La psicologia è una scienza giovane e a lungo si è discusso sul suo stesso status di “scienza” e sul confine tra essa e lo studio filosofico della mente. Infatti, le prime trattazioni di questioni relative al funzionamento della mente e le prime definizioni dello stesso concetto di “mente” risalgono alla filosofia greca e, fino al XVIII secolo, le ricerche in questo ambito rimasero comprese negli studi filosofici. Solo nell’Ottocento l’avanzamento delle conoscenze mediche sul sistema nervoso aprì la strada alla possibilità dello studio scientifico dei processi psichici, e quindi alla nascita della psicologia come scienza, cioè come disciplina che, a differenza della filosofia, possiede una metodologia scientifica definita, si basa sull’osservazione empirica e oggettiva, guidata da criteri precisi, formula ipotesi e compie verifiche per poter giungere a generalizzazioni teoriche.
La storia della psicologia
La nascita della psicologia viene collocata ufficialmente nel 1879, anno in cui Wilhelm Wundt, considerato il primo psicologo, fondò a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale. In mancanza di strumenti sofisticati e conoscenze approfondite come quelli odierni, l’interesse di tutti i primi studiosi si concentrò su ciò che era possibile osservare direttamente, l’esperienza percettiva cosciente. Il gruppo di lavoro di questo laboratorio diede vita allo strutturalismo, concezione basata sull’analisi dei processi soggettivi di percezione in risposta a stimoli fisici della realtà, finalizzata a scomporre tali processi in elementi psicologici di base.

Wilhelm Maximilian Wundt (1832–1920), psicologo, fisiologo e filosofo tedesco. È considerato “il padre fondatore” della psicologia.
All’inizio del Novecento, a Berlino, nacque una nuova corrente psicologica che si oppose allo strutturalismo, la psicologia della forma: essa sosteneva che i processi mentali dovessero essere studiati nella loro totalità, perché il significato e il ruolo dei singoli elementi cambiano quando questi vengono inseriti in un insieme, che è sempre qualcosa in più e di diverso rispetto alle unità che lo compongono. Secondo questi psicologi, guidati da Max Wertheimer, la scomposizione dei processi percettivi è una forzatura intellettuale, perché la mente in realtà percepisce e interpreta dati e fenomeni direttamente come insiemi organizzati. Questo assunto era alla base anche del funzionalismo, movimento fondato qualche anno prima da William James e incentrato sulla concezione della mente come caratterizzata da un incessante flusso di coscienza, cioè una successione di esperienze senza soluzione di continuità e quindi impossibile da scomporre. Partendo da questa convinzione, i funzionalisti si rifecero agli studi di Darwin e si dedicarono allo studio delle funzioni adattative dei fenomeni psichici, per verificare quali processi mentali contribuiscono all’adattamento dell’uomo all’ambiente e in che modo.
Successivamente, il funzionalismo confluì nel comportamentismo, scuola fondata da John Watson all’inizio del Novecento con il proposito di assumere come oggetto di studio della psicologia il comportamento, che in quanto manifestazione esteriore dell’attività mentale può essere studiato in modo da raggiungere conclusioni oggettive e condivisibili, mentre i processi psichici della coscienza mantengono sempre un aspetto di soggettività. La mente quindi è considerata dai comportamentisti una “scatola nera” inconoscibile al suo interno, di cui ha senso studiare soltanto gli stimoli che vi entrano e i comportamenti che genera come risposta a essi. Questo implica la convinzione che le caratteristiche e i comportamenti degli individui siano determinati solo da fattori esterni, conclusione superata più tardi dal neocomportamentismo, che ammise l’esistenza di variabili interne non conoscibili, ma fondamentali per spiegare il comportamento.
Questo cambiamento di prospettiva fece rinascere l’interesse per i processi interni della mente e per la loro influenza sul comportamento. Tale interesse fu sviluppato innanzitutto dalle diverse correnti del cognitivismo, che condividono l’assunto di base per cui tali processi sono frutto di competenze innate e consistono nell’elaborazione di informazioni per la costruzione di una rappresentazione del mondo e la strutturazione dei dati ambientali (per esempio nella forma di “mappe cognitive” per l’organizzazione spaziale).
Lo studio dei processi mentali interni fu affrontato poi in modo rivoluzionario da Sigmund Freud (1856-1939), che avanzò l’ipotesi che alcuni di essi siano non solo inaccessibili, ma anche inconsci, cioè al di fuori della consapevolezza dei soggetti stessi in cui si svolgono. A partire da questa ipotesi e dagli studi clinici sperimentali su soggetti nevrotici, Freud fondò la psicanalisi, disciplina finalizzata alla cura di fenomeni psichici patologici (nevrosi e psicosi) che deriverebbero proprio da quegli aspetti inconsci della vita psicologica e in particolare dal rifiuto e dal confinamento nell’inconscio di desideri e pulsioni considerati inaccettabili per la censura morale e sociale.

Sigmund Freud, fondatore della psicanalisi
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