Lo sport fa bene e per i bambini può essere un’ottima opportunità di iniziare salutisticamente la propria vita. Sicuramente lo sport aiuta ad avere uno sviluppo armonico del corpo, con un aumento della forza muscolare, uno sviluppo ottimale dell’apparato osteoarticolare e di quello circolatorio. Attualmente il plus maggiore dello sport infantile è sicuramente la lotta all’obesità e al sovrappeso infantili. Se si pensa che un lattante spende circa un quarto delle sue calorie solo per la sua attività fisica, si può comprendere quanto sia devastante per il metabolismo sospendere ogni attività fisica dal primo anno d’età. Dal punto di vista psichico, lo sport aumenta la forza di volontà anevrotica, quindi migliora decisamente la personalità del bambino permettendogli di affrontare meglio le difficoltà della vita. Purtroppo i genitori spesso non sono in grado di gestire l’attività sportiva dei figli e le persone cui si affidano sono troppo orientate a trattare con adulti piuttosto che con bambini o adolescenti: in entrambi i casi il risultato può essere devastante.
La prima cosa da capire è che il termine “bambino” è poco preciso e che sarebbe opportuno riferirsi a fasce d’età. Prima di analizzarle, trattiamo tre errori molto comuni, ma anche molto gravi.
No alla competitività
Molti genitori usano lo sport per insegnare a “vincere nella vita”. Questo approccio deve considerarsi demenziale. Se il bambino recepisce il messaggio (ed è molto facile che lo faccia perché non ancora in grado di sottoporre a vaglio critico gli input che arrivano dai genitori), diventerà probabilmente un violento, un apparente, un furbastro pronto a puntare sempre e soltanto sul risultato. La sua autostima sarà basata solo sui risultati che ottiene e, se non vengono, ecco che diventerà un debole, insicuro e fragile.

Il nuoto può rappresentare un ottimo primo step di approccio dei bambini all’attività fisica
No all’eredità
Più genitori di quanti si pensi riversano nello sport il miraggio di sfuggire alle loro frustrazioni, cercano di far realizzare ai figli quello che a loro è sfuggito. Si pensi alla madre sempre bocciata ai concorsi di bellezza che fa della figlia una macchina da concorso e che farebbe di tutto per vederla trionfare. Nello sport può accadere qualcosa di simile. Il genitore forza il bambino a praticare un determinato sport (il “suo”, anche se il bambino ne preferirebbe un altro) e investe tempo e risorse (per esempio un allenatore) per creare il suo campione. Se il bambino diventerà un adolescente inibito continuerà la sua strada verso un comunque improbabile successo, diventando a sua volta probabilmente un insoddisfatto pronto a passare il testimone ai propri figli. Se invece avrà una personalità forte si ribellerà al genitore, nauseato da uno sport che non sente suo.
No al tifo
Dei tre errori questo è il meno grave, ma anche forse quello presente in ogni genitore che non riesce a vedere i suoi figli in modo distaccato, obiettivo (ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja). Così può capitare che il genitore diventi un penoso tifoso che insulta arbitri e guardalinee in una partitella fra bambini o quello che taccia di incapacità un allenatore di uno sport di cui lui non capisce nulla perché non lo ha praticato nemmeno una volta.
Un grande allenatore di tennis, Mario Belardinelli, soleva dire che il miglior ragazzo da allenare è quello orfano, per rimarcare che nessun genitore sa stare al proprio posto.
Da un punto di vita pratico, una sopravvalutazione delle possibilità può portare il genitore a passare sopra a carenze scolastiche o a difetti caratteriali del bambino, “tanto diventerà un campione”.
Se siete genitori e vi ritenete immuni da questi tre errori, potete continuare a leggere, altrimenti affidate ad altri la gestione sportiva dei vostri figli e, nel frattempo, diventate persone equilibrate!

Solo un bambino su 5.000 arriverà a esordire in serie A
Da 0 a 4 anni
In questo periodo l’attività fisica dovrebbe essere rappresentata dal gioco attivo in compagnia dei genitori o di coetanei. Alcuni pediatri spingono verso attività come il nuoto o la danza.
Sul primo si deve rilevare che nuotare non è affatto naturale per l’uomo che non è animale acquatico; imparare a nuotare deve essere quindi un fatto non traumatico e comunque associato al divertimento e alla sicurezza della presenza dei genitori.
La danza è purtroppo ancora ritenuta lo sport per eccellenza delle bambine, una “tradizione” che, di fatto, diventa spesso l’unica strada di genitori non sportivi che vedono nella danza un’attività comunque positiva. La danza classica è troppo tecnica e, di fatto, molto poco gradevole dal punto di vista psicologico e l’approccio a essa dovrebbe essere comunque differito ad almeno 5 anni.
Da 5 a 7 anni
Questo è il periodo più importante perché, di fatto, si sceglie lo sport. L’errore da non commettere è proprio orientare il bambino su un solo sport, iscrivendolo alla scuola di calcio, al corso di tennis ecc. In realtà, l’approccio più corretto è quello di fargli provare “senza impegno” (cioè senza qualcosa di ufficiale) diversi sport, in modo che sia lui a scegliere il preferito. Il compito del genitore è quello di un oculato consulente:
a) spiegare al bambino i plus dei vari sport; spesso il bambino si orienta per emulazione su quello o quelli praticati dal padre; ciò non è negativo, ma occorre che il genitore apprezzi le eventuali differenze, sia fisiche sia psicologiche, fra lui e il bambino.
b) Evitare che il bambino scelga solo spinto da amici; se il genitore si accorge che fisicamente non è adatto a uno sport, dovrà far presente al bambino che difficilmente potrà emulare il suo migliore amico. Per esempio gli spiegherà che nel basket l’altezza è una grande condizione facilitante, che nella pallavolo lo è anche l’elasticità ecc. Se poi il bambino sceglie comunque lo sport, lo farà comunque conscio dei suoi limiti.
In questa fase può essere utile far vivere al bambino l’esperienza di spettatore dei vari sport, in modo da fargli apprezzare in modo più distaccato l’attività considerata.
Oltre i 7 anni fino all’eventuale agonismo
Ci si dovrebbe orientare su un numero limitato di sport, dopo aver spaziato su diverse opzioni. In genere si va da uno a tre sport al massimo. Il divertimento deve sempre farla da padrone finché il bambino non è pronto (soprattutto psicologicamente) all’eventuale agonismo.
I genitori (e i preparatori) devono portare il bambino all’agonismo se, e solo se, il bambino è abbastanza maturo da non vivere come un dramma un eventuale insuccesso. Purtroppo, visto che la gran parte degli adulti non è preparata agli insuccessi nella vita (avendo un’autostima da risultato), i danni maggiori dello sport infantile si maturano in questo periodo, portando il bambino ormai adolescente ad abbandonare lo sport appena è abbastanza autosufficiente da decidere da sé. In Italia la scarsa pratica sportiva della fascia d’età fra i 20 e i 30 anni è sicuramente dovuta a una cattiva gestione dell’agonismo infantile, periodo in cui divampano i tre errori citati all’inizio dell’articolo.
Molti autori indicano un’età ottimale all’agonismo per i vari sport, ma la pratica corrente dimostra che, a causa dello sviluppo molto differente e delle inclinazioni naturali, non è possibile indicare un’età specifica.
Si può invece indicare un’età massima cui avviare il ragazzo a uno sport per ottenere il massimo nell’età adulta, fermo restano che “programmare un bambino per diventare un campione” è una spia di tremendo fallimento genitoriale. Permanendo l’accoppiata divertimento+agonismo, l’età massima per i vari sport principali è questa:
- calcio: 9 anni
- basket: 10 anni
- nuoto: 6 anni
- atletica di resistenza: 8 anni
- atletica non di resistenza: 10 anni
- sci: 6 anni
- scherma: 10 anni
- tennis: 8 anni
- ciclismo: 12 anni.
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