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Grassi saturi

Gli acidi grassi saturi hanno una configurazione spaziale lineare che facilita le interazioni fra le molecole, dando solidità alla struttura; è per questo che normalmente hanno punto di fusione elevato, infatti quelli con almeno dieci atomi di carbonio sono solidi a temperatura ambiente. Inoltre, sono molto conservabili.

A causa della loro struttura, quelli con almeno 16 atomi di carbonio hanno la tendenza a interferire con le normali funzioni metaboliche e, se consumati in eccesso, possono depositarsi lungo i vasi sanguigni formando placche ateromatose e dando seri problemi coronarici.

Sono una fonte privilegiata di energia (ved. il paragrafo I meccanismi energetici): per esempio, dall’ossidazione di una molecola di acido palmitico si arriva a 129 molecole di ATP, mentre partendo da una molecola di glucosio se ne ottengono solo 38.

Grassi polinsaturi

A sinistra un acido grasso saturo (acido stearico), a destra un acido grasso polinsaturo (acido linoleico)

I grassi saturi (spesso erroneamente definiti “animali”) sono demonizzati da 50 anni come una delle principali cause di cardiopatia coronarica (in altri termini, infarto); questa demonizzazione ha portato a estendere l’attacco ai grassi saturi di origine animale su altri fronti come quello del cancro, arrivando ad assurde posizioni di totale esclusione. Anche se non è negli scopi di questo paragrafo, ricordiamo che recentemente le ricerche che prima demonizzavano i grassi saturi come causa di cancro al colon e al retto (non esistono studi che li correlino al concetto generale di cancro!) si sono spostate sul sovrappeso e sull’uso di grassi trans. Riassumiamo come sia possibile, a causa di interessi commerciali e scientifici, sostenere per 50 anni posizioni completamente errate.

1954: un giovane ricercatore russo, David Kritchevsky, pubblica uno studio sugli effetti dell’aggiunta di colesterolo alla dieta vegetariana dei conigli. Lo studio indica la formazione di ateromi (le placche che ostruiscono i vasi sanguigni). Kritchevsky (in contatto con l’American Oil Chemists Society) pubblica una ricerca dove descrive il benefico uso di acidi grassi polinsaturi sui livelli di colesterolo.

Seconda metà degli anni ‘50: viene costruita la teoria dei lipidi, in parte fraintendendo gli studi di Kritchevsky. I grassi saturi e il colesterolo dei cibi animali innalzerebbero il livello di colesterolo nel sangue. È avviata una serie di iniziative (fra cui, 1957, l’Anti-Coronary Club, a cura del Nutrition Bureau of the New York Health Department) in cui la margarina sostituisce il burro e i grassi saturi animali.

1956: l’American Heart Association (AHA) presenta l’ipotesi dei lipidi e lancia la Prudent diet nella quale olio di mais, margarina, pollo e cereali sostituiscono burro, lardo, carne e uova. Solo il dott. White dissente dai suoi colleghi della AHA, con la banale constatazione che nel 1900 l’infarto miocardico era praticamente sconosciuto nonostante il consumo di uova fosse tre volte superiore a quello del 1956 e l’olio di mais non fosse disponibile.

1964: il famoso cardiochirurgo De Bakey pubblica una ricerca [9] su 1.700 pazienti in cui dimostra che non c’è relazione fra livelli ematici di colesterolo e ostruzione delle arterie.

1966: termina l’esperimento del dott. Joliffe (Anti-Coronary Club) e i risultati vengono pubblicati sul Journal of the American Medical Association [11]: il gruppo con Prudent Diet mostra un livello sierico medio di colesterolo di 220 contro il livello di 250 di quello del gruppo di controllo. Nel gruppo con Prudent Diet ci sono state (in nove anni) otto morti per patologia cardiaca contro nove in quello di controllo che mangiava carne tre volte al giorno. Nel frattempo lo stesso Dott. Jolliffe, sostenitore della Prudent Diet, muore per trombosi vascolare. I sostenitori della teoria dei lipidi liquidano l’esperimento dicendo che i numeri coinvolti sono troppo piccoli per essere statisticamente significativi. Viene ripetuto l’esperimento su 2.000 soggetti, ma i risultati sono equivalenti. A questo punto il dott. Page dell’AHA suggerisce che si deve impiegare un campione di un milione di unità: il progetto inizia, ma non viene mai terminato “per ragioni di costi”.

1968: l’International Atherosclerosis Project (analisi di 22.000 corpi di 14 nazioni) mostra che il livello di ateroma è lo stesso in tutte le parti del mondo a prescindere dal modello alimentare [7]. Conclude una serie di studi che sono orientati ad affermare che il restringimento delle arterie è un fenomeno naturale molto complesso che non si può ridurre alla sola ipotesi dei lipidi.

1968: per la prima volta la AHA mette in guardia dall’impiego dei grassi idrogenati, ma la Procter&Gamble riesce a far ritoccare il documento, eliminando ogni accenno ai grassi trans.

1978: riprendendo gli studi di Kummerow, Mary Enig pone l’accento sulla correlazione fra patologie cardiache e acidi grassi trans.

1982: un altro famosissimo studio ([27], Multiple Risk Factor Intervention Trial, MRFIT) cerca di correlare il rischio cardiovascolare al livello di colesterolo di 362.000 uomini e trova che le morti annuali sono leggermente inferiori allo 0,1% con livelli di colesterolo sotto ai 140 mg/dl e circa lo 0,2% per livelli sopra i 300 mg/dl. Questo basta per far dire al dott. La Rosa dell’American Heart Association che la curva di rischio inizia a flettersi decisamente a 200 mg/l, mentre in realtà la “curva” è una retta che non mostra nessun punto critico. Matematicamente ciò significa che abbassare di 32 mg/dl i livelli di colesterolo (forse il massimo di quello che si riesce a ottenere con l’alimentazione!) abbassa il rischio di morte dello 0,02%!

1983: Kummerow (università dell’Illinois) mostra come il consumo di grassi trans aumenti il rischio cardiovascolare [34].

1984: in un altro studio la Enig mostra come i grassi trans interferiscano con il sistema enzimatico che dovrebbe neutralizzare gli agenti cancerogeni, potenziando l’azione di questi ultimi.

1984: il rapporto finale della Cholesterol Consensus Conference fissa a 200 mg/dl il limite di rischio e consiglia di sostituire il burro con la margarina.

1987: viene pubblicato il primo studio [12] sugli abitanti di Framingham, un piccolo centro del Massachusetts (analisi di 5.209 abitanti dal 1949 al 1953 e successivamente di un secondo gruppo dal 1968 al 1975 cercando di correlarlo al primo gruppo, ormai prossimo ai 50 anni). Il famoso studio Framingham mostra che non c’è nessuna significativa differenza nel rischio cardiovascolare fra individui i cui livelli di colesterolo variano da 204 a 294 mg/dl [25]. Nonostante ciò, il dott. Kannel, direttore dello studio, sentenzia che il livello di colesterolo totale plasmatico è un potente indicatore del rischio cardiovascolare. È solo dieci anni dopo che i dati dello studio Framingham vengono pubblicati senza enfasi sul l’Archives of Internal Medicine.

1993: gli studi del ricercatore di Harvard, Willett (1993, database del Nurses Health Study, 85.095 donne, [45]-[46]), confermano l’aumento del rischio cardiovascolare legato all’uso dei grassi trans.

1994: lo studio di Ascherio [13] conferma la ricerca di Willett.

1998: una ricerca promossa dall’American Heart Association [48] conferma i dati già noti: 1% di colesterolo in meno per 1% di grassi saturi in meno nella dieta. Scopre però che diminuisce anche il colesterolo HDL e che aumenta un altro fattore di rischio cardiovascolare: passando dal 15% al 6% di grassi saturi nella dieta, la lipoproteina (a) aumenta del 15%. La diminuzione dell’LDL è così vanificata dalla diminuzione del l’HDL e dall’aumento della lipoproteina (a).

1998: al simposio “Evolution of Ideas about the Nutritional Value of Dietary Diet” D. Kritchevsky ammette che l’uso di diete a basso tenore di grassi non incide in maniera significativa nella mortalità per infarto coronarico. Il cerchio si chiude.

2021:  ancora oggi dopo la chiusura del cerchio c’è ancora chi demonizza i grassi saturi!. La posizione che la dieta italiana porta avanti con le sue prime ricerche 20 anni fa è stata magistralmente riportata da Andrea Poli, specialista in farmacologia e presidente della Nutrition Foundation of Italy (NFI)

Grassi saturi

I grassi saturi (spesso erroneamente definiti “animali”) sono demonizzati da 50 anni come una delle principali cause di cardiopatia coronarica

1 – È incredibile come per almeno 20 anni si sia sostenuta la sostituzione del burro con la margarina e si siano ritenuti i grassi trans innocui, da parte di medici e associazioni per la protezione del cuore.

2 – È incredibile come moltissimi medici si riferiscano a una generica bibliografia senza leggere gli articoli, come si fidino del passaparola per l’inerzia di non aggiornarsi. È comprensibile che ci possano essere interessi milionari nello spingere i farmaci anticolesterolo, ma la matematica non è un’opinione.

Tutti continuano a parlare di colesterolo totale. Ora, se consideriamo lo studio Multiple Risk Factor (su 361.662 maschi, numericamente il più grande studio sul colesterolo), scopriamo che il rischio di cardiopatia ischemica aumenta dell’1% per ogni mg di colesterolo in più mentre l’aumento di colesterolo HDL è associato alla diminuzione del rischio di infarto del 4,4% per ogni mg. Supponiamo che le condizioni iniziali del soggetto siano:

colesterolo totale 200 – colesterolo HDL 50.

Il soggetto cambia stile di vita e arriva a:

colesterolo totale 252 – colesterolo HDL 80.

Ha smesso di fumare, fa sport ecc.

Se è visitato da un medico di vecchia generazione o ritira gli esami in un laboratorio “tradizionale”, cosa scopre? Che gli dicono che ha il colesterolo un po’ alto e che è meglio tenerlo sotto controllo.

Usando lo studio Multiple Risk Factor, si scopre che il suo rischio è diminuito del 20% circa! Infatti, il suo indice di rischio cardiovascolare (colesterolo totale/colesterolo HDL) è diminuito da 4 a 3,15.

Concludendo:

  1. I grassi saturi non incidono significativamente sul rischio di cardiopatia coronarica in maniera diretta (lo fanno in modo indiretto come causa del sovrappeso, insieme ad altre fonti energetiche come carboidrati e altri tipi di grassi).
  2. Il rischio cardiovascolare deve essere espresso innanzitutto come legato ai seguenti fattori controllabili:
  • fumo
  • sovrappeso
  • ipertensione
  • diabete
  • indice di rischio (colesterolo totale/colesterolo HDL).

Fattori come l’età o il sesso sono importanti, ma ovviamente non modificabili e devono essere tenuti in considerazione solo a fini statistici per il calcolo del rischio assoluto. Altri fattori come fibrinogeno, omocisteina, PAI-1 (Inibitore Attivatore del Plasminogeno), uricemia, lipoproteina (a), proteina C reattiva devono essere ulteriormente indagati, ma probabilmente riguardano percentuali piccole nell’insieme degli individui che non presentano i fattori di rischio principali. I fattori da approfondire possono essere considerati sia attivatori del rischio (come un livello di lipoproteina (a) superiore a 25 mg/dl) sia indicatori (per esempio la proteina C reattiva indica un’infiammazione in corso e, specificamente, un’irritazione delle pareti delle arterie). In ogni caso non è facile eseguire screening di massa per capirne fino in fondo la correlazione con la cardiopatia coronarica.

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