Le filosofie orientali sono spesso viste come sinonimo di saggezza, di pace, di calma e di serenità. Negli ultimi decenni siamo stati invasi da decine di discipline provenienti dall’Oriente, senza che ci fosse un reale tentativo di capirle, di analizzarle e, soprattutto, di separarle. Probabilmente questo nasce appunto dal fatto che inconsciamente è presente l’associazione filosofia orientale – disciplina superiore. Ovviamente presso altri soggetti è presente l’associazione filosofia orientale – roba da fuori di testa. Entrambe le posizioni mancano di spirito critico. È anche vero che non sempre i seguaci di queste discipline si manifestano in modo chiaro e comprensibile (amando aforismi a effetto tipici dei loro maestri), aumentando la confusione.
Oltre a religioni importanti (taoismo, confucianesimo, shintoismo ecc.), si sono affermate molte filosofie orientali legate alle arti marziali o a concetti di benessere generale (come lo yoga o il feng shui). Mentre le religioni (tranne parzialmente il buddhismo) non hanno attecchito, le filosofie (complici anche i media che le hanno a sproposito esaltate con film di scarso spessore, molto vicini come spirito al western all’italiana), se non hanno fatto milioni di proseliti, certamente hanno influenzato la nostra società. Spesso l’influenza è positiva poiché rifiutano la violenza fine a sé stessa o asservita all’egoismo, esaltano il valore dello spirito ecc. Non hanno saputo però dare risposte generali e soprattutto concrete, tendendo a un miglioramento dell’individuo senza inquadrarlo nel mondo.
Zen è una voce giapponese che significa “meditazione”; la nota enciclopedia Treccani definisce lo zen nel seguente modo: “Forma di buddhismo giapponese, derivata nel 12°-13° sec. dalla scuola cinese Chan”.
Lo zen e i limiti delle filosofie orientali
Da ragazzi, molti miei coetanei sognavano di andare in India, terra di pace spirituale, quella pace che loro non riuscivano a trovare nel frenetico mondo occidentale. La gente comune li guardava con sospetto e con un po’ di commiserazione; in questo giudizio superficiale c’era sicuramente molta mediocrità; da un lato si percepiva che la soluzione della fuga non era quella ottimale, ma dall’altro si accettava spesso una vita al limite della semplice sopravvivenza, con conflitti quotidiani, assenza di valori e abbondanza di problemi, tutte quelle negatività a cui il ragazzo che voleva fuggire voleva sottrarsi.
Personalmente penso che il ragazzo in fuga e l’adulto che lo commiserava rassegnandosi a una vita appena sufficiente fossero due aspetti della stessa medaglia: l’incapacità di puntare alla massima qualità della vita.
Oggi, anziché fuggire, molti tentano una sintesi fra orientale e occidentale. Quali sono i risultati? Dipendono dalla personalità:
- il debole vede nella filosofia orientale un rifugio (un po’ come un tempo i religiosi usavano l’abito che portavano per difendersi dalle violenze del mondo). In cambio ha serenità, ma se si guarda dentro e si chiede se ha il massimo possibile dalla vita, difficilmente riuscirà a rispondersi positivamente, trovando facilmente cose che vorrebbe migliorare. Non a caso, certe tecniche (yoga, meditazione ecc.) sono più simili a farmaci che il soggetto deve prendere a intervalli regolari per trovare serenità e forza: sono l’analogo degli psicofarmaci occidentali (tranquillanti e antidepressivi), sicuramente con minori controindicazioni, salvo quella appunto di non riuscire ad avere il meglio dalla vita.
- L’irrazionale e il semplicistico sono abbagliati da alcune verità orientali e tendono di fonderle con le proprie, senza accorgersi che sono incompatibili; vivono cioè la confusione dell’eclettico, risolta spesso con comportamenti neofarisei, cioè con adattamenti poco credibili. In effetti ho notato che troppe persone usano le filosofie orientali per giustificare i propri comportamenti spesso incoerenti. Tali filosofie diventano spesso, nella loro complessità, la giustificazione razionale a tutti i propri comportamenti istintivi. Il soggetto vuole vivere istintivamente, ma ha bisogno, vista la propria intelligenza e la propria esperienza, di un contenitore così complesso che possa nascondere le incoerenze della propria vita. In altri termini, presa una “massima”, la si interpreta come si vuole, con una propensione all’eristica, cioè all’uso del linguaggio e del dialogo per giustificare la propria posizione! Non a caso, si affiancano alla disciplina orientale tutta una serie di discipline (si pensi alla medicina alternativa) che di scientifico e razionale hanno ben poco.
- Il mistico trova infine una pace alla sua sete di divino. Contrariamente a quanto sostenuto da dubbi fautori dello Zen (con il termine Zen si indicano diverse scuole -buddhismo giapponese, scuola Chan cinese, Son coreana e Thien vietnamita-; la diversificazione delle fonti rende molto difficile anche delineare tratti comuni che spesso non sono che interpretazioni occidentali dell’originaria matrice orientale) e delle discipline orientali, non è affatto vero che lo Zen e le discipline simili siano scevre dall’aspetto religioso e mistico. Semmai la loro deformazione occidentale e la loro volontà di relativizzare ogni discorso per permettere un adattamento personale che consenta la massima diffusione della disciplina sono i fattori che portano a negare ogni distacco dai riti, dalle preghiere, dalla “Chiesa” insomma, dalla figura del monaco, del guru che sono sempre presenti, vedasi, per esempio, www.monasteroZen.it (Il Cerchio, Monastero Zen).
Si noti che le tre categorie che abbiamo descritto sono di solito mutuamente esclusive. Dai paragrafi soprastanti, dovrebbe essere chiaro che
(1) esiste una parziale incompatibilità fra vivere in Occidente e seguire uno stile di vita orientale,
incompatibilità che si traduce sempre e comunque in una non completa espressione dell’individuo. Paradossalmente, si scopre che un atteggiamento più coerente era quello del nostro ragazzo che voleva andarsene in India! Per i cinefili, consiglio la visione de L’ultimo Samurai* dove, indirettamente, lo spettatore è portato alla stessa conclusione espressa dalla (1).
Zen e benessere
Come esempio di OZ (occidental zen, ma l’espressione vale per tutti coloro che tentano la sintesi occidente-oriente) possiamo citare tutti coloro che associano il termine Zen (o un’altra disciplina orientale) a benessere: seguendo uno stile di vita orientale si arriverebbe a un’ottima qualità della vita. Certamente si può arrivare a una buona o decente qualità della vita, ma non ho mai trovato nessuno che fosse al massimo dal punto di vista complessivo, fisico e mentale.
Difficile trovare persone brillanti, spesso al più un sorriso, mai un entusiasmo pieno per la vita (dal punto di vista del Personalismo si direbbe che il loro stato emotivo sia solo debolmente positivo). Anche nei confronti dell’età, una pacata e rassegnata accettazione dello scorrere del tempo, senza nessuna strategia per rimanere giovanili il più a lungo possibile (non a caso il guru orientale è sempre dipinto come “vecchio”).
Tuttavia nel grande pubblico l’associazione fra oriente (e zen) e benessere è sicuramente attraente, una delle tante illusioni che sono collegate a un’informazione soft: faccio yoga e mi mantengo giovane; uso il feng-shui per la mia casa ed ecco l’armonia. Peccato che tutte queste tecniche funzionino finché uno è giovane o perché nella casa l’armonia casualmente c’è già. In altri termini, sono tutte tecniche che funzionano se esistono già condizioni facilitanti che consentono di ottenere qualche risultato. Non a caso i guru occidental zen sono persone mediamente più intelligenti, mediamente più dotate sul piano fisico ecc., insomma “mediamente più”: usano questo plus naturale per convincere delle bontà delle loro tecniche, tecniche che, applicate su chi quel plus non ce l’ha, sono spesso fallimentari.
Ovviamente qualche risultato le tecniche occidental zen lo danno, ma nulla di più di quello che un sano fitness può dare: tutti noi con una bella passeggiata all’aria aperta in una giornata di primavera ci sentiamo meglio, non c’è certo bisogno di scomodare lo Zen per capirlo!

Lo yoga è un’attività legata alle filosofie orientali che è diventata un vero e proprio trend, praticata da oltre 2 milioni di italiani
Lo Zen
Dopo questa lunga premessa, possiamo esaminare in dettaglio le differenze principali fra Zen e Personalismo.
La sofferenza – Per lo Zen (e per il buddhismo) la strada è la seguente: presa di coscienza che la sofferenza esiste; comprensione del fatto che la sofferenza può essere superata se la si accetta e riconosce; comprensione del fatto che le cause della sofferenza sono proprio nell’ignoranza e nell’attaccamento ai bisogni, alle cose, ai desideri; pratica quotidiana per liberarsi dagli attaccamenti e vivere sereni superando e vincendo la sofferenza. Per il Personalismo la sofferenza esiste, ma è uno stato che spesso nasce a posteriori da scelte errate, non necessariamente derivanti dall’attaccamento a qualcosa (si pensi al caso di un matrimonio “sbagliato”): la salute (spesso influenzata anch’essa dalla comprensione della realtà) e la comprensione della realtà (il Personalismo, appunto) sono le uniche cose che servono per arrivare alla felicità. La pratica sta nell’applicazione di ciò che si è compreso, non in una crescita interiore (che comunque ovviamente non è condannata).
La felicità – Per il Personalismo nelle civiltà avanzate uno stato di felicità continua non è un’illusione, anche se pochi ci arrivano. Lo Zen si ferma alla serenità; per il Personalismo è necessario andare oltre e non limitarsi ad accettare i momenti felici che ci arrivano. Per il Personalismo se non c’è felicità il cammino non è concluso, vuol dire che c’è ancora qualcosa da sistemare. È ovvio che questa presa di posizione è tipicamente occidentale e va gestita correttamente per evitare che si trasformi in un’inversione di rotta (non sono pienamente felice, allora sono infelice, invece di cambiare la mia vita e di gioire nella conoscenza ulteriore che mi porterà al cambiamento).
La difficoltà – Lo Zen non è per tutti anche se a tutti è teoricamente accessibile. Chi non ha una mentalità orientata all’approfondimento filosofico dei problemi dell’esistenza non è in grado di fare molta strada. Le poche persone che ho conosciuto che affermavano di essere Zen o buddhiste in realtà non avevano capito granché e si limitavano a giustificare la loro vita, le loro sofferenze, le loro scelte con atteggiamenti Zen-like che erano in sostanza anti-Zen. Il Personalismo usa regole chiare, a volte “spietate”, che si possono contestare o rifiutare, ma che non si può dire di non aver capito. In quest’ottica è praticamente accessibile a tutti.
La meditazione – Per il Personalismo l’attuazione della capacità d’amare ha le stesse finalità della meditazione. La ricerca profonda dell’io si può fare correndo, giocando a scacchi, suonando il pianoforte ecc. Sono anche scettico sui possibili risultati della meditazione Zen perché non ho mai conosciuto nessun occidentale, fra chi mi diceva praticarla, che fosse una persona equilibrata e senza problemi: ho sempre avuto l’impressione che la meditazione fosse una sorta di medicina da prendere per avere un giovamento esistenziale; questo giovamento il Personalismo lo realizza attraverso la capacità d’amare, in modo molto più semplice. La meditazione deve essere praticata seriamente; pochissimi ci riescono e quindi mi sembra veramente che sia una disciplina per pochi. Il fascino che può suscitare è solo legato alle sue potenzialità (e al mistero dell’Oriente) che però non possono essere traslate nella popolazione. Banalizzando: se una persona è felice è pensabile che “perda tempo” a meditare? Impiegherà il proprio tempo a seguire ciò che ama.
Il giudizio – La grande tolleranza dello Zen passa anche nella sostanziale critica del giudizio (“Chi sono io per criticare?”). Per il Personalismo ogni conoscenza passa attraverso un giudizio (del resto appena si apre bocca si emette un giudizio). Fondamentale è la consapevolezza che il giudizio deve essere rivedibile. Chi si cristallizza in un giudizio definitivo senza avere la predisposizione a cambiarlo è “morto”, inerte. La predisposizione a un giudizio dinamico è alla base di una tolleranza concreta.
Il rapporto fra mente e corpo – Per lo Zen sono “fratello e sorella”, tendendo alla fusione completa fra mente e corpo. Per il Personalismo sono madre e bambino. La madre deve ascoltare il figlio, ma deve mantenere quella razionalità che consente di educare il bambino. L’esempio più semplice è quello dell’appetito. Se la mente ascolta i messaggi del corpo e li farà propri, nel 90% dei casi il soggetto si ritroverà sovrappeso. Non appare convincente attribuire la colpa del sovrappeso all’incapacità di ascoltare il corpo a causa di una cattiva educazione alimentare. Per un soggetto in sovrappeso il messaggio che viene dal corpo è chiaro: voglio mangiare! Per il Personalismo il corpo deve essere educato dalla mente.
Il meccanismo (bloccato in una minoranza della popolazione da stimoli ormonali o psicologici, come lo stress, -infatti in vacanza di solito mettono su qualche chilo-, ma il ragionamento va fatto sulla maggioranza delle persone) è questo:
- il corpo (rimasto evidentemente indietro nei secoli, con una visione primitiva che piace a molti orientali) dice: “cerca il cibo, ho finito di digerire quello precedente; se ne trovi altro lo immagazziniamo per tempi peggiori”.
- Il sistema va in crash perché oggi il cibo si trova troppo facilmente (e quello che si trova è molto calorico).
Basta considerare un soggetto che si alza alle 7 di mattina e va a dormire alle 23. Calcolando i tempi della digestione e fornendogli alimenti digeribili (tipo carboidrati) è banale fargli assumere il doppio delle calorie necessarie per mantenere un peso decente. Per esempio, un soggetto di 70 kg può assumere 400 kcal ogni due ore. Infatti dopo un’ora avrà digerito le precedenti 400 kcal e il suo corpo richiederà altro cibo. In 16 ore assumerà 3.200 calorie! Se è un sedentario, magari quarantenne, è spacciato! Ecco che deve intervenire la mente per correggere la situazione: scegliendo cibi adatti e gestendo lo stimolo della fame.

Le filosofie orientali si sono diffuse sempre di più man mano che è aumentata la coscienza dei problemi delle società occidentali
Alcuni sostengono che in realtà il soggetto non sente il controstimolo della sazietà che comunque il corpo invia. Messo in termini generali, il controstimolo esiste, ma non è temporalmente e quantitativamente uguale per tutti. Nella maggioranza delle persone arriva quando ormai si sono introdotte troppe calorie. E non parlo solo di “bombe caloriche”. Se il soggetto va al ristorante e mangia un primo, un secondo e un dolce (anche ipocalorici) non è affatto sazio e non ha nessun controstimolo, anzi spesso gli sono serviti come stuzzichino. Il vero problema è che, se un soggetto è positivo e ama il cibo, il controstimolo difficilmente arriva!
Se ci si costruisce un’educazione alimentare, invece della sazietà, si impara a controllare (con la mente) il senso di fame e a utilizzarlo per apprezzare ancora di più il cibo. Certo non sono d’accordo per optare per una soluzione “ascetica” dove mi sento sazio mangiando poco e frugalmente: mi sembra una situazione troppo punitiva, leggermente anoressica.
* The last Samurai è un film del 2003 diretto da Edward Zwick e interpretato da Tom Cruise, Koyuki Katō e Ken Watanabe. Il film narra la storia di un capitano, reduce dalla guerra civile americana, che si reca in Giappone con il compito di addestrare l’esercito imperiale giapponese per la lotta contro i Samurai. Durante una battaglia il capitano statunitense viene ferito e preso come prigioniero dai Samurai. La prigionia lo costringerà al confronto con una realtà che cambierà il corso della sua esistenza.
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