dell’asse insulina-glucagone si blocca il rilascio del glicogeno e dei grassi. Quindi basta con la confezione di carboidrati liquidi o in gel prima del via o della “mitica” quanto inutile pappa reale!
3) Per dimagrire bisogna correre piano perché i grassi si bruciano a basse velocità.
Riprendo dall’articolo sul dimagramento:
Supponiamo che il soggetto mantenga il suo peso con 2.000 calorie al giorno, di cui 300 sono dovute all’attività sportiva. Se l’attività è blanda si bruciano preferenzialmente i grassi, se è intensa i carboidrati. Al che i geni pensano: perché correre forte se si bruciano i carboidrati e non i grassi? L’errore di fondo è che le 300 calorie delle 2.000 che assumiamo andranno a sostituire il substrato energetico che è andato perso con la corsa: se abbiamo bruciato grassi, le 300 calorie andranno a sostituire il grasso perso, se bruciamo carboidrati andranno a sostituire la riserva di carboidrati persa (glicogeno). In entrambi i casi il soggetto mantiene il suo peso: può dimagrire solo se assume meno di 2.000 calorie al giorno.
4) Per prevenire l’anemia del runner si deve assumere ferro.
Le anemie del runner sono raramente sideropeniche (da carenza di ferro). Come è spiegato in un altro articolo, la vita media dei globuli rossi diminuisce a causa dei microtraumi generati dalla corsa. Se manca lo stimolo alla produzione di nuovi eritrociti (e questo stimolo è dato dall’eritropoietina), per quanto ferro si prenda i valori ematici non cambieranno! Anzi, un eccesso di ferro può accumularsi nel fegato (emocromatosi) con gravi danni epatici.
5) Devo ascoltare chi va più forte di me.
Questo è un punto che denota una scarsa comprensione del mondo dello sport; infatti si dà per scontato che la prestazione sia frutto dell’allenamento migliore. Ciò può innescare la patetica illusione che “con l’allenamento si può arrivare dove si vuole”. Se in un professionista, che è già molto vicino alla vetta, questa motivazione può creare stimoli positivi, in un amatore di solito porta al disastro (infortunio, sovrallenamento ecc.). In realtà esistono individui molto dotati e altri no (perché non accettare la realtà?); i primi, anche se allenati malissimo, andranno sempre più forte dei secondi allenati dal miglior allenatore di questo mondo. Un forte atleta può cioè essere forte di natura, senza aver capito perché lo è: anche con allenamenti sbagliati arriva sempre piuttosto avanti. Ovvio quindi che non ha senso prendere per oro colato tutto ciò che proviene da chi va più forte di noi. I migliori allenatori sono stati di solito atleti mediocri. Un conto è andare forte e un conto è capire come si fa a far migliorare un runner…
6) Mi sono stirato un muscolo.
È incredibile come pochissimi runner conoscano la fisiologia del muscolo e i danni che ne conseguono. Lo “stiramento” non esiste, esistono quattro livelli di patologia muscolare, ognuno dei quali ha una propria causa e una propria cura. Se non le conoscete, rileggetevi l’articolo sulle lesioni muscolari.
7) Mi copro di più così dimagrisco prima – Per eliminare la pancetta occorre fare tanti addominali.
Tralasciando il fatto che ormai tutti dovrebbero sapere che l’acqua persa sudando si recupera comunque e quindi il dimagrimento è fittizio, molti sono ancora convinti che un effetto termogenico locale (ottenuto con un abbigliamento pesante o con un esercizio specifico) abbia un notevole effetto dimagrante. Ecco allora migliaia di addominali per eliminare la pancetta o la signora che corre con fuseaux pesantissimi in piena estate per snellire le gambe. In realtà vale sempre l’equazione di cui al punto 3: il grasso (o i carboidrati) eliminato localmente viene ripristinato dalle calorie assunte poiché nei vari soggetti ha punti preferenziali di localizzazione.
8) Sudo e mi depuro.
Questa affermazione nasce da una visione troppo “ecologista” del mondo e del corpo: siamo circondati di impurezze, inquinanti, veleni che parzialmente entrano in noi e sono necessarie tecniche depurative (per esempio il digiuno, la sudorazione, le tisane depurative e chi più ne ha più ne metta). L’errore di fondo è che un corpo sano sa depurarsi normalmente, altrimenti non starebbe in equilibrio. Le cosiddette tecniche depurative producono più scorie che depurazione. L’eccessiva sudorazione fra l’altro fa perdere al corpo sostanze preziose e per l’aumento della temperatura corporea obbliga molti organi a un superlavoro con produzione di altre scorie: si ottiene cioè l’effetto contrario.
Il runner “debole”
Dopo la rassegna degli errori più comuni del runner, in questo paragrafo analizzeremo la figura del runner debole precisando che il termine debole non è riferito alla caratura atletica, ma a quella mentale, psicologica.
Uno dei maggiori limitatori della prestazione è sicuramente una psicologia fragile. Esiste un tipo di atleta che, al di fuori della corsa, può apparire del tutto normale ed equilibrato. In realtà il suo equilibrio è solo dovuto all’assenza di fattori di scontro (famiglia, lavoro, amici ecc.), casualmente non presenti o accuratamente evitati con scelte di vita importanti.
Nella sua dimensione agonistica la corsa però spesso mette in crisi lo pseudoequilibrio del sistema, perché la fatica è uno stato decisamente critico per chi vuole livelli di tranquillità notevoli nella propria esistenza.
D’altro canto il soggetto avverte il piacere dello sport, ne apprezza i benefici, sia fisici sia psichici. Anzi addirittura comprende che lo sport può farlo diventare più forte e che quindi può giovargli anche nella vita. Il vero problema diventa allora lo scontro fra la psicologia primitiva del runner e quella che desidera sia la sua nuova pelle.
In questo scontro non è detto che il nuovo vinca sempre, anzi spesso soccombe, sopraffatto da una serie di compromessi che lasciano le cose come stanno. Nei paragrafi successivi analizzeremo alcune caratteristiche del runner debole.
Il runner debole teme per la sua salute
Il caso più patologico è il timore per il proprio cuore (su questo timore, nelle palestre, il cardiofitness ha costruito un business colossale), perché il runner debole non conosce i meccanismi di difesa del muscolo cardiaco. Più frequentemente, il timore per la salute è rappresentato da una scarsa propensione a correre in momenti climaticamente sfavorevoli: d’estate per fare una decina di chilometri si porta mezzo litro d’acqua e d’inverno per correre con la pioggia si barda come per una spedizione al Polo Nord. I casi più gravi non si allenano affatto. Guardate l’abbigliamento di un runner e capirete la forza della sua mente.
Un altro atteggiamento classico è l’uso di integratori non per migliorare la prestazione, ma per sopperire a eventuali carenze che lo sport può aver innescato: pensate che i ragazzi keniani quando si fanno venti chilometri per andare a scuola si portino gli integratori salini?
Il runner debole non corre mai da stanco
La frequenza di allenamento del runner debole è bassa: 2 o 3 allenamenti alla settimana, raramente 4, a prescindere dal tempo a disposizione. Non sopportando la stanchezza, vuole sempre correre da riposato e quindi usa uno o due giorni per recuperare il precedente “duro” allenamento.
Il runner debole adatta gli allenamenti a un modesto carico di fatica
Poiché non sopporta mentalmente la fatica, il runner debole si ritaglia sempre allenamenti facili. Insieme al punto precedente, questo atteggiamento determina il non impiego della supercompensazione e uno scarso risultato allenante. Un runner debole che era entrato nel nostro gruppo era riuscito a portare il suo potenziale sui 5000 m attorno ai 19′ (3’50″/km). Dopo un anno, abbandonò il gruppo perché l’allenamento era “troppo massacrante”: passò da 5 allenamenti scientifici settimanali a soli tre allenamenti “personalizzati” con due uscite turistiche in bicicletta. Morale: dopo un anno aveva perso 10-15″/km.

Il runner debole adatta gli allenamenti a un modesto carico di fatica
Il runner debole si dedica spesso ad attività parasportive, scambiandole per un ottimo allenamento
Escursioni, gite in bicicletta con la famiglia, partita di tennis con il nonno ottuagenario, nuotata al mare durante il week-end ecc. vengono visti come “fondamentali tasselli” del proprio programma di allenamento. Sicuramente possono essere piacevoli, ma con la corsa nulla c’entrano.
Il runner debole accetta infortuni e invecchiamento come ineluttabili
Non esiste la volontà di andare a fondo di infortuni magari cronici (come un mal di schiena o un dolore al ginocchio) perché “tanto è l’età”… Anche il calo delle prestazioni è sempre e comunque giustificato con l’età, non tanto con un atteggiamento troppo remissivo nei confronti dello sport.
Ovviamente non si deve cadere dalla padella alla brace diventando runner irresponsabili che fanno della corsa un’impresa epica alla Rambo, ma aggiustare le proprie debolezze non può che produrre miglioramenti.
Il runner pseudodebole
La condizione che abbiamo descritta è tipica anche di molti principianti che deboli non sono. La loro debolezza è indotta dall’inesperienza nella corsa. Ovvio che se ricevono il consiglio di coprirsi con k-way, maglione di lana ecc. nei giorni di pioggerellina per evitare una polmonite, se non razionalizzano subito che il suggerimento è sbagliato, probabilmente si comporteranno da runner deboli senza esserlo.
È pertanto importante che il principiante esamini il proprio atteggiamento nei confronti della corsa ed elimini tutte quelle debolezze che pesano come inutili fardelli e sono probabilmente solo il frutto dell’interazione con altri runner con psicologia decisamente fragile. Uno degli esempi più classici è l’uso del cardiofrequenzimetro come strumento per monitorare l’attività cardiaca ed evitare di “esagerare”.
La noia (stanchezza mentale) del runner
Molti lettori ci hanno fatto notare che il problema non è solo tipico del principiante, ma che diventa sensibile anche per una buona percentuale di coloro che hanno terminato la fase del recordman e magari vorrebbero essere buoni wellrunner (cioè “correre per la salute“). Quando può scattare la noia?
- Il runner non corre in gruppo – Viene meno la funzione sociale della corsa, in fondo una delle molle che spinge a uscire.
- Il runner corre più lentamente di anni fa – Ognuno di noi è tarato su un certo minutaggio, probabilmente coerente con la psicologia del soggetto. Così il maratoneta può correre anche per un paio d’ore senza fatica mentale, altri arrivati alla mezz’ora incominciano a soffrire. Andando più lentamente questa soglia arriva prima. Se si va a 5’/km quando venti anni prima si andava a 4’/km, si fanno 10 km in 50′, mentre prima si facevano in 40′. Ovvio che se la soglia di noia è 45′, scatta il problema.
- Il runner non fa più gare – Senza obiettivi, l’allenamento pesa di più.
- Il runner alterna con altri Indice delle materie – Sport – Chi per esempio alterna ora la corsa alla bici, può accorgersi che la corsa richiede una maggiore fatica mentale (che è ripagata da un miglior allenamento a parità di tempo a disposizione) e, di fatto, scatta una forma di rigetto.
I rimedi sono già insiti nella spiegazione dei vari fattori critici; per evitare la noia meglio correre in gruppo, accorciare le distanze, mantenendo lo stesso tempo di percorrenza, fare almeno 2-3 corse all’anno (non chiamiamole gare, ma diamoci un obiettivo), alternare altri sport solo se ci si può permettere di allocarvi un tempo tale che mantenga decente l’allenamento.
Qui però vogliamo dare un suggerimento che si trova raramente nei discorsi di chi parla di corsa: una serie di allenamenti antinoia. La giustificazione comune sta nel fatto che la noia scatta quando una certa lunghezza della prova si abbina a una soglia di fatica non minimale (diciamo dal fondo lento in su). D’altro canto, anche dal punto di vista salutistico (per esempio per mantenere facilmente un peso corporeo atletico), si deve percorrere un numero decente di km. Ecco quindi come fare.
Il riscaldamento deve essere lungo, 4-5 km, corsi a ritmo blando, ma comunque utile a smaltire calorie. Poi segue una serie di prove ripetute in cui la velocità non ha importanza (quindi non sono vere e proprie ripetute), ma ha importanza il numero delle prove. Un esempio:
riscaldamento 5 km + 20×200 m con rec. 1′ da fermo.
Se il runner è “annoiato”, i primi 200 verranno piuttosto lenti, ma poi si sveglierà e si attiverà e sarà piacevole correre gli ultimi a ottima andatura. Il recupero dell’allenamento sarà veloce e non lascerà quella stanchezza tipica di vere prove ripetute. Ovviamente non avrebbe senso trasformare la seduta in una massacrante prova di ripetute, diciamo che i 200 m devono essere corsi all’80%, una forma di ripetute lente (più impegnate comunque di semplici allunghi blandi).
Alternative sono:
- riscaldamento 5 km + 20×300 m con rec. 1′ da fermo.
- riscaldamento 5 km + 20×400 m con rec. 1’30” da fermo.
- riscaldamento 5 km + 15×500 m con rec. 2′ da fermo.
Il recupero da fermo scioglie/spezza la fatica; per avere un’indicazione, si possono correre le prove circa 20″/km più lenti di quanto si corrano 10 prove sulla stessa distanza. Per esempio, chi al massimo corre 10×300 con 1′ rec. in 60″, può correrne 20 “tranquillamente” in 66″.
Per approfondire l’argomento si consulti l’articolo Corsa e noia dove sono presi in esame alcuni suggerimenti per il runner principiante.
Il valore di un runner
L’oggettivo valore di un runner può essere definito in vari modi, ma dal punto di vista pratico non è sempre facile confrontare prestazioni e risultati ottenuti in tempi e su distanze diversi. Meglio correre la maratona in 2h58′ o vincere un campionato provinciale sui 10000 m?
È chiaro che la definizione debba rispettare criteri di oggettività che siano riconosciuti da tutti, cioè sia dalla popolazione sportiva sia da quella non sportiva.
Il valore di un runner è dato dal suo valore economico attuale.
A molti questa definizione non piacerà, ma è l’unica che può mettere tutti d’accordo. È abbastanza illusorio dare altre definizioni che inevitabilmente finirebbero per essere frutto di una visione soggettiva dello sport.
Del resto anche in altri ambienti si fa riferimento al prezzo della merce per dare un’idea del valore a un interlocutore non esperto: un quadro di Van Gogh è stato valutato 3 milioni di euro, il tal calciatore è stato ceduto per 10 milioni di euro, il tal conduttore è passato al tal canale per tot milioni di euro e così via. Potrà sembrare arido rapportare tutto al denaro, ma è l’unico metro “universale”.
In altri termini, si può essere atleti sponsorizzati da grandi aziende oppure atleti che ricevono in cambio al massimo un paio di scarpe fino ad arrivare a quelli che devono pure pagare per avere la divisa sociale.
Purtroppo molti appartenenti agli ultimi due gruppi si illudono di essere grandi atleti…
L’errore del confronto
Negli sport di resistenza, la definizione “economica” ha un’importanza ancora maggiore perché non esistono categorie di merito. In altri sport non è possibile che un atleta di scarso valore possa competere nella stessa gara con atleti di altissimo valore; esistono cioè altri criteri (magari il cui significato è perfettamente noto solo agli addetti ai lavori) come la categoria o un punteggio che non consentono facili illusioni.
In molti sport di resistenza, invece, si può competere nella stessa gara (la maratona è il classico esempio) con il campione olimpico, i tempi hanno un significato relativo perché spesso ottenuti in condizioni e su percorsi diversi, i piazzamenti non vogliono dire nulla perché sono sempre in funzione della presenza o no di avversari qualificati ecc.
Tutto ciò porta l’amatore non equilibrato a esaltare il proprio valore oltre misura, confrontandosi non con la popolazione degli sportivi, ma con quella in generale. Ecco allora che chi finisce una maratona diventa un eroe (ovviamente il sedentario non ce l’avrebbe fatta), chi fa 100 km in bicicletta a 30 km/h va fortissimo (almeno così dice ad amici e conoscenti) perché sa che loro quella velocità non la tengono nemmeno per dieci chilometri ecc.
Il confronto con la popolazione in generale è fuorviante per il semplice fatto che fra i sedentari ci sarebbero decine, centinaia, migliaia di soggetti in grado di arrivare alle modeste stesse prestazioni di tanti sportivi amatoriali.
Per fare un paragone, è come se dicessi che sono fra i 100 italiani più intelligenti perché so parlare molto bene il giapponese (supposto che siano solo 100 gli italiani che parlano bene tale lingua): il punto è che moltissime altre persone intelligenti non hanno né voglia né tempo di studiare il linguaggio in oggetto! Sono per esempio convinto che almeno l’80% dei maschi sedentari sani al di sotto dei 50 anni potrebbe correre una maratona sotto le 4 ore entro 12 mesi se stimolato con un premio di un milione di euro!
Questo atteggiamento di amplificazione del proprio valore è sicuramente presente nella tipologia di sportivo definita “protagonista”, di colui che usa la corsa per cercare visibilità sociale (non riuscendovi in altro modo). Per smontare questi personaggi basta una semplice domanda: “tu fai atletica ad alto livello?” Poiché si sa che fare atletica ad alto livello significa essere professionisti affermati, ovvio che l’interlocutore risponderà di no, naturalmente, convinto che la risposta non alteri il suo prestigio. Invece la logica conseguenza di quel no è che se non si fa atletica ad alto livello, la si fa a basso livello!
Il più corretto ed equilibrato confronto con la popolazione degli sportivi porta a concludere che un campione che vince una maratona internazionale ha un valore mille volte superiore a quella di un atleta che vince un prosciutto in una gara locale il che a sua volta vale molto di più (atleticamente parlando) di chi non vince mai nulla. Questo non deve offendere chi si allena tutti i giorni, deve solo fargli capire che gli allenamenti e le gare non servono per dimostrare il proprio valore e per raccontare le proprie imprese, ma per cogliere un valore soggettivo (la sintonia con il proprio corpo, l’efficienza dello stesso, lo stato di salute psico-fisica ecc.) che è importantissimo.
È soggettivamente che lo sport di resistenza deve essere importante; può esserlo oggettivamente solo per un professionista.

Il modo più corretto per definire esattamente il valore di un runner è quello di fare riferimento al suo valore economico attuale.
L’errore del gruppo
L’errore del gruppo è spesso “inconscio” perché innescato dal comportamento degli altri; correttamente non si considera come pietra di paragone la popolazione, ma, anziché considerare tutta la popolazione degli sportivi, se ne considera solo una parte, il gruppo.
Si ingigantisce così il valore di un atleta considerando un insieme ristretto e il ranking che l’atleta ha in quell’insieme. Se è in alto in classifica ecco allora che il suo valore tende ad amplificarsi. Può accadere in una scuola (dove il campioncino viene osannato senza capire che è primo solo per mancanza di veri concorrenti e che alle selezioni provinciali nemmeno si qualificherebbe per le finali) o in un gruppo sportivo, dove i più forti vengono guardati con invidia e/o ammirazione.
Può accadere anche a livello nazionale, dove il campione italiano viene sopravvalutato, anche se non ha speranze “internazionali”. Molto spesso è l’atleta stesso che decide di rimanere in un gruppo o di sceglierne un altro per avere queste gratificazioni.
Anche in questo caso, per uniformare gli ambienti, altro non resta che una valutazione globale che nella nostra società è economica: ciò che viene apprezzato viene pagato!
I vari tipi di valore atletico
È possibile definire diversi valori atletici e dalla loro gestione un atleta deve trarre i giusti spunti per un allenamento produttivo. In base a cosa si deve decidere il ritmo di preparazione?
Record personale – Dovrebbe essere chiaro che si tratta di un tempo ben preciso e quindi fonte potenziale di informazione. L’unico rilievo è che molti runner considerano record personali ottenuti in condizioni non chiare, come per esempio corse su strada la cui distanza era stata volutamente o per errore gonfiata dagli organizzatori.
Completamente opposto è l’atteggiamento di chi considera record solo quelli ottenuti in condizioni superufficiali (condizioni che un runner amatore spesso vive solo qualche corsa all’anno). Poiché in medio stat virtus, la soluzione migliore è considerare come record personali quelli giudicati tali con spirito critico oggettivo.
Record stagionale – Il record personale fatto dieci anni fa non ha un grande valore (anche se ci sono runner che si iscrivono a un 5000 m con il tempo di vent’anni fa e poi si lamentano se arrivano staccatissimi nella loro batteria).
Il record stagionale è più ragionevole, anche se non sempre si corrono tante prove su una distanza da avere un riscontro attendibile. La soluzione consiste nel parametrare tutto a una distanza base conoscendo i propri differenziali (cioè le differenze al km fra 5000 m, 10000 m, maratonina ecc.).
Così è possibile avere per ogni gara un valore immediato riferito sempre alla stessa distanza. Per esempio, se un runner due mesi fa ha corso i 5000 m in 20′ e oggi corre i 10000 m in 41’10” (e sa che il suo differenziale è di 10″/km fra 5000 e 10000 m), può stabilire che il suo valore odierno sui 5000 m è di 19’45” (3’57″/km), cioè è più in forma di due mesi fa.
Valore in allenamento – Un buon allenatore riesce a capire dai tempi di un allenamento e dalla condizione con cui l’atleta ha finito, il valore attuale dell’atleta stesso. Questo è il tempo da prendere in considerazione per i successivi allenamenti. Poiché in gara esistono atleti che rendono molto di più e altri che addirittura rendono di meno, è dannoso prendere come riferimento per gli allenamenti il record stagionale o comunque il valore in gara dell’atleta.
Valore psicologico – È il valore che l’atleta sente di valere (autovalutazione). In teoria è pericoloso affidarsi a questo indicatore, anzi l’atleta che corre a sensazione è un atleta irrazionale che può fare di tutto, la grande impresa, ma anche andare incontro al più grande fallimento.
In ogni caso, il dialogo con un atleta “psicologico” è veramente impossibile e a volte frustrante: pensiamo alle tremende crisi di chi è convinto di valere meno di 3h nella maratona quando in realtà vale 3h05′. L’atleta parte a 4’15″/km, acquista sicurezza fra il quinto e il ventesimo chilometro (“L’allenatore non capisce niente”), poi, arrivato al trentacinquesimo, inizia una crisi terrificante (“Perché non ho dato retta all’allenatore?”) che lo porta a concludere in 3h10′.
Come allenare un runner amatore
Quest’ultimo paragrafo è “anomalo”, non parla infatti direttamente del runner o di specifiche problematiche legate alla sua attività sportiva, ma è rivolto principalmente a chi vuole imparare ad allenare un runner amatore.
Senza entrare nei dettagli delle finalità dell’allenamento (cioè senza, per esempio, considerare la distanza di gara), l’allenamento di un runner a livello amatoriale non è facile ed è possibile incorrere in due grossolani errori: l’errore dello “scienziato” e l’errore del “professionista”.
L’errore dello “scienziato”
In realtà nessun scienziato commetterebbe un errore così grave, infatti la parola è fra virgolette. Negli anni ’90, per oltre un decennio, si è assistito al boom delle grandezze atletiche quali SAN, VO2max ecc. e molti si sono illusi che potessero servire a dare quella marcia in più ai programmi di allenamento. Purtroppo tali grandezze non sono reali, nel senso che sono solo valori che descrivono un processo. La SAN, per esempio, è una grandezza che identifica un punto su un grafico ottenuto spesso con metodi diversi e approssimazioni varie. Idem dicasi del massimo consumo d’ossigeno. Tutte queste grandezze hanno un significato solo esplicativo per spiegare cosa avviene nell’organismo del runner, ma nessuno, e sottolineo nessuno, può calcolarle in maniera perfetta. Si usano approssimazioni e metodi empirici (come il Conconi) che danno risultati approssimati. Se una misura dà 14.070 m, un’altra può dare 14.210 ecc.
Purtroppo, anche se l’uso di queste grandezze per impostare programmi di allenamento è caduto in disuso, molti amatori che si allenano da soli sono attratti dall’idea di avere qualcosa di nuovo. In genere si tratta di soggetti con buona capacità logica e matematica, ma con scarsa esperienza statistica ed empirica che non comprendono che “da un’approssimazione non si potranno che ottenere dati approssimati” e che “più volte si usano le approssimazioni per ulteriori deduzioni e più l’approssimazione rischia di allargarsi e l’errore con la realtà può diventare enorme”.
Detto questo, va da sé che un programma deve basarsi sul reale tempo sulla distanza ottenuto dal soggetto e che le sue caratteristiche si desumono banalmente dai tempi ottenuti sulle varie distanze senza scomodare SAN ecc. Se per esempio un runner corre la maratona a 4’20″/km e i 3000 m a 3’40″/km dovrebbe essere a tutti ovvio che è un runner completamente aerobico!
L’errore del “professionista”
Viene commesso da quei runner amatori che si affidano ad allenatori che allenano atleti assoluti (a prescindere dal valore di questi ultimi che spesso appartengono alle categorie giovanili). Gli allenatori “di mestiere” vogliono ottenere il massimo dai loro atleti (nel settore giovanile finiscono sovente per nauseare i ragazzi che abbandonano lo sport quando capiscono che non diventeranno mai campioni) e utilizzano programmi e mezzi (pressione psicologica spesso mascherata con un’esagerata attenzione ai dettagli) che, se vanno bene per un professionista, per un amatore sono alla fine devastanti. A meno che l’amatore non abbia una personalità particolarmente nevrotica (“la corsa per me è tutto”), alla fine semplicemente “fonde”, sia perché le sue motivazioni non sono quelle del professionista sia perché il motore e la carrozzeria non sono all’altezza degli ambiziosi obiettivi (anche per semplici ragioni anagrafiche).
La soluzione
Imparare (studiando!) le basi della corsa e fare da sé, senza mai dimenticare che si corre in primis per la salute e per divertirsi, evitando che lo sport diventi un lavoro o uno stress. Fra l’altro, è veramente illusorio sperare che un qualunque allenatore possa trasformare ronzini come noi amatori in purosangue d’élite. Purtroppo, questa frase dura non è affatto compresa (anzi infastidisce) chi sogna di abbassare, per esempio, il proprio record sui 10000 m di due o tre minuti. Una volta ottimizzati (molti allenatori di amatori sfruttano il fatto che un runner non è ottimizzato per millantare virtù che non hanno: ovvio che se un runner diminuisce di 5 kg di peso, si allena due volte in più alla settimana ecc. migliora!), anche il miglior allenatore del mondo potrebbe al più far progredire un atleta del 2-3%. Imparate quindi a ottimizzarvi.
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