Oggi il virus del dona 9 euro al mese si è esteso al punto che su alcuni canali rappresenta una buona fetta della pubblicità. Intendiamoci, non c’è nulla di male nel chiedere soldi, quello che rende discutibile il farlo è la logica di fondo della richiesta, cioè il ricatto della bontà.
Una squadra di calcio potrebbe chiedere ai suoi tifosi di donare soldi per la costruzione di uno stadio; chi non è tifoso non sarà interessato e ignorerà il messaggio. Negli spot che chiameremo caritatevoli, quello che non va è che tutta la popolazione è coinvolta e che lo spot tende a far sembrare un mostro colui che non dona (infatti il precedente titolo dell’articolo era Il mostro che non dona).
Dona 9 euro al mese, manda 2 euro con un sms, salva questo, adotta quell’altro, aiutiamo… e basta! Ieri, durante qualche ora di tv ho contato 7 spot diversi di questo tipo, addirittura ora c’è anche l’adozione in vicinanza. Se la cosa è così eticamente positiva, perché i politici non mettono una bella tassa di solidarietà? Perché le associazioni che chiedono soldi a tutta la popolazione non ne fanno richiesta?
Capisco che gli italiani non siano un popolo particolarmente furbo e siano facile preda di furbeschi buonismi, ma perché realizzare questi spot con una musica di sottofondo che farebbe commuovere anche il più duro dei Navy Seal, con parole intrise di una profonda tristezza che anche il canarino che sta ascoltando la televisione si suicida sbattendo la testa contro la gabbia, con lacrime talmente copiose che escono dal filmato e rovinano i supertecnologici chip del nuovissimo televisore da 50 pollici che il pollo di turno si è comprato a rate, svenandosi per 36 mesi?

La donopatia è una una donazione compulsiva che fa sentire il soggetto buono e quindi “migliore”
Sarò un mostro, ma non ho mai donato nulla e scrivo questo articolo perché periodicamente mi arrivano mail di gente, economicamente modesta, che non sa resistere e deve donare, una specie di donazione compulsiva, una donopatia. Mi chiedono: è giusto donare? No (vedasi il paradosso del mendicante nella pagina sulla solidarietà).
Se donate via sms, se date un euro al mendicante al semaforo (la cosa assurda è che ho visto dare soldi a zingari, persone che per scelta non lavorano!), se alla fine del mese avete sprecato 100-150 euro (nel corollario sotto il caso in cui si parli di soli 10 euro al mese), ricordate che in 30 anni fanno 40.000-60.000 euro quindi:
- se per voi questa somma è irrisoria, vuol dire che avete un patrimonio di centinaia di migliaia di euro; avete sempre accumulato ricchezze e ora spargete briciole per sentirvi buoni.
- Se per voi questa somma è importante (magari perché in 30 anni siete riusciti a mettere via solo 30.000 euro) allora siete dei “polli condizionati” che hanno buttato una piccola fortuna che sarebbe potuta servire a vostro figlio per vivere meglio. Francamente, fra un mendicante e un figlio (“beh, che male c’è se parte con qualcosa in meno” è la difesa del donatore folle) io continuo a preferire il secondo.
In Italia ci sono 300.000 enti assistenziali (sì, il dato è proprio questo, fonte Tg1) con 5 milioni di persone coinvolte. Capita la media? 16 persone per ente assistenziale. Un po’ come se io domani fondassi con 15 miei amici una ONLUS per aiutare i runner alcolizzati (hanno incominciato a bere perché, infortunati, non hanno più potuto partecipare alle gare domenicali dove si sentivano campioni) e vi chiedessi soldi per la nobile causa.
Ma tutto l’assistenzialismo è da buttare? Assolutamente no. Da buttare è la strategia della carità. Se una ONLUS vuole sostenere un progetto che faccia qualcosa per cui vale la pena aiutarla (il vecchio concetto della pesca di beneficenza), non dia per scontato che si “debba” aiutare. Ho comprato azalee e agrumi per la ricerca contro il cancro, ho partecipato e cene e spettacoli di beneficenza, ho partecipato all’organizzazione di eventi benefici, quindi, se vuoi che dia qualcosa, dammi qualcosa in cambio che sottolinei il tuo impegno al di là della tua presunta e passiva bontà.
Save the children
Da qualche tempo in tv dopo il dona 9 euro al mese compaiono pubblicità che invitano a lasciare nel proprio testamento qualcosa a questa o quella associazione. Particolarmente presente quella di Save the children che mostra una carrellata di vecchi senza molte prospettive di vita che pensano a come salvarsi l’anima o a come fare una grande ultima azione della vita per sentirsi a posto prima di andarsene. Già così è abbastanza triste, ma poi ecco la carrellata di bambini che muoiono di fame. Sicuramente queste associazioni sono vittime della sindrome del missionario, non capendo che molto più vicino a noi ci sono persone in uno stato di grande disagio e di estrema povertà. Ma i bambini toccano di più i cuori e sono più facili da salvare, basta farli sopravvivere con una ciotola di riso e ci si sente di un’immensa bontà, senza aver capito che una situazione molto negativa si dovrebbe affrontare razionalmente: ma chi avrebbe il coraggio di dire che occorre educare sessualmente la popolazione a non fare figli se poi si sa che con grande probabilità moriranno di fame? Perché Save the children non promuove corse di educazione sessuale, distribuisce profilattici, insegna a usare la pillola anticoncezionale? Perché tutto questo non gratificherebbe chi ha bisogno di sentirsi un eroe. Bello lo slogan scelto alla fine, quando la vecchia signora, tutta felice, ci annuncia che “il futuro lo cambio io”. Sì, in peggio.
Il biglietto (razzismo inverso)
Da una pagina Facebook
Stamattina sul Freccia Rossa delle 9, prima di arrivare in città, il controllore chiede il biglietto a un giovane africano, che in un italiano stentato risponde di aver sbagliato treno, che ha confuso con l’Italo (sarà vero?). Non ha alcun biglietto con sé e il controllore gli chiede, allora, 95 euro. Il giovane nero, che veste abiti semilogori, è agitato, dice di non avere soldi. L’altro gli chiede i documenti. Lui non glieli dà (o forse non ce li ha). “Guarda che sono costretto a chiamare i carabinieri non appena siamo a Napoli”, ammonisce il controllore. A questo punto, da qualche poltroncina più in là, interviene un signore: “Lo pago io il biglietto”. E poi un altro: “Contribuisco anch’io”. Poi è la volta mia, infine di una donna. In quattro saldiamo il biglietto maggiorato e al controllore non resta che abbozzare. Io non so se il giovane africano avesse un permesso di soggiorno o no, ma comunque su di me e sugli altri tre, tutti romani e napoletani, è scattato qualcosa che sicuro non accade a certi tipi di “quelli del Nord”: in un altro destino sarebbe potuto capitare anche a me. Vecchi e demagogici retaggi storico-religiosi-antropologici? Possibile. Io, però, preferisco chiamarla umanità.
Personalmente preferisco chiamarla patosensibilità e con l’umanità non ha nulla a che fare. Addirittura è una forma di razzismo inverso, al contrario. Supponiamo che il giovane sia stato un bianco. Tutti l’avrebbero preso per un drogato o per un fannullone e, fra i più duri, qualcuno gli avrebbe gridato “alla tua età vai a lavorare, non inventarti scuse!”.
Si tratta di una manifestazione di “apparenza della bontà”. Faccio una buona azione, ma non verifico la coerenza della stessa e, siccome la coerenza è il fondamento di ogni etica, definire eticamente positiva l’azione è veramente ottimistico.
Premesso che:
- il giovane africano la prossima volta si comporterà nello stesso modo, “tanto ci sono i fessi che ci pensano” (la risposta dei “benefattori” sarà: “orgogliosi di essere fessi”);
- il giovane africano poteva non avere il permesso di soggiorno, il che, finché non si cambia la legge, di fatto rende criminale anche chi lo aiuta (ovviamente chi lo fa si sentirà fiero di essere criminale, ma ciò fa parte della natura in parte trasgressiva di chi vuole cambiare il mondo in meglio seguendo utopie varie);
- proprio a Napoli basta andare in certe zone per scoprire che c’è gente che vive miserrimamente. Come si può tacitarsi la coscienza solo aiutando un caso singolo? I “benefattori” facciano ogni giorno un giro nei quartieri poveri della città, fermino un ragazzino malvestito e gli donino 100 euro. Questa sarebbe coerenza.
Come può una persona donare 95 euro a uno sconosciuto solo per “sentirsi buono”? O ha un mondo dell’amore vuoto (come accade a molti di quelli che fanno volontariato; ma allora sarebbe opportuno che corresse ai ripari) o non sarebbe meglio che i 95 euro li desse a chi è nel suo mondo dell’amore? Se la cosa è occasionale, parliamoci chiaro, dove sta la bontà? Se invece occasionale non è, allora, come abbiamo già visto nel caso delle donazioni, in 20-30 anni si accumulano “regali” per 40-60.000 euro e francamente io preferirei vederli destinati ai miei figli che a sconosciuti. Preferirei migliorare la vita di chi migliora la mia piuttosto che quella di gente che per me dovrebbe essere neutra.
Se poi si tira in ballo l’assurdo (dal punto di vista razionale) Ama il prossimo come te stesso, che i nostri figli devono imparare a fare rinunce per gli altri ecc., allora di fatto significa dirottare parte dell’amore e delle azioni (l’amore non si basa sulle parole, ma su azioni concrete come pagare un biglietto da 95 euro) del nostro mondo dell’amore ben fuori di esso. Leggete l’aneddoto del medico nella pagina sulla solidarietà: purtroppo è una persona che ho veramente conosciuto, convinta di saper amare mentre attorno a lei c’era il gelo o al più la riconoscenza dei suoi pazienti.
Infine va da sé che la risposta “95 euro non sono poi granché per me”, rivela che prima abbiamo accumulato un sacco di soldi e ora, per sentirci buoni, ne spargiamo le briciole. Non è umanità, ma solo apparenza di essa.