Il linfoma di Hodgkin (LH) è un tumore maligno del sistema linfatico* dalle cause sconosciute caratterizzato dalla presenza di rare** e isolate cellule tumorali dette cellule giganti di Reed-Sternberg. In passato era anche noto come malattia di Hodgkin o come morbo di Hodgkin.
Il linfoma di Hodgkin è una neoplasia relativamente rara (annualmente vengono diagnosticati 3-4 casi di LH ogni 100.000 abitanti), ma è il più comune tra i linfomi, di cui rappresenta circa il 30-40%. La patologia interessa più frequentemente i soggetti di sesso maschile (rapporto 1,5:1); i periodi di vita maggiormente interessati sono quelli che vanno dai 20 ai 35 e dai 60 ai 70 anni; il linfoma di Hodgkin può comunque presentarsi anche nei bambini, sebbene quest’ultima evenienza sia piuttosto rara.
Nel nostro Paese il linfoma di Hodgkin colpisce circa 2.500 persone ogni anno.
Linfoma di Hodgkin – Caratteristiche principali
Il linfoma di Hodgkin è un particolare tipo di linfoma che deve il suo nome a Sir Thomas Hodgkin (1798-1866), il medico inglese che lo descrisse per la prima volta nel 1832 in un articolo intitolato On Some Morbid Appearances of the Absorbent Glands and Spleen.
Le principali differenze tra le varie forme di linfoma di Hodgkin e le altre tipologie di linfoma (i cosiddetti linfomi non Hodgkin) sono essenzialmente tre:
- presenza di cellule tipiche, le Reed-Sternberg; il che costituisce un elemento determinante ai fini diagnostici
- partenza unifocale (ovvero da un’unica sede linfonodale)
- decorso generalmente prevedibile (con stadiazione ben determinata) e prognosi solitamente fausta grazie all’efficacia dei trattamenti chemio- e radioterapici.
Il linfoma di Hodgkin origina tipicamente da un’unica sede linfonodale e poi procede attraverso i vasi linfatici interessando man mano le sedi linfonodali contigue. Sono possibili anche localizzazioni a distanza che sono provocate da una diffusione della patologia attraverso i flussi linfatico e sanguigno.
Nel caso in cui la patologia si presenti al di fuori del sistema linfatico (evenienza rara, ma pur sempre possibile) siamo in presenza di una forma extralinfonodale. Tra le forme extralinfonodali del linfoma di Hodgkin che si verificano con maggiore frequenza si ricordano quella polmonare e quelle ossea ed epatica. Rarissime le localizzazioni ai livelli cutaneo, cerebrale e viscerale.
Classificazioni
Esistono varie modalità di classificazione del linfoma di Hodgkin; la più utilizzata è quella basata su esami istologici e sul tipo di cellule tumorali presenti nel tessuto affetto. Questo approccio consente di distinguere fra forma classica e forma a predominanza linfocitaria. La classificazione OMS aggiunge una terza forma: linfoma di Hodgkin inclassificabile (fanno parte di questa categoria le forme di linfoma di Hodgkin che non rientrano con certezza nelle altre due tipologie).
La forma classica viene a sua volta suddivisa in quattro sottoclassi:
- linfoma di Hodgkin ricco in linfociti
- linfoma di Hodgkin a sclerosi nodulare
- linfoma di Hodgkin a cellularità mista
- linfoma di Hodgkin a deplezione linfocitaria.
La sottoclasse che viene riscontrata più frequentemente è quella relativa al linfoma di Hodgkin a sclerosi nodulare, seguita da quella a cellularità mista. La terza sottoclasse in ordine di frequenza è quella del linfoma di Hodgkin ricco in linfociti (circa il 5-6% dei casi). Più rara è invece la forma a deplezione linfocitaria che interessa generalmente le persone più anziane. Quest’ultima tipologia di tumore può essere a volte confusa con il linfoma non Hodgkin anaplastico a grandi cellule, uno dei più frequenti tumori delle cellule T che costituisce circa il 2% di tutti i linfomi non Hodgkin.
Linfoma di Hodgkin – Cause e fattori di rischio
La causa del linfoma di Hodgkin è tuttora sconosciuta; sono stati però identificati alcuni fattori di rischio, in particolar modo le infezioni da EBV (Epstein-Barr Virus, ovvero il virus di Epstein-Barr, riscontrato nel 40% dei pazienti e in più del 90% dei casi pediatrici***) o da HIV (Human Immunodeficiency Virus, virus dell’immunodeficienza umana).
Altri fattori di rischio per l’insorgenza di un linfoma di Hodgkin sono rappresentanti dalla debolezza del sistema immunitario, dai precedenti familiari (nei familiari di un soggetto affetto da linfoma di Hodgkin, in particolar modo nei fratelli e nelle sorelle, si registra un maggior rischio di contrarre la malattia; è stata osservata inoltre una certa concordanza nei gemelli monozigoti) e dall’età (vedasi la parte introduttiva).
Linfoma di Hodgkin – Sintomi e segni
Di norma il linfoma di Hodgkin si presenta con una tumefazione indolente di uno dei linfonodi superficiali; di solito i linfonodi interessati sono quelli del collo (70-80% dei casi), ma il problema può riguardare anche quelli di inguine o ascelle.
In diversi casi il quadro clinico del linfoma di Hodgkin è caratterizzato da quelli che vengono comunemente denominati come sintomi B, ovvero febbre prolungata inspiegabile remittente o ciclica (la cosiddetta febbre di Pel-Ebstein), sudorazione notturna piuttosto profusa e dimagramento (si considera come tale un calo ponderale del 10% in 6 mesi) apparentemente non spiegabile.
La sintomatologia risente anche della localizzazione della patologia; nel caso in cui i linfonodi ingrossati siano quelli localizzati a livello del mediastino (ovvero lo spazio mediano della cavità toracica compreso tra i due polmoni) si possono avere sintomi quali dispnea e tosse. Se l’ingrossamento linfonodale interessa la zona addominale si possono avere dolenzia, tumefazione palpabile e sensazione di ingombro. Nel caso in cui le cellule neoplastiche invadano il midollo osseo, si possono registrare anemia, piastrinopenia (livelli di piastrine al di sotto del range di normalità) con conseguente incremento della tendenza a emorragie e aumentato rischio di infezione a causa dell’alterazione della funzione leucocitaria.
Fra i sintomi che molti soggetti affetti da linfoma di Hodgkin riferiscono, ma che non viene inserito nell’elenco dei sintomi B, è il prurito diffuso; tale sintomo può manifestarsi indipendentemente dal fatto che siano presenti o no localizzazioni cutanee della patologia. Non esiste una spiegazione a tale manifestazione clinica che in genere viene a cessare dopo idonea terapia.

Il prurito è uno dei sintomi spesso riferiti da coloro che sono affetti da linfoma di Hodgkin
Diagnosi
La diagnosi di linfoma di Hodgkin non è sempre facilissima in quanto questa patologia presenta spesso sintomatologia simile a quella di malattie piuttosto frequenti quali, per esempio, le sindromi influenzali. In diversi casi, poi, i soggetti affetti dalla patologia in questione sono asintomatici. In qualche caso si arriva alla diagnosi in seguito ai sospetti generati dal riscontro di anomalie rilevate dopo controlli radiografici al torace eseguiti per altre motivazioni.
Nel caso in cui si sospetti la presenza di linfoma di Hodgkin è necessario ricorrere a una biopsia di un linfonodo intero oppure di un campione di tessuto prelevato da un linfonodo patologico. Il patologo ricerca nel tessuto sia la presenza di modifiche strutturali del linfonodo sia la presenza delle cellule di Reed-Sternberg. Una volta diagnosticata con certezza la presenza di linfoma di Hodgkin, il soggetto viene sottoposto a esami clinici di vario tipo: analisi del sangue, biopsia osteo-midollare, radiografie, TAC, RMN o PET allo scopo di verificare il grado di diffusione della neoplasia. Al termine delle indagini diagnostiche si attribuisce la stadiazione che va dal grado I al grado IV dipendentemente dal numero di sedi infiltrate e dalla presenza di localizzazioni extralinfonodali. Allo stadio si associa il suffisso A o B a seconda che dell’eventuale presenza di sintomi sistemici (ricordiamo ancora una volta che i sintomi B sono tre: febbre, sudorazione profusa e calo ponderale). Per i dettagli sulla stadiazione si consulti comunque il paragrafo successivo; in base a essa i medici stabiliscono l’approccio terapeutico.
La diagnosi differenziale del linfoma di Hodgkin si pone con diverse altre patologie, sia di tipo infettivo sia di tipo neoplastico sia di tipo autoimmune. L’ingrossamento di un singolo linfonodo, per esempio, può essere causato da diverse malattie infettive di tipo acuto oppure, anche se più raramente, da patologie croniche quali la tubercolosi, la sifilide o la toxoplasmosi, ma anche dalla malattia da graffio del gatto. La tumefazione linfonodale singola può essere legata inoltre a processi metastatici relativi ad altre neoplasie (per esempio tumore del seno, tumore del polmone o tumori gastrointestinali).
In caso di ingrossamento linfonodale multiplo si deve differenziare la malattia in questione da patologie quali la sarcoidosi o dalle adeniti relative a patologie quali mononucleosi, brucellosi ecc.
In definitiva,
è solo la verifica istologica che può dare la certezza diagnostica.
Linfoma di Hodgkin – Stadi
Come detto, una volta posta con certezza la diagnosi di linfoma di Hodgkin, si procede alla stadiazione del tumore. La procedura di stadiazione segue il sistema di Ann Arbor:
Stadio I: coinvolgimento di una singola regione linfonodale (I) oppure di una sede singola extranodale (IE)
Stadio II: coinvolgimento di due o più regioni linfonodali dalla stessa parte del diaframma (II) o coinvolgimento localizzato di una sede extralinfatica (IIE)
Stadio III: coinvolgimento di regioni linfonodali da entrambe le parti del diaframma (III) o coinvolgimento localizzato di una sede extralinfatica (IIIE) o della milza (IIIE) o entrambe (IIIES)
Stadio IV: coinvolgimento diffuso o disseminato di uno o più organi extralinfatici con o senza coinvolgimento nodale. Anche il coinvolgimento di fegato o midollo osseo è considerato IV stadio.
I soggetti affetti dalla patologia vengono poi suddivisi in due sottogruppi in base alla presenza (B) o alla assenza (A) di sintomi sistemici. La presenza di una massa bulky, cioè di una lesione di diametro massimo superiore o uguale a 10 cm, viene indicata con la lettera X .
Terapia e sopravvivenza
Il linfoma di Hodgkin, come accennato nella parte iniziale dell’articolo, è un tumore che in moltissimi casi può essere trattato con successo attraverso il ricorso a chemioterapia seguita da radioterapia. I protocolli terapeutici attuali consentono di arrivare a un tasso di sopravvivenza a cinque anni del 65-90%.
La scelta della terapia varia in base a diversi parametri: stadiazione, localizzazione e condizioni generali del soggetto.
La terapia negli stadi iniziali del linfoma di Hodgkin senza sintomi B consiste solitamente in 4 cicli di chemioterapia seguiti da radioterapia limitata alle sedi iniziali della patologia. Lo schema chemioterapico maggiormente adottato è il cosiddetto schema ABVD (adriamicina, bleomicina, vinblastina, dacarbazina); l’ABVD ha sostituito lo schema MOPP (mecloretamina, vincristina, procarbazina, prednisone), efficace, ma gravato da maggiori effetti collaterali a lungo termine; tuttavia lo schema MOPP viene ancora adottato in quei soggetti che non possono assumere Adriamicina a causa di pre-esistenti problematiche di natura cardiaca e in coloro che hanno subito recidive della malattia.
Un altro approccio rivolto a ridurre la tossicità del trattamento è lo sviluppo di farmaci più specifici per le cellule tumorali; ne è un esempio l’utilizzo di anticorpi monoclonali contro CD30, una proteina presente principalmente nelle cellule di Hodgkin e di Reed-Sternberg (HRS), per veicolare farmaci chemioterapici. A questa categoria appartiene Brentuximab vedotin, un farmaco che si trova ora in una promettente fase di sperimentazione clinica (nei pazienti con linfoma di Hodgkin classico di stadio III o IV precedentemente non trattato).
Altri schemi terapeutici utilizzabili sono il ChlVPP (clorambucile, vinblastina, procarbazina e prednisone) e il BEACOPP (bleomicina, etoposide, doxorubicina, ciclofosfamide, vincristina, procarbazina e prednisolone).
La terapia del linfoma di Hodgkin agli stadi intermedi e avanzati consiste solitamente in 6-8 cicli chemioterapici con schema ABVD. Il trattamento chemioterapico viene poi seguito da radioterapia nel caso di presenza di una lesione bulky (vedasi paragrafo precedente).
Per quanto lo schema ABVD sia considerato lo standard di riferimento per il trattamento del linfoma di Hodgkin, si stanno progressivamente diffondendo altre soluzioni chemioterapiche.
In buona parte dei casi i trattamenti di prima linea portano alla guarigione definitiva dal linfoma di Hodgkin. Non mancano però i casi di recidive o addirittura di non risposta al trattamento (si parla in quest’ultimo caso di linfoma di Hodgkin refrattario). In caso di recidiva e se il soggetto ha meno di 60 anni, la malattia viene trattata attraverso quella che viene definita chemioterapia di salvataggio; scopo della prima fase del trattamento (che si avvale di farmaci non utilizzati in precedenza) è indurre una riduzione della massa neoplastica dopodiché si passa a un trattamento chemioterapico ad alto dosaggio; la somministrazione di questi farmaci viene poi seguita da quella di fattori di crescita che hanno lo scopo di stimolare la produzione e la liberazione in circolo di cellule staminali; si procede quindi alla raccolta di tali cellule prelevandole da sangue periferico. A questo punto si procede con un trattamento chemioterapico volto alla distruzione del midollo osseo dopodiché, come ultimo step, si procede alla re-infusione delle cellule staminali precedentemente prelevate dal soggetto.
Nei soggetti nei quali non è possibile effettuare trattamenti chemioterapici ad alti dosaggi si ricorre, generalmente con buoni risultati, a un trattamento con schema MOPP.
Com’è facilmente immaginabile, i trattamenti per il linfoma di Hodgkin non sono esenti da effetti collaterali; si hanno sia effetti collaterali di tipo acuto (generalmente alopecia, nausea, vomito, mucosite, stanchezza, parestesie, problemi cutanei, leucopenia, piastrinopenia e, a volte, ipoemoglobinemia) che sono tutti transitori ed effetti collaterali a medio e lungo termine quali scompenso cardiaco, fibrosi polmonare, infertilità transitoria o permanente e, nelle donne, accelerazione della menopausa.
Nel corso dei trattamenti chemioterapici, e per circa due anni dal termine delle terapie, è sconsigliata la gravidanza in quanto i chemioterapici utilizzati per la terapia del linfoma di Hodgkin sono teratogeni.
Dal momento che nei soggetti trattati per linfoma di Hodgkin è stato osservato un incremento del rischio di contrarre determinate neoplasie (leucemia secondaria, linfoma aggressivo, tumore del seno, tumore della tiroide, tumore del polmone e melanoma) è opportuno che i pazienti si sottopongano annualmente a indagini cliniche volte a rilevare l’eventuale presenza di tali patologie.
Una volta terminata la terapia, il soggetto viene sottoposto a controlli ambulatoriali che per i primi due anni hanno periodicità tri- o quadrimestrale; dopodiché si passa a controlli semestrali nei successivi tre anni; infine si passa a controlli annuali fino a che non si arriva al decimo anno dal termine del trattamento. I controlli effettuati sono TAC con mezzo di contrasto (sia toracica che addominale) ed esami ematochimici completi. Nel caso la TAC ponga dei dubbi, è opportuno effettuare una PET.
Trascorsi dieci anni dal termine del trattamento è necessario un controllo annuale dei parametri di funzionalità tiroidea e di funzionalità cardiaca. Opportuni anche controlli mammari e cutanei.
Immunoterapia e linfoma di Hodgkin: una nuova frontiera?
Da qualche tempo l’attenzione dei ricercatori è puntata sull’immunoterapia; alcuni studi condotti da medici statunitensi hanno mostrato che il 66% dei pazienti con linfoma di Hodgkin hanno avuto una risposta completa o parziale, dopo il trattamento con un farmaco per l’immunoterapia chiamato pembrolizumab (un inibitore di PD-1, una proteina sulla superficie delle cellule T che normalmente regola il sistema immunitario bloccando l’attivazione delle cellule T).
Riguardo a questo nuovo farmaco ecco quanto riferito (novembre 2015) da Pier Luigi Zinzani, professore associato all’Istituto di Ematologia dell’università degli Studi di Bologna, dove è responsabile per l’area Linfomi e leucemie linfatiche croniche: “Siamo l’unica struttura coinvolta sul territorio nazionale e al momento stiamo trattando circa 15 pazienti che hanno esaurito ogni altra opzione terapeutica disponibile: 2-3 linee di chemioterapia, trapianto autologo di staminali ematopoietiche e trattamento con brentuximab vedotin, un anticorpo monoclonale indicato per il linfoma di Hodgkin refrattario. Malati che hanno fatto tutto quello che potevano fare e sui quali si spera di replicare i risultati ottenuti con pembrolizumab in fase I: “Un tasso di risposta del 65-70%, di cui 45-50% sono risposte parziali (riduzione del linfoma superiore al 50%) e il 20% complete. Negativizzazione della malattia. Linfoma invisibile a TAC e PET”.
* Semplificando molto possiamo considerare il sistema linfatico come uno degli elementi del cosiddetto sistema immunitario; il sistema linfatico è essenzialmente costituito da vasi e organi linfatici; in questi ultimi si formano i linfociti (globuli bianchi essenziali per la risposta immunitaria). Gli organi linfatici sono i seguenti: midollo osseo, timo, milza, tonsille, tessuti linfatici delle mucose e linfonodi.
** Nella forma classica del linfoma di Hodgkin il numero di cellule tumorali non supera il 2% di quelle del tessuto affetto.
*** Uno studio recente ha dimostrato che l’infezione da HBV non cambia in modo significativo l’espressione genica delle cellule B infettate e che la perdita del fenotipo che caratterizza le cellule HRS durante la trasformazione tumorale non sembra essere associata a questa infezione virale.
Revisione scientifica a cura di:
LINFOMA DI HODGKIN – LA MAIL
Gentilissimo Roberto,
ci siamo sentiti qualche mese fa, quando le avevo chiesto se aveva avuto esperienze relative a sport durante la chemioterapia. Stavo iniziando un ciclo di 12 chemio ABVD per un linfoma di Hodgkin IV stadio.
Sono quasi alla fine, ne mancano due, e fra tre settimane ho finito. Fortunatamente la malattia è in remissione, e questa è la cosa più importante.
Vorrei condividere la mia esperienza, magari è utile a qualcun altro in situazioni simili alla mia.
Son riuscito a correre durante tutto il periodo, riducendo ovviamente il chilometraggio e la velocità. Mi sono solo dovuto fermare un mese per un principio di fascite plantare, ma non è inerente.
La differenza fondamentale nella corsa è che la frequenza cardiaca sale molto, perché uno dei medicinali è cardiotossico. A riposo ho valori anche di +30 battiti rispetto al normale, e così pure sottosforzo. Questo implica che correndo ho l’autonomia limitata a circa 8 km… poi l’acido lattico accumulato mi induce a smettere.
Raramente ho avuto sensazione di aver esagerato (ho provato una mezza, ad esempio, e qualche doppio allenamento, ma è troppo per me ora), ma in generale il mio fisico ha retto bene allo sforzo.
La mia convinzione è che correre, complessivamente, mi abbia fatto molto bene, mantenendo la testa e il fisico a un livello più alto che se avessi rinunciato. Prova ne è che quando mi son fermato per la fascite stavo peggio.
Va comunque ascoltato il proprio corpo con attenzione, per evitare stupide esagerazioni, ma complessivamente mi sento di dire che ho fatto bene a non mollare. E di questo ho convinto anche i medici che mi seguono, (ematologia del policlinico di Pavia) che inizialmente erano scettici.
Un grazie anche a lei, che con il suo sito è stato fonte di tanti consigli e mi ha aiutato ad appassionarmi alla corsa.
Cordiali saluti.
Luca Manto

Un’attività fisica “controllata” è spesso consigliata a chi sta affrontando le cure per un tumore
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