Per molti la felicità non esisterebbe perché non sarebbe possibile protrarre a lungo momenti positivi; è evidente che questa posizione è solo un banale errore di generalizzazione, dovuto all’incapacità personale di essere felici. Per capire l’errore dei negazionisti della felicità è necessario definire la felicità, mostrando che può essere uno “stato durevole”, una locuzione nella quale sono impliciti i due concetti che possono portare a una definizione scientifica. Lo stato implica una grandezza che possa misurarlo e il durevole indica una grandezza che tutti noi conosciamo, il tempo.
I tre stati
Molti discorsi sulla felicità si perdono in vuote parole perché tendono a considerare l’intera esistenza dell’individuo. In questo caso lo “stato durevole” è ovviamente un’utopia e questa utopia è sempre stato il cavallo di battaglia di chi ha voluto negare l’esistenza (o la possibilità concreta) della felicità.
Tutto diventa sorprendentemente banale se ci si riferisce a un attimo esistenziale: quel momento di gioia che chiunque di noi ritiene possibile. Si tratta solo di analizzare il nostro stato relativamente alle nostre sensazioni istantanee, alle nostre emozioni del momento e non limitarci a definirlo “gioia”, ma usarlo per una definizione profonda di felicità. Riassumendo le nostre emozioni puntuali (cioè dell’istante considerato) possiamo definire la loro positività da un minimo (dolore) a un massimo (gioia) passando per uno stato neutro (serenità), lo zero.
Il primo punto fondamentale è che solo il soggetto può giudicare il suo stato emotivo istantaneo. Ciò sembrerebbe far cadere ogni pretesa di oggettività, ma in realtà non è così poiché il fatto che un soggetto sia “pieno di gioia” in un attimo ben preciso non significa certo che abbia una vita felice. Si pensi a un tossicomane: sotto gli effetti della droga può anche essere in uno stato positivo, ma quanti attimi negativi deve affrontare nella sua esistenza! La droga sarebbe cioè un fattore positivo se non avesse devastanti effetti collaterali.
L’esempio del tossicomane ci consente di comprendere facilmente il passaggio da una definizione “immediata” a una più continua e definitiva. Basta introdurre il concetto tempo, che ci permette di fare il bilancio esistenziale. Si può parlare di gioia, serenità e dolore riferendosi a un attimo esistenziale, mentre il bilancio totale della nostra vita non è altro che la somma di tutti i suoi attimi. La qualità della vita è il parametro che esprime questa somma; se diciamo che un uomo fa una vita da cani, probabilmente vogliamo dire che ha avuto pochi attimi di gioia e di serenità. Nel grafico sottostante, gli stati emotivi del tossicomane sono in gran parte negativi: l’area sotto allo zero, prevale nettamente sull’area della piccola porzione sopra lo zero e il bilancio totale è decisamente negativo.
Felicità: la definizione
Dopo queste premesse la definizione di felicità è molto semplice.
La felicità è l’integrale dello stato emotivo rispetto al tempo.
Per chi non ha presente il concetto matematico di integrale, si può dire in maniera più semplice che la felicità è la somma di tutti gli attimi della nostra vita valutati rispetto alle emozioni che noi proviamo; quanto più tale somma è positiva quanto più la nostra vita è felice.
Da questa definizione di felicità si evince che la felicità esiste ed è oggettivamente misurabile. Notiamo che, contrariamente al significato comune, la felicità può anche essere negativa (nel linguaggio comune si parla di infelicità), è una grandezza che ruota attorno allo zero emozionale. Il grande plus di questa definizione è il ricavo di un dato oggettivo partendo da una valutazione (lo stato emotivo istantaneo) che è soggettiva (nel senso che parte dalle emozioni del soggetto). Si evitano i due grandi errori tipici.
La cecità esistenziale – Uno dei problemi maggiori che si affrontano quando si chiede a una persona di fare il suo bilancio esistenziale è che spesso mente a sé stessa o comunque non è in grado di dare una risposta coerente con la realtà. Il motivo è che non sa o non vuole sommare i singoli attimi, preferendo una risposta approssimativa che nulla ha a che vedere con la sua vita. La moglie con un matrimonio devastante preferisce subire le violenze del marito e raccontare che ha una vita felice; il genitore racconta mirabilie del figlio anche quando deve sudare sette camicie per non farlo sbandare di qua o di là; Tizio si compiace con l’amico del suo lavoro quando non vede l’ora di cambiarlo ecc. Meno tragicamente, la cecità esistenziale è tipica di coloro i quali danno una definizione di felicità (per essere felice mi basta la salute oppure la felicità sono i miei figli) che non corrisponde alla somma dei loro stati emotivi: continui piccoli o grandi problemi avvelenano la vita regalando ai ciechi esistenziali una miriade di stati emotivi negativi. E loro li accettano perché tutti hanno problemi.
L’invidia esistenziale – Purtroppo con lo stato emotivo non si può barare: se si prova dolore, sofferenza, paura, angoscia ecc. lo stato è negativo; se si prova gioia, calma, tranquillità, si sorride alla vita è positivo.
Notiamo come sia illogica e priva di fondamento la posizione di chi vuole rendere la valutazione dello stato emotivo una misurazione priva di valore. “È impossibile che tu sia veramente felice se non…” è la frase classica con cui si contesta uno stato emotivo positivo. Alla base di ciò ci sono sempre una grande invidia esistenziale e una grande miopia spirituale che nascono dal pretendere che si arrivi alla felicità tramite una sola strada. Di strade ce ne possono essere tante, più o meno lunghe, l’importante è prendere la direzione giusta. Ed è proprio la presenza di tanti stati emotivi positivi (e non dissertazioni filosofiche) che ci indica che la direzione è quella buona.
Un uomo che sorride sempre è felice, punto e basta. Un uomo che piange sempre è infelice, punto e basta. Se si accettano questi due estremi, è evidente che la definizione integrale di felicità prevale su ogni altra considerazione.
I fallimenti precedenti
Il concetto di stato emotivo può far pensare che la felicità si giochi dentro di noi. Vedremo che ciò è molto riduttivo e non permette di andare al di là di un semplice miglioramento della nostra vita, il più delle volte modesto.
Proviamo infatti a ritornare indietro di qualche secolo, per esempio nel 1600. La maggior parte della popolazione aveva una vita estremamente instabile: guerre, carestie, malattie segnavano l’esistenza in modo spesso drammatico. La giustizia, la libertà individuale, la democrazia erano pure e semplici chimere. Pensare che la felicità dell’individuo potesse dipendere da come riusciva a gestire le sue emozioni non poteva che apparire ridicolo quando una persona in giovane età non sapeva se avrebbe vissuto ancora per un anno in condizioni accettabili. La vita era pesantemente condizionata da fattori esterni a noi, tant’è che la fuga dal mondo (monaci, eremiti ecc.) era una prassi abbastanza consolidata, una strategia esistenziale.
In questo quadro le religioni fornivano (e lo fanno ancora in Paesi dove le condizioni di vita sono paragonabili a quelle occidentali di qualche secolo fa) una chiara risposta esistenziale: la felicità sta sopra di noi. Il rapporto con il divino permetteva di superare qualunque terribile prova terrena. Si noti come le principali religioni fossero incapaci di promettere la felicità in Terra (beati gli ultimi che saranno i primi), differendo il premio in un altro mondo.
Con il migliorare delle condizioni di vita e con l’affermazione dei diritti umani, all’uomo la religione non è più bastata perché era fisiologicamente possibile essere felici anche nella vita terrena; la religione insegnava a sopportare i problemi del mondo, ma non insegnava a evitarli e nel mondo occidentale questa consapevolezza ha mandato in crisi la religione (i veri credenti, cioè quelli coerenti con gli insegnamenti delle Chiese, oggi sono una minoranza della popolazione), ma anche l’individuo, rimasto senza faro.
L’opera di Freud ha portato l’attenzione e la speranza dell’uomo del XX sec. all’interno di sé; decenni di psicanalisi e di altre correnti della psicologia non sono state però in grado di fare granché: l’uomo di oggi è sempre più tormentato.
Lo stato emotivo: situazione e valutazione
Lo stato emotivo (quello la cui somma, o meglio, il cui integrale dà la felicità) è funzione della situazione e della valutazione che il soggetto dà di essa:
E=E(S, V)
dove S è la situazione e V la valutazione.
Nella correttezza della valutazione entrano le componenti affettiva e cognitiva dell’intelligenza dell’individuo. Supponiamo che la valutazione sia corretta. Cosa accade se, pur valutando correttamente, la situazione è esistenzialmente disastrosa? È possibile che una persona arrivi a una situazione negativa? Sì, lo è. Infatti la situazione è funzione dell’ambiente e delle scelte che noi facciamo:
S=S(A, sc).
La situazione può dipendere dall’ambiente e l’esempio del vissuto nei secoli scorsi è illuminante: uno schiavo che lavorava nelle piantagioni di cotone nell’America del 1850 poteva essere sereno, ma solo chi vuole sprecare energie mentali può sostenere che poteva essere felice. Come detto sopra, la grande influenza ambientale nei secoli passati (e ancora oggi in Paesi dove le condizioni di vita e i diritti umani sono ancora scadenti) ha favorito l’affermarsi delle religioni come strategia esistenziale di sopravvivenza. Oggi, a differenza dei secoli scorsi, nei Paesi occidentali l’ambiente forza molto meno le nostre scelte, anche se i più pessimisti continuano a vedere “enormi condizionamenti”: la situazione oggi diventa strettamente dipendente dalle nostre scelte.
Le nostre scelte passano nella quotidianità attraverso la parte razionale del cervello che può essere più o meno influenzata dalla parte affettiva. Infatti la scelta non è che l’elaborazione razionale dei dati emotivi e dei dati dell’ambiente: tre sono dunque le grandezze in gioco nella scelta: le nostre emozioni, i dati esterni (informazioni) e il potere razionale, tipico del cervello razionale. Una scelta errata può condurre a una situazione disastrosa perché il soggetto
- ha intelligenza razionale scadente (in altri termini commette grossolani errori razionali);
- ha dati esterni non buoni;
- ha dati affettivi che cortocircuitano la parte razionale (cortocircuito emozionale);
- ha dati affettivi che sono soffocati dalla ragione (soffocamento razionale).
A questi casi si deve aggiungere l’ambiente, anche se meno influente rispetto a un secolo fa (lo scopo di ogni governo dovrebbe essere quello di dare alla maggior percentuale possibile di cittadini un ambiente sufficiente, intendendo quelle condizioni che non penalizzino le scelte del singolo).
Se si esaminano persone normali, con i “problemi di tutti” si scopre che la maggior parte di esse ha:
un’intelligenza razionale scadente
un cattivo rapporto emozione-ragione
dati esterni pessimi (si pensi alle fake news).
La felicità: la rivoluzione del Personalismo
Comprendendo la differenza fra vivere e sopravvivere, il Personalismo si preoccupa invece di non avere problemi, orientando il soggetto verso situazioni e condizioni di vita che non agiscano come continui fattori peggiorativi della qualità della vita. Per fare ciò studia il cervello corticale (ragione) per creare situazioni in cui il soggetto possa trarre il massimo dalle sue emozioni. Non si tratta di un predominio della ragione sullo spirito come molti detrattori continuano a sostenere, perché la ragione si occupa di creare le condizioni di vita in cui un cervello emozionale al top (e il Personalismo insegna come ottenere il massimo anche emozionalmente) possa esprimersi al meglio. Prima occorre:
- evitare irrazionalità;
- avere i dati migliori;
- poi si può pensare all’equilibrio emozione-ragione.
Il Personalismo cioè migliora sia il “dentro di sé” (valutazione) che il “fuori di sé” (situazione). In altri termini, il Personalismo non si limita ad azzerare i picchi negativi, ma riporta in su tutta la curva della felicità. E la differenza è immensa, si vive anziché sopravvivere.
Vediamo con un grafico tre situazioni tipiche.
In ascissa è riportato il tempo, in un’unità di misura a piacere (può essere la giornata, la settimana ecc.), ininfluente per il significato profondo delle curve. In ordinata è rappresentata la grandezza felicità. I singoli punti delle curve sono gli stati emotivi campionati su un soggetto in base all’unità di tempo (per esempio: oggi come è stata la sua giornata?).
Il soggetto vive situazioni negative per parte del periodo, per un’altra parte vive situazioni positive, un soggetto “normale”. Applicando le teorie emozionali riesce a gestire i problemi e a viverli in serenità, riportando a zero il valore dello stato emotivo (punti 1, 2, 3, 9, 10, 11). Applicando il Personalismo i problemi vengono evitati e la curva è tutta positiva. Semplice no?
Lo scopo della vita
Dovrebbe essere ormai chiaro che il Personalismo è una strategia esistenziale eudemonistica.
Il fine della nostra esistenza è la ricerca della felicità.
L’eudemonismo è la dottrina che persegue la felicità come un fine naturale della vita umana; per il Personalismo non solo si distingue, ma si contrappone anche all’edonismo che ha come fine dell’azione umana il conseguimento del piacere immediato. L’esempio del tossicomane dovrebbe essere illuminante, ma scendendo a un tema meno drammatico, consideriamo il divertimento.
Per il Personalismo, il divertimento di per sé non è il massimo, ma va valutato alla luce del bilancio esistenziale. Troviamo:
- il divertimento distruttivo; il giovane che sballa il sabato sera.
- Il divertimento incosciente; quello del giovane che si diverte a tal punto da trascurare gli studi pregiudicando il suo futuro oppure quello dell’uomo/donna maturi che sfasciano il loro matrimonio per l’avventura di una notte).
- Il divertimento sopravvivente; quello di chi vive di hobby e di passatempi, senza mai arrivare a un’altezza emotiva significativa.
- Il divertimento positivo; quello ottenuto attraverso gli oggetti d’amore.
Per approfondire: Lo scopo della vita
Frasi sulla felicità
Cos’è la felicità? Il Personalismo ha dato una definizione di felicità scientifica e chiara. In particolare, da essa discende che la felicità può essere perseguita attraverso diverse strade; tale concetto fa a pugni con tutte quelle definizioni, spesso irrazionali, che in passato ci sono state propinate.
Riflettendo attentamente, si trova facilmente che molte “definizioni” sono imprecise perché (in ordine decrescente di imprecisione):
- si basano sull’invidia di chi non ha trovato strade efficienti;
- si basano su una strada, senza capire che quella strada può essere al massimo una condizione facilitante, ma non è né sufficiente (ci sono persone che la seguono e sono infelici), né necessaria (esistono persone che non la seguono e sono felici).
Prima di commentare alcune celebri definizioni, ricordiamo che la felicità è un tema preferito da chi vive di risonanze sentimentali, cioè di frasi emotivamente molto piacevoli, ma che, di fatto, non vogliono dire nulla, sono contradditorie o, sotto sotto, molto banali. Ecco una carrellata di frasi sulla felicità.
Indice materie – Psicologia – Felicità – La definizione scientifica