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Nebbia (Pascoli)

Nebbia è una poesia di Pascoli che fu pubblicata per la prima volta nel 1899 sulla rivista Flegrea e poi entrò a far parte della prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903).

Anche in questa raccolta è frequente il ricorso alla dimensione simbolica degli oggetti: in questo testo, la nebbia è prima descritta come elemento atmosferico, per poi essere invocata dal poeta affinché separi il “nido” familiare da tutto ciò che si trova all’esterno. Tornano anche i temi della morte e del ricordo dei propri defunti.

Il testo di Nebbia è costituito da cinque strofe di sei versi ciascuna con schema di rime ABCBCA; il primo verso si ripete in ogni strofa.

Testo

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

su l’alba,

da’ lampi notturni e da’ crolli 5

d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch’è morto!

Ch’io veda soltanto la siepe

dell’orto, 10

la mura ch’ha piene le crepe

di valerïane.

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch’io veda i due peschi, i due meli, 15

soltanto,

che dànno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane

che vogliono ch’ami e che vada! 20

Ch’io veda là solo quel bianco

di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane…

Nascondi le cose lontane, 25

nascondile, involale al volo

del cuore! Ch’io veda il cipresso

là, solo,

qui, solo quest’orto, cui presso

sonnecchia il mio cane. 30

Nebbia (Pascoli) – Parafrasi

 

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia sottile e pallida,

tu fumo che ancora scaturisci,

all’alba,

dai lampi notturni e dai tuoni fragorosi come frane!

Nascondi le cose lontane,

nascondi ciò che è morto!

Che io veda soltanto la siepe

dell’orto,

il muro che è pieno di crepe

da dove spuntano le valeriane.

Nascondi le cose lontane:

le cose che traboccano di dolore!

Che io veda soltanto

i due peschi, i due meli,

che danno i dolci frutti

per il mio pane nero

Nascondi le cose lontane

che pretendono che io le ami ancora e che mi dicono di andare via!

Che io veda solo quella strada

bianca,

che un giorno dovrò percorrere

accompagnato dal lento suono delle campane…

Nascondi le cose lontane,

nascondile, sottraile ai desideri

del cuore! Che io veda soltanto il cipresso

là,

e soltanto quest’orto, qui, presso il quale

sonnecchia il mio cane.

Nebbia Pascoli - Parafrasi

Nebbia è una poesia di Pascoli che fu pubblicata per la prima volta nel 1899 sulla rivista Flegrea e poi entrò a far parte della prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903)

Nebbia (Pascoli) – Analisi

La ripetizione del verso incipitario in ogni strofa diventa la preghiera rivolta dal Pascoli alla nebbia affinché lo protegga dalle «cose lontane»: nella prima strofa egli fa riferimento agli elementi del paesaggio, mentre a partire dalla seconda ciò che nomina assume un signifcato simbolico. Pascoli vuole essere difeso dal ricordo del passato e della morte; vorrebbe vedere solo ciò che è confinato entro la siepe del proprio orto (come la nebbia e come la siepe di leopardiana memoria, anche questa diventa elemento di separazione rispetto allo sguardo dell’io), cioè vivere solamente a contatto con la quiete (non casuale il riferimento al v. 12 alle «valeriane», che sono piante con proprietà calmanti) del “nido”. Pur possedendo una vita semplice (come chiariscono le immagini della terza strofa: «i due peschi, i due meli» al v. 15, il «nero mio pane» al v. 18), essa gli è sufficiente per allontanare il dolore e per farlo stare bene (tanto che quegli alberi dell’orto «dànno i soavi lor mieli», v. 17).

La nebbia poi diventa la difesa dai desideri e dalla vitalità, tanto che il poeta chiude la quarta strofa con l’immagine del giorno del proprio funerale, con la strada bianca che conduce al cimitero, alla fine di un’esistenza che ha volutamente condotto all’interno del “nido”, evitando «le cose lontane che vogliono ch’ami e che vada» (vv. 19-20).

La morte e il nido tornano anche nell’ultima strofa con l’immagine del cipresso (tradizionale albero funebre) e con quelle dell’orto e del cane.

Figure retoriche

Sono numerose le figure retoriche presenti in questo intenso testo di Pascoli. In primis si deve evidenziare l’anafora: non solo quella che riguarda il verso incipitario (Nascondi le cose lontane) che si ripete ben cinque volte (vv. 1, 7, 13, 19, 25), ma anche quella relativa alla formula Ch’io veda (vv. 9, 15, 21, 27) e quella del pronome tu (vv. 2 e 3).

I vv. 2 e 3 sono un esempio di personificazione (tu nebbia… /tu fumo…) e, allo stesso tempo, di apostrofe.

Più volte Pascoli ricorre a metafore (crolli / d’aeree frane; ebbre di pianto; pel nero mio pane).

Al v. 24 «don don» è onomatopea.

Al v. 26 (nascondile, involale al volo) un notevole di esempio di figura etimologica con allitterazione.

Numerosi sono gli enjambement (vv. 5-6, 9-10, 11-12, 21-22, 23-24, 26-27) e le allitterazioni (n, l, b nei v. 1-2: Nascondi le cose lontane, / tu nebbia impalpabile e scialba; e, r nei vv. 5-6: crolli / d’aeree frane; vol nel v. 26, involale al volo).

 

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