La scommessa di Pascal è un assunto del filosofo francese Blaise Pascal per convincere atei e agnostici dell’esistenza di Dio. La scommessa per la quale converrebbe credere nell’esistenza di Dio si basa su due punti:
- se Dio esiste, si ottiene la salvezza;
- se ci sbagliamo, si è vissuta un’esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di una morte che termina tutto.
La scommessa di Pascal (I pensieri, opera incompiuta uscita postuma nel 1669) è scorretta e irrazionale e per una persona moderna non può essere una scelta valida.
Erano i tempi in cui il filosofo o l’uomo di scienza riuscivano a buggerare il popolino grazie alla loro dialettica. Oggi è abbastanza evidente che chiunque sa porre obiezioni alla scommessa di Pascal in quanto è facile individuare le falle in entrambi i suoi punti.
Il problema del primo punto è che non basta credere all’esistenza di Dio per guadagnarsi la salvezza; Pascal commette il grossolano errore di scambiare una condizione necessaria per una condizione sufficiente. Infatti, per “essere salvi” occorre vivere anche secondo le leggi di Dio.
Anche sul secondo punto l’errore è grossolano perché l’esistenza lieta di cui parla Pascal è facilmente smentita dal fatto che la stragrande maggioranza delle persone che comunque credono all’esistenza di Dio temono la morte per cui, di fatto, credere all’esistenza di Dio (soprattutto per scommessa) non migliora le cose rispetto al non credente.

Statua di Blaise Pascal (1623-1662) a Clermont-Ferrand (Francia). Secondo alcuni studiosi moderni, il grande matematico, filosofo e teologo francese avrebbe avuto un quoziente intellettivo altissimo: 185.
La scommessa di Pascal e il concetto di utilità attesa
Da un punto di vista scientifico, la scommessa anticipa il concetto statistico di utilità attesa, definita come media ponderata (i pesi sono le probabilità delle varie ipotesi) delle utilità dei possibili casi.
Vediamo i quattro casi possibili secondo l’interpretazione di Pascal:
- Dio esiste e io ci ho creduto: 1 (ho vinto);
- Dio non esiste e io ci ho creduto: 0 (non ho perso né guadagnato nulla);
- Dio esiste e io non ci ho creduto: -1 (ho perso);
- Dio non esiste e io non ci ho creduto: 0 (non ho perso né guadagnato nulla).
Se io credo, l’utilità attesa è comunque 0,5 (media di 0 e 1). Se non credo, è -0,5. Quindi conviene credere.
Il ragionamento è rozzamente (inconsciamente) utilizzato anche da molti neofarisei che credono in base al principio “ma cosa ci perdo a credere?”.
In realtà stupisce che Pascal, geniale matematico, abbia commesso dei gravi svarioni razionali, annebbiato probabilmente dalla sua fede e dai tempi.
Il primo errore – L’errore più grande è dare per scontato che le probabilità delle due ipotesi (Dio esiste e Dio non esiste) siano uguali. Non si può sapere se Pascal fosse conscio della scarsa razionalità della cosa e abbia usato il trucco per darsi ragione. Per capire il limite della situazione, si consideri un soggetto che ragioni così: “domani o io muoio oppure non muoio, essendo due i casi possibili, ho il 50% di probabilità di morire”. Anche un bambino capirebbe che ritenere i casi equiprobabili è una grossolana forzatura. Senza sapere le probabilità dell’esistenza di Dio ogni ragionamento sull’utilità attesa è inutile e fuorviante. Se la probabilità dell’esistenza di Dio fosse bassa (supponiamo il 10%), le utilità attese diventerebbero 0,05 contro -0,05.
Il secondo errore – Anche correggendo il primo errore di Pascal, si potrebbe sempre pensare che la convenienza, seppure piccola ci sia sempre. In realtà, il secondo errore è nella frase “non ci ho perso nulla”. Se Dio non esiste e io ci credo, la perdita è comunque tanto più evidente quanto più la mia qualità della vita è buona perché risulta appesantita da tutte le costrizioni che la religione porta con sé (per esempio il tempo perso per andare a messa o pregare per un Dio che non esiste, le limitazioni immotivate nella sfera personale ecc.). Nel caso quindi che Dio non esista e io ci abbia creduto, l’utilità attesa potrebbe diventare pesantemente negativa (si consideri per esempio il caso di una donna che non divorzia dal marito violento semplicemente perché la sua religione non concepisce il divorzio).
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