L’Ultimo canto di Saffo è un componimento poetico di Giacomo Leopardi; il poeta compose questa sua celebre opera nel mese di maggio 1822; la prima pubblicazione – in un gruppo di dieci canti – risale al 1824; fu pubblicata nuovamente nel 1831 nei Canti. Nell’edizione definitiva delle poesie di Leopardi – risalente al 1845 – l’Ultimo canto di Saffo si trova alla nona posizione, segue l’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano; la posizione dell’opera non è casuale; essa chiude infatti la serie delle canzoni ed è molto probabile che con questa scelta il poeta volesse segnare – come afferma Zottoli – “la fine di un periodo poetico”.
La protagonista di questa splendida canzone leopardiana è Saffo, la celeberrima poetessa greca vissuta tra il 630 a.C. e il 570 a.C. Leopardi accoglie la leggenda secondo cui Saffo avrebbe avuto un aspetto decisamente poco gradevole e, per questo motivo, sarebbe stata disprezzata e respinta dal giovane e bellissimo marinaio Faone che lei amava perdutamente. L’impossibilità di coronare il suo sogno d’amore spingerà Saffo al suicidio, compiuto gettandosi in mare dalla rupe di Leucade (Lefkàda secondo la dicitura greca). Il componimento trae spunto dalla vicenda raccontata nella XV delle Heroides (Eroidi) di Ovidio, in cui è rievocato l’amore disperato della poetessa per l’avvenente marinaio.
L’Ultimo canto di Saffo è una lirica autobiografica; con essa Leopardi ha voluto rappresentare, come egli stesso scrisse sulla rivista Nuovo ricoglitore, “la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane” e, per questo motivo, impossibilitato a trovare nella sua vita una corrispondenza amorosa.
Interessante la riflessione di Pazzaglia: “Saffo che effonde inascoltata la sua pena nella notte tranquilla, che invano si protende verso la divina, dolcissima bellezza del mondo, esprime un motivo tipico della più grande poesia leopardiana: il desiderio di comunione con l’infinita bellezza della natura e il tormento di sentirsene esclusi, il doloroso senso del limite umano, reso ancor più doloroso dal fatto che inesplicabile appare la ragione del nostro vivere e del nostro soffrire. L’apparente invito della bella natura cela dunque una tragica assenza”.
Dal punto di vista della metrica l’Ultimo canto di Saffo è una canzone libera composta di quattro strofe, ciascuna di 18 versi: 16 endecasillabi sciolti più un settenario e un altro endecasillabo che rimano fra loro. Sono presenti nella canzone anche assonanze disposte variamente.

Francobollo dedicato a Giacomo Leopardi
Testo
Di seguito il testo dell’Ultimo canto di Saffo.
Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna; e tu, che spunti
fra la tacita selva in su la rupe,
nunzio del giorno; oh dilettose e care,
mentre ignote mi fûr l’Erinni e il Fato,
sembianze agli occhi miei; già non arride
spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva,
quando per l’etra liquido si volve
e per li campi trepidanti il flutto
polveroso de’ Noti, e quando il carro,
grave carro di Giove, a noi sul capo
tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
fiume alla dubbia sponda
il suono e la vittrice ira dell’onda. 18
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi! di codesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
vile, o Natura, e grave ospite addetta,
e dispregiata amante, alle vezzose
tue forme il core e le pupille invano
supplichevole intendo. A me non ride
l’aprico margo, e dall’eterea porta
il mattutino albor; me non il canto
de’ colorati augelli, e non de’ faggi
il murmure saluta; e dove all’ombra
degl’inchinati salici dispiega
candido rivo il puro seno, al mio
lubrico piè le flessuose linfe
disdegnando sottragge,
e preme in fuga l’odorate spiagge. 36
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
di misfatto è la vita, onde poi scemo
di giovanezza, e disfiorato, al fuso
dell’indomita Parca si volvesse
il ferrigno mio stame? Incaute voci
spande il tuo labbro: i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze, eterno regno
die’ nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto. 54
Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
e il crudo fallo emenderà del cieco
dispensator de’ casi. E tu, cui lungo
amore indarno, e lunga fede, e vano
d’implacato desio furor mi strinse,
vivi felice, se felice in terra
visse nato mortal. Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perîr gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza. Ogni più lieto
giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
della gelida morte. Ecco di tante
sperate palme e dilettosi errori,
il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
han la tenaria diva,
e l’atra notte, e la silente riva. 72

Illustrazione raffigurante il suicidio della poetessa Saffo
Ultimo canto di Saffo – Parafrasi
Di seguito la parafrasi.
Notte tranquilla e immacolato raggio
della luna che sta tramontando; e tu [Venere], che spunti,
sulla rupe, tra gli alberi della foresta silenziosa,
annunciando il sorgere del giorno; oh, ai miei occhi foste immagini piacevoli e care
– finché non conobbi il furore dell’amore e il mio destino implacabile –
ma ormai
nessun dolce spettacolo può rallegrare un cuore disperato.
Un’insolita gioia ci anima
quando nell’aria limpida
e sopra i campi ondeggianti
turbina il vento che innalza la polvere; e [anche] quando il carro,
il pesante carro di Giove, tuonando sopra le nostre teste,
squarcia il cielo oscuro.
A noi piace immergerci nelle nubi,
attraverso i dirupi e le profonde valli, a noi [piacciono]
la confusa fuga delle greggi spaventate,
o il fragore e forza devastante delle onde
contro l’argine non sicuro di un fiume in piena. 18
È bello il tuo aspetto, o cielo divino, e bella sei tu,
terra bagnata dalla rugiada. Ahimè, di codesta immensa bellezza
gli dei e la crudele sorte
non hanno reso partecipe l’infelice Saffo.
Ai tuoi splendidi regni,
o Natura, io, ospite disprezzata e indesiderata e
amante non corrisposta, alle tue bellezze
il mio cuore e miei occhi
io rivolgo invano. A me non sorride
la campagna soleggiata, e dalla porta del cielo [l’Oriente]
[a me non sorride] l’albeggiare mattutino; non mi salutano
il canto degli uccelli variopinti e il mormorio
dei faggi; e dove, all’ombra
dei salici con i loro rami inchinati verso terra,
un limpido ruscello fa scorrere le sue chiare acque,
questo, con sdegno, al mio piede incerto,
sottrae le sue acque serpeggianti
e nel fuggire tocca le sponde profumate. 36
Di quale colpa mai, di quale peccato così grave
mi sono macchiata ancor prima di venire al mondo, per cui
mi fossero così ostili il cielo e la sorte?
Quale peccato ho commesso da bambina, quando ancora
la vita non conosce il male, così che poi,
privo di giovinezza e sfiorito, al fuso
dell’implacabile Parca si avvolgesse
il filo color ruggine della mia vita? Frasi avventate
pronunciano le tue labbra: il corso degli eventi
è mosso da una volontà sconosciuta. Tutto è sconosciuto,
eccetto che il nostro dolore. Siamo venuti al mondo
come figli trascurati e destinati a soffrire, e la ragione
risiede nella volontà degli dei. Oh preoccupazioni, oh speranze
degli anni della giovinezza! Alle apparenze il Padre [Giove],
alle belle apparenze egli diede il dominio assoluto
tra gli uomini; e tutte le gesta eroiche,
la musica o la poesia,
sono prive di fascino se vengono da chi ha un corpo sgradevole. 54
Moriremo. Una volta che il corpo sgradevole sarà abbandonato a terra,
l’anima nuda troverà rifugio presso Dite [presso gli Inferi],
e correggerà il crudele errore commesso
dal fato. E tu [Faone], a cui mi strinsero
vanamente un lungo amore e una lunga fedeltà,
e una vana passione scaturita da un desiderio mai soddisfatto,
vivi felice, se mai sulla Terra
può vivere felice chi è nato per morire. Giove non mi cosparse
con il soave liquido contenuto nel poco usato vaso della felicità
dopo che erano morti
i sogni e le speranze della mia fanciullezza. I più lieti
giorni della nostra vita sono i primi ad andarsene.
Al loro posto giungono la malattia, la vecchiaia e l’oscurità 67
della gelida morte. Ecco, di tante
glorie e di piacevoli illusioni,
mi rimane solo la morte; e Proserpina [la tenaria diva],
la notte oscura e la riva silenziosa [dell’Acheronte]
possiedono la mia nobile mente. 72
Ultimo canto di Saffo – Analisi
Di seguito l’analisi del testo.
Nell’Ultimo canto di Saffo, Leopardi immagina le parole pronunciate dalla poetessa greca prima di mettere fine alla sua vita infelice.
La prima strofa (vv. 1-18) si apre con l’idilliaca descrizione di un paesaggio notturno dominato dalla luce della Luna, ormai prossima a tramontare; l’alba è vicina e Venere, la stella del mattino, sta facendo la sua comparsa annunciando così il nuovo giorno.
Saffo si trova sulla rupe di Leucade e qui inizia il suo triste canto. Gli spettacoli che la poetessa può contemplare dalla sua posizione sono bellissimi, ma ella non è più in grado ormai, diversamente da quando era fanciulla, di apprezzare tali bellezze; la sua anima è ormai ferita, il suo cuore è disperato a causa della sua passione amorosa non corrisposta per Faone, il giovane e bellissimo marinaio. A lei, che ormai è decisa a porre fine alla sua infelice esistenza, si accordano maggiormente gli spettacoli tempestosi della natura, le greggi che fuggono spaventate, i fragori dei tuoni, il rumore del mare in tempesta.
Nella seconda strofa (vv. 19-36) il canto della poetessa si fa maggiormente riflessivo; viene esaltata la bellezza della natura, ma poi il canto torna a farsi amaro perché a tutta questa bellezza Saffo sa di non appartenere; sa di esserle estranea nonostante le sue suppliche. La natura è stata così avara con lei che persino l’acqua del ruscello devia il suo corso per non toccare il suo piede incerto, malfermo.
Nella terza strofa (vv. 37-54), la lucida consapevolezza di Saffo della sua estraneità alla bellezza la porta a tutta una serie di domande retoriche a cui è impossibile dare risposta. Qual è stata la sua colpa? Quali sono stati i gravi peccati che hanno causato il suo triste destino? Con il richiamo alle Parche (le donne che tessevano e recidevano il filo della vita), la poetessa argomenta che la risposta alle sue domande è impossibile; il destino degli uomini è imperscrutabile. L’unica cosa certa della vita umana è il dolore. Segue quindi un breve lamentoso richiamo alle speranze della giovinezza. Adesso Saffo, dolorosamente, ma altrettanto lucidamente, si trova a constatare che le virtù personali, pur grandi che siano, a poco servono in un corpo che non conosce la bellezza; senza di questa, le qualità personali non potranno mai risplendere.
La quarta strofa (vv. 55-72) si apre con una dichiarazione drammatica; Saffo annuncia la sua intenzione di porre fine alla sua vita (Morremo.). La morte correggerà l’errore commesso da un destino che è stato spietato con lei; togliersi la vita non è una sconfitta, è un atto liberatorio che metterà fine alla crudeltà che il fato le ha riservato per quasi tutta la sua vita. Poi Saffo si rivolge a Faone; nonostante la grandissima sofferenza per l’amore non corrisposto, Saffo augura all’amato una vita felice, ammesso che un uomo possa mai provare la felicità sulla Terra.
La donna, poi, fa un’amara riflessione sugli anni della giovinezza, pieni di speranze e di sogni, i pochi anni felici della vita degli uomini, i primi a fuggire via. Al loro posto subentrano la malattia e la vecchiaia. Il componimento si chiude con la vittoria della morte sulla vita umana e sul “prode ingegno”; nulla può fuggire a questo destino, nemmeno il sublime animo della poetessa.
Ultimo canto di Saffo – Figure retoriche
Numerose sono le figure retoriche presenti nell’Ultimo canto di Saffo.
Varie volte ricorre la figura retorica dell’apostrofe (vv. 1-2: «placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna»; vv. 2-4: «e tu che spunti / […] nunzio del giorno»; v. 19: «o divo cielo»; v. 20: «rorida terra»; v. 24: «o Natura»; vv. 49-50: «Oh, cure, oh speme/ de’ più verd’anni!»).
Si contano otto iperbati: vv. 2-4: «e tu che spunti / fra la tacita selva in su la rupe / nunzio del giorno»; vv. 4-6: «oh dilettose e care/ mentre ignote mi fûr l’erinni e il fato, / sembianze»; v. 8: «noi l’insueto allor gaudio ravviva»; vv. 17-19: «o d’alto/ fiume alla dubbia sponda/ il suono e la vittrice ira dell’onda»; vv. 20-23: «Ahi! di cotesta / infinita beltà parte nessuna / alla misera Saffo i numi e l’empia / sorte non fenno»; vv. 41-44: «onde poi scemo / di giovanezza, e disfiorato, al fuso / dell’indomita Parca si volvesse / il ferrigno mio stame?»; vv. 57-58: «e il crudo fallo emenderà del cieco / dispensator de’ casi»; vv. 59-60: «e vano / d’implacato desio furor mi strinse».
Due volte è presente la figura dell’epanalessi: vv. 11-12: “il carro/ grave carro di Giove”; vv. 50-51: “alle sembianze il Padre/ alle amene sembianze”.
Sono presenti alcune anastrofi: vv. 16-17: “d’alto/ fiume alla dubbia sponda”; vv. 30-31: “de’ faggi/ il murmure”; v. 39: “di fortuna il volto”; vv. 40-41: “ignara/ di misfatto è la vita”; vv. 44-45: “incaute voci/ spande il tuo labbro”; vv. 45-46: “i destinati eventi/ move arcano consiglio”.
Sono presenti tre polisindeti: vv. 24-25: “vile, o Natura, e grave ospite addetta,/ e dispregiata amante”; v. 67: “il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra”; vv. 71-72: “la tenaria Diva, e l’atra notte, e la silente riva”;
Al v. 26 troviamo una sineddoche (pupille che sta per occhi); lo stesso al vv. 45 (labbro che sta per labbra o bocca).
Ai vv. 29-31 è presente un chiasmo (vv. 29-31: «me non il canto / de’ colorati augelli, e non de’ faggi / il murmure»).
Leopardi fa ricorso anche alla figura della domanda retorica: vv. 37-39: «Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso/ macchiommi anzi il natale, onde sì torvo/ il ciel mi fosse e di fortuna il volto?»; vv. 40-44: «In che peccai bambina, allor che ignara/ di misfatto è la vita, onde poi scemo/ di giovanezza, e disfiorato, al fuso/ dell’indomita Parca si volvesse/ il ferrigno mio stame?».
Numerose sono le metafore: v. 44: “il ferrigno mio stame”; vv. 48-49: “la ragione in grembo/ de’ celesti si posa”; v. 50: “de’ più verd’anni; v. 54: “disadorno ammanto”; v. 55: “velo indegno”; vv. 51-52: “alle amene sembianze, eterno regno/ die’ nelle genti”; v. 53 “per dotta lira o canto”; vv. 62-64: “Me non asperse/ del soave licor del doglio avaro/ Giove”; v. 64: “perir gl’inganni”.
Sono presenti alcune perifrasi; vv. 57-58: “cieco/ dispensator de’ casi”; v. 62: “nato mortal”; v. 71: “tenaria Diva”.
Numerosi sono gli enjambement: vv. 1-2; vv. 6-7; vv. 10-11; vv. 15-16; vv. 16-17; vv. 20-21; vv. 22-23; vv. 25-26; vv. 27-28; vv. 29-30; vv. 30-31; vv. 31-32; vv. 32-33; vv. 37-38; vv. 38-39; vv. 40-41; vv. 41-42; vv. 42-43; vv. 43-44; vv. 44-45; vv. 45-46; vv. 47-48; vv. 48-49; vv. 49-50; vv. 51-52; vv. 57-58; vv. 58-59; vv. 59-60; vv. 62-63; vv. 64-65; vv. 65-66; vv. 67-68; vv. 68-69; vv. 70-71.
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