La ricerca di Dio è uno dei temi più affascinanti delle religioni. Perché l’uomo cerca (crea) Dio? A questa domanda vi può essere una duplice risposta, la prima filosofica, la seconda molto più concreta.
Chi è propenso a disquisizioni filosofiche più o meno sottili pensa che l’uomo cerchi Dio per colmare la sua incomprensione dell’infinito. Ci sono momenti in cui naturalmente si è confrontati con la nostra limitatezza spazio-temporale: di fronte a un cielo stellato non è possibile non annegare nell’immensità di ciò che ci circonda. Sui banchi di scuola la poetica dell’infinito ci ha accompagnato nei nostri studi, da Leopardi a Ungaretti.
Tutto ciò è molto sensato, ma non spiega minimamente la nascita delle religioni e dei culti al divino.
Per capire il motivo della ricerca di Dio, più concreta la seconda risposta:
l’uomo non cercherebbe Dio se non ci fossero la morte e il dolore.
o, in altri termini,
non ci sarebbe la religione se non ci fossero la morte e il dolore.
Ovviamente se l’uomo fosse immortale non avrebbe bisogno di ricercare qualcuno sopra di sé; anche nella lotta contro il dolore fisico e psichico probabilmente preferirebbe rivolgersi a qualcosa di più immediato e umano (come la medicina) e solo in casi estremi giungerebbe a ricercare un essere superiore. Senza la morte, probabilmente l’uomo si sentirebbe Dio. Nelle società occidentali questo accade già: l’illusione di una felicità perenne spesso rende molti giovani insensibili ai problemi religiosi; spesso solo i vecchi riempiono le chiese e, come tutti sanno, non è raro il caso di persone che si avvicinano alla fede in tarda età, quando lo spettro della fine ha incominciato a riempire i loro giorni e le loro notti. Ho sempre ritenuto queste conversioni un po’ patetiche: la paura non è fede.
La ricerca di Dio: quando l’uomo ha creato Dio?
Molti parlano della creazione dell’uomo da parte di Dio, ma pochi si domandano quando l’uomo ha creato Dio. Questo ribaltamento può apparire a molti come una dissacrazione, per altri è un’illuminazione.
Dalle religioni preistoriche, passando attraverso quelle dei greci e dei romani fino a quelle dei giorni nostri, non si può non rilevare il mare di ingenuità tipico dell’epoca in cui queste religioni sono nate. Pensiamo al tempo e alle risorse economiche ed esistenziali che greci e romani hanno buttato nell’adorare dei che non esistono; la stessa cosa accade anche con le nostre religioni. Poiché sono mutuamente esclusive è ovvio che, se una sola è quella giusta (non pensate sia la vostra, questo è un bel giudizio di parte: come M. Twain fece notare, “l’irriverenza è la mancanza di rispetto che una persona dimostra al tuo Dio, ma non esiste un’altra parola che indica la tua mancanza di rispetto nei confronti del suo Dio”), tutti gli altri buttano il loro tempo.
L’uomo ha creato Dio non appena si è accorto della morte e del dolore, quindi da sempre.
Ma non bastava crearlo, occorreva parlargli: ecco allora nascere la preghiera e la Chiesa, formata da tutti gli intermediari fra il comune mortale e Dio.
Per Marx la religione è l’oppio dei popoli, per il Personalismo non deve essere (come lo è per molti) una scorciatoia, cioè una strategia con cui chi non ha capito il mondo cerca di raggiungere un obiettivo (evitare la morte e il dolore) anche se spesso arriva in una strada senza uscita.
La sintesi di queste considerazioni è una sola:
l’uomo deve avere la dignità di affrontare il suo destino da solo, senza creare Dio.

Mistico è non solo ciò che riguarda comunicazioni sensibili con Dio, ma tutto ciò che ha pertinenza con il mistero di una religione
La religione e il dolore
Il rapporto fra la religione e il dolore può essere un ottimo indicatore esistenziale. Innanzitutto, spieghiamo in cosa consiste questo rapporto. Si ha un’interazione quando la persona subisce un fatto doloroso non attribuibile a sue azioni considerate eticamente riprovevoli, negative o comunque eticamente dubbie. In altre parole, quando subisce “dolore innocente” (pensiamo a un bambino che muore di cancro a pochi anni d’età).
Da un punto di vista razionale, il dolore “innocente” non è compatibile con l’esistenza di un Dio buono e questo dovrebbe essere chiaro a tutti coloro che affrontano oggettivamente il problema (vedasi paradosso di Buechner e pensano di essere soggetti equilibrati. La ricerca di Dio dovrebbe perdere ogni significato.
Come reagisce al fatto che Dio non è intervenuto per evitare quel dolore che eticamente è inspiegabile, non può essere cioè attribuito a colpe etiche di chi lo subisce?
La reazione dipende molto strettamente dalla personalità del soggetto.
Incominciamo con il dire che gli irrazionali sono i più propensi ad accettare soluzioni fantasiose e poco convincenti; un mio conoscente, molto attaccato alla madre, quando questa muore, si convince che il fantasma della genitrice continua a essere presente nella loro casa! Analogamente, molte religioni giocano sulla convinzione che esista un al di là e che il dolore è ben poca cosa rispetto a ciò che si potrà avere (anche se non si capisce bene cosa, vedasi Il paradiso non esiste.
Anche i sopravviventi si lasciano convincere sul fatto che il dolore sia inevitabile, ma, come consolazione, il paradiso potrà essere una giusta ricompensa per il dolore subito. La convinzione può essere più o meno forte e fa del sopravvivente un vero credente o un credente “non praticante ” (cioè un neofariseo).
I mistici ovviamente ritengono che non vi sia di fatto un “dolore innocente” perché l’uomo vive in una condizione di peccato (il peccato originale), dimenticando che nessuno può ritenere sensato che “le colpe dei padri ricadano sui figli” e che quindi la storiella del peccato originale fa riferimento a un Dio padre-padrone, completo possessore della vita dei suoi figli che può mettere alla prova con fatti dolorosissimi (cosa che un padre buono mai farebbe). A volte capita che, in seguito a un fatto luttuoso, persone equilibrate “perdano il lume della ragione” e diventino personalità mistiche, spinte dalla non accettazione del lutto, speranzose che comunque sempre si possa risolvere in una vita futura.
Il semplicistico elabora tesi “ottimistiche” molto simili a quelle dell’irrazionale, ma senza complicazioni, senza teorizzazioni. Per esempio, ci dice che “per forza, Dio esiste, altrimenti chi avrebbe creato questo mondo fantastico!”. Peccato che dimentichi che l’eventuale esistenza di Dio non implichi la sua bontà e che quindi non spiega il dolore innocente. Il semplicistico cioè non indaga oltre la semplice esistenza del divino e accetta le spiegazioni che gli vengono fornite dalle Chiese.
Il succube è molto incline anche ad accettare l’idea di un Dio padre-padrone e quindi ad accettare punizioni anche eticamente illogiche (il dolore “innocente”).
L’insufficiente può accettare il dolore innocente perché di fatto deve avere qualcuno che possa proteggerlo, anche se non sempre lo fa!
Il patosensibile è quello che di fronte al dolore innocente dovrebbe rigettare l’idea di un Dio buono; spesso non lo fa perché vede Dio solo quando salva (grazie a Dio!), quasi Dio perdesse l’onnipotenza e riuscisse a operare solo in un numero limitato di casi.
Il vecchio infine può accettare il dolore innocente perché la paura della morte è tale che gli interessa di più l’eventuale premio nell’al di là che le sofferenze qua sulla terra.
Molto più complessa la reazione del debole, quasi sempre legata ad altre personalità critiche del soggetto.
Da notare infine che tutte queste personalità critiche che accettano il dolore innocente arrivano a farlo perché ingigantiscono i meriti divini ogniqualvolta il dolore è evitato. Sono quelli che usano frasi come “speriamo che Dio…”, “preghiamo Dio…”. Come se Dio potesse distrarsi e non vedesse cosa di terribile sta succedendo e le nostre preghiere potessero riportalo all’attenzione. Puerile.
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