Il secondo strumento fondamentale della democrazia del benessere è la riduzione dell’orario di lavoro.
Partiamo da un esperimento realizzato in Svezia nel 2014. A Goteborg cento funzionari pubblici, sono stati divisi in due gruppi: la metà ha lavorato solo trenta ore alla settimana, con lo stesso stipendio. Confrontando le prestazioni con i dipendenti a orario normale, si è avuta una paragonabile efficienza e una riduzione dei giorni di malattia. Ovviamente i dati sono statisticamente poco significativi e l’opposizione ha fatto presente che chi ha lavorato solo 30 ore era decisamente molto più motivato a far funzionare il progetto (in altri termini non è possibile un esperimento in doppio cieco, come si fa in medicina).
Riduzione dell’orario di lavoro in Germania
Quando si parla della riduzione dell’orario di lavoro la maggior parte di chi mastica di politica pensa a un’utopia e sorride con benevolenza .
Non importa se nei Paesi scandinavi si stanno già facendo prove del reddito universale (che deve essere dato a tutti per poter avere questo nome, non solo alle fasce più deboli), tanto sono solo prove che mai troveranno un’estensione a tutta la società. Chissà cosa diranno i detrattori della riduzione che non sanno che dal 2018 in Germania la riduzione dell’orario di lavoro è una realtà consolidata e dalla quale non si può più tornare indietro.
Lo storico accordo è stato stipulato fra il sindacato dei metalmeccanici IG Metall e gli industriali che prevede la riduzione, su base volontaria della loro settimana lavorativa fino a 28 ore (dalle 35 attuali) per un periodo minimo di sei mesi fino a 24 mesi. Analogamente chi vorrà potrà lavorare anche fino a 40 ore settimanali. Per ora, se i motivi della riduzione sono familiari o legati a un lavoro usurante, il lavoratore non subirà nessun taglio nello stipendio. Questo punto non è molto “moderno” nel senso che discrimina le scelte personali, ma è solo un primo passo. Curioso il fatto che in Italia diversi diedero la notizia in modo scorretto; fra questi Il Sole 24 ore, secondo il quale la riduzione spetterebbe solo a chi ha problemi familiari (Sì alla settimana da 28 ore per esigenze familiari): ovvio che chi fa del lavoro un valore morale, la cosa dia fastidio.
L’intesa riguardava il Baden-Wurttemberg (la regione di Porsche e Daimler) e riguarda 900.000 lavoratori (sui quasi 4 milioni di metalmeccanici tedeschi).
Alcune considerazioni sull’Italia dove si continua a santificare il lavoro alla nazista (il lavoro rende liberi, il lavoro dà dignità e altre sciocchezze simili). Chiarendo ancora una volta che il lavoro è una condanna sociale che va comunque svolta al meglio per avere il massimo dalle ore che impieghiamo in esso, è chiaro noi siamo indietro di decenni, fondando lo Stato su un concetto del quale i cittadini farebbero decisamente a meno, se potessero.
In Germania l’accordo si è avuto con un governo che in Italia sarebbe una coalizione fra centro-destra e centro-sinistra, con partiti che si potrebbero dire “classici”; qui da noi un tale governo tenderebbe a far andare in pensione più tardi…
Per capire quanto i nostri politici siano arretrati basti pensare che già nel novembre 2017 era arrivato sul tavolo della Merkel un rapporto che giudicava “obsoleta” la giornata lavorativa di 8 ore: ” La giornata lavorativa che inizia la mattina in ufficio e si conclude il pomeriggio è obsoleta in un mondo digitale”. Il rapporto dava massima libertà d’azione al lavoratore che poteva scegliere fra lavorare anche fino a 48 ore alla settimana, ma che, d’altro canto, poteva lavorare anche molto di meno.
Il concetto è chiaro: per aumentare l’indice di qualità del lavoro è necessaria la flessibilità con il lavoratore che decide quanto lavorare in funzione di quanto prende, armonizzando il lavoro con il resto della sua vita. Nella contrattazione con l’azienda non ci sarà più solo il salario, ma anche l’orario di lavoro (ovviamente per non penalizzare l’azienda ci sarà un numero finito di soluzioni standard tipo 20-28-36-40-48 ore). Futuro? In Germania per molti è già presente.

Anche il Giappone (2021) si pone l’obiettivo di favorire la settimana lavorativa di quattro giorni
La teoria della riduzione dell’orario di lavoro
Un secolo fa si lavorava anche 10 e passa ore nei campi, tutti i giorni, per far sopravvivere la propria famiglia; nel 1925 si incominciò ad arrivare a 48 ore settimanali e alla fine del XX sec. si arrivò alle 40 ore. Non si vede perché il progresso sociale e tecnologico non possa portare a lavorare solo sei ore al giorno per cinque giorni alla settimana.
Se si parla di 30 ore settimanali è necessario eliminare concetti come il part-time o il lavoro straordinario. Tutto si semplifica: chi vuole lavorare deve farlo almeno per sei ore al giorno e, se vuole lavorare in più, le ore aggiuntive vengono pagate come le altre. L’orario di lavoro non diventa cioè la principale variabile per la retribuzione del soggetto, ma viene regolamentato per garantire al cittadino una libertà nella sua vita privata in cambio di un’efficienza massima per quando è al lavoro.
Si avrà ovviamente un’ovvia ricaduta sulla disoccupazione e le aziende potranno scegliere fra dipendenti che vorranno lavorare comunque 8 ore e altri che con sole sei ore lavorative si impegneranno a garantire una produttività pari a quella dei colleghi da 8 ore.
Per evitare ogni banale critica al progetto si consideri uno studente che deve preparare una lezione. Lo si può costringere a stare davanti ai libri per 8 ore, ma, se è poco motivato, leggerà tante volte la lezione, ma non la studierà e la sua esposizione sarà al massimo sufficiente. Consideriamo ora lo stesso studente gratificato con la possibilità di uscire due ore prima a divertirsi se si concentrerà maggiormente e studierà meglio. Probabilmente i risultati saranno migliori.
La riduzione dell’orario di lavoro va cioè nella direzione di avere lavoratori più motivati perché più liberi. Ovvio che i lavativi non avranno altra possibilità che accontentarsi del reddito universale.