L’origine del termine populismo sembra sia da attribuire alla traduzione di un termine russo con il quale si designava un movimento rivoluzionario russo della fine del XIX secolo, il movimento populista appunto, che aveva come obiettivo principale l’emancipazione delle classi rurali e dei servi della gleba attraverso la realizzazione di una sorta di “socialismo rurale”.
I termini sono anche legati al Populist Party (anche People’s Party, partito populista o partito del popolo), un partito politico statunitense che fu fondato nel 1891 nella città di Cincinnati, nello stato dell’Ohio; fu operativo fino al 1912 e nel corso della sua storia ventennale fu l’espressione politica dei movimenti di protesta che si erano diffusi, nella seconda metà del XIX secolo, tra i ceti agrari degli Stati del sud e di quelli dell’ovest.
Attualmente, rimanendo nell’ambito della politica, il termine viene spesso utilizzato con un’accezione negativa, tanto da farlo passare come sinonimo di demagogia, ovvero quella pratica politica che si pone essenzialmente come scopo quello di ottenere un consenso popolare sia attraverso promesse la cui realizzazione è molto difficile, se non addirittura impossibile, sia attraverso la soddisfazione di alcuni bisogni immediati di relativo valore che vengono fatti passare come importanti o decisivi.
In un’accezione più “neutrale”, con populismo si potrebbe definire un atteggiamento (o un movimento) politico che mira all’esaltazione del ruolo e dei valori delle cosiddette “classi popolari”.
Come si può intuire da quanto sopra riportato, non è immediato fornire una definizione univoca e universalmente accettata di populismo, tant’è che Peter Wiles affermava: “A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca” (1969).
Quel che è certo è che attorno alla definizione di populismo c’è tuttora una certa confusione e i vari media non hanno certo contribuito a chiarire la questione utilizzando il termine, a seconda della propria visione, in modo diametralmente opposto. Del resto, nel corso dei secoli, sono stati definiti come populisti personaggi (e i relativi movimenti) fra loro decisamente diversi, basti pensare a Jean Paul Marat (il politico e rivoluzionario francese noto anche come l’Amico del popolo), il generale Charles De Gaulle, Adolf Hitler e Benito Mussolini, per non parlare di Gandhi, Jules Nyerere (presidente della Tanzania, e precedentemente del Tanganika, dal 1964 al 1985), Fidel Castro e Juan Domingo Perón.

Il populismo è negativo quando sfrutta lo scarso spirito critico della popolazione
Populismo: il giudizio
Il populismo è un concetto positivo quando si deve fare una rivoluzione non cruenta; è l’unico modo che il popolo ha in democrazia di affermare qualcosa decisamente in contrasto con la realtà che vive. Ne sono esempi l’autodeterminazione di un popolo nello staccarsi da una nazione non sentita propria, la proposta di impeachment di un presidente o di un governo giudicati inetti, corrotti o altro.
Il populismo è un concetto negativo quando esprime le idee di una piccola minoranza che ha la consapevolezza che non sarà mai maggioranza, ma che usa il populismo per promuovere una logica di comodo oppure quando, ottenuto il potere, non si rifà a nessuna ideologia in particolare, modulata ovviamente tramite il buonsenso (che, esaminando fattispecie, può trovare eccezioni all’ideologia); in quest’ultimo caso, la Storia insegna che l’unità popolare si dissolverà ben presto in una ridda di proposte contrapposte che, di fatto, organizzandosi in movimenti e/o partiti, affosseranno il populismo. Non è infatti credibile una democrazia diretta a oltranza perché i cittadini scelgono in base alle informazioni che hanno e a come le giudicano; nella maggioranza di essi il giudizio non è che la trasposizione di ciò che viene loro “consigliato” da chi è sotto i riflettori dell’informazione. Senza un’ideologia di fondo, i vari guru (una volta di giornali e tv, in futuro magari del web) spezzeranno il popolo in tronconi fra loro incompatibili, di fatto ricostruendo una struttura gerarchica sopra il popolo (gli attuali “vecchi” partiti).
Populismo e vecchia politica
Si potrebbe dire che la vecchia politica ha attributi che le sono propri, consolidati da decenni di “pratica” e ancora strenuamente difesi da chi ha una visione tradizonale della politica:
Il politicamente corretto – Dovrebbe essere l’atteggiamento di tolleranza nei riguardi di chi non la pensa come noi, ma spesso non è che il modo di storpiare la verità del proprio pensiero per ricevere consensi.
Il politichese – Cioè quel modo di presentare i fatti nel modo più favorevole alla propria parte.
La superiorità del politico rispetto al cittadino – Simile a quella superiorità vantata dai filosofi verso il popolo, dall’antichità fino a pochi secoli fa, con il filosofo che era il saggio, il sapiente che doveva educare il volgo. Per la vecchia politica il cittadino comune non sarebbe in grado di capire i sottili meccanismi che regolano la società e dovrebbe chinarsi ad accettare l’illuminata azione del politico. Peccato che lo spirito critico medio della popolazione sia aumentato e come la filosofia ha dovuto ridimensionare moltissimo le sue pretese di spandere conoscenza, così la politica dovrebbe cessare la sua arroganza e avvicinarsi alla gente.
La tendenza al compromesso – Il compromesso spesso è necessario per ottenere risultati, ma diventa un punto negativo quando per accettarlo si deve abdicare dalle proprie convinzioni etiche, cosa che spesso il politico tradizionale fa.
La propensione ad anteporre interessi personali alla società – L’attaccamento alla poltrona, i privilegi, la tendenza a costituire una casta.
Basterebbero questi punti ad affossare la vecchia politica, ma forse il più pratico e il più importante è che
la gente è stufa di proposte per lei incomprensibili.