La mia sera è una poesia di Giovanni Pascoli che fu pubblicata per la prima volta nel 1900 sulla rivista Il Marzocco e poi entrò a far parte della prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903).
I canti di Castelvecchio sono una raccolta di poesie di Giovanni Pascoli; il titolo richiama i Canti di Giacomo Leopardi, aspirando così a una poesia più elevata. Castelvecchio è nel comune di Barga, in Garfagnana, ove il poeta aveva acquistato una casa in cui soggiornò a lungo, ritrovando quella pace che nella sua San Mauro sembrava ormai persa.
I Canti di Castelvecchio rivelano novità nel linguaggio con molti termini tecnici e gergali tipici della Garfagnana.
Ne La mia sera Pascoli coglie la parte finale di una giornata dopo la pioggia, in cui trova spazio un paesaggio di serenità e armonia tra gli elementi naturali. Ciò che avviene al paesaggio alla fine del temporale è paragonato alla vecchiaia del poeta stesso: dopo una vita di sofferenza e preoccupazioni, forse è giunto il momento della quiete. La poesia si conclude con un accenno all’infanzia, quando i dolori non avevano ancora colpito la sua famiglia e la madre lo cullava per farlo addormentare.
Testo
Il testo de La mia sera è costituito da cinque strofe di sette novenari e un senario con schema di rime ABABCDCD.
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi 5
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo. 10
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto 15
nell’umida sera.
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro. 20
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno! 25
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera. 30
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi! 35
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera. 40
La mia sera – Parafrasi
Il giorno è stato pieno di lampi;
ma ora appariranno le stelle,
le stelle silenziose. Nei campi
si sente un lieve gracidare di piccole rane.
Un vento leggero attraversa
le foglie dei pioppi facendole tremare.
Durante il giorno, che lampi! Che tuoni!
Durante la sera, che pace!
In un cielo così umido e sereno
dovranno apparire le stelle.
Là, tra le piccole rane allegre,
un ruscello scorre lievemente e in modo sempre uguale.
Del cupo fragore del temporale,
di tutta quella violenta tempesta,
nella sera umida
non resta che il dolce scorrere del ruscello.
Quella tempesta che sembrava infinita
È finita in un ruscello melodioso.
Dei fulmini sottili restano
nuvole rosse e dorate.
O stanco dolore, placati!
La nuvole che durante il giorno mi è sembrata la più nera
è quella che alla fine della sera
vedo più rosa.
Che voli di rondini intorno!
Che cinguettii nel cielo sereno!
La fame patita durante il giorno
rende più lunga e lieta la cena.
Durante il giorno gli uccellini non ebbero
per intero la porzione di cibo che spettava loro.
E io neppure… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Le campane fanno don don…e mi dicono, dormi!
Mi cantano, dormi! Mi sussurrano,
dormi! Mi bisbigliano, dormi!
Sono laggiù, sono come voci che provengono dalle profondità del cielo…
Mi sembrano ninne-nanne,
che mi riportano a quando ero bambino…
sentivo la voce di mia madre…poi più nulla…
all’arrivo della sera.

Ne La mia sera Pascoli coglie la parte finale di una giornata dopo la pioggia, in cui trova spazio un paesaggio di serenità e armonia tra gli elementi naturali.
La mia sera – Analisi e figure retoriche
Ne La mia sera Pascoli descrive il paesaggio serale (sera è la parola chiave che chiude ogni strofa) dopo una giornata di pioggia: dopo i lampi, gli scoppi, il cupo tumulto e l’aspra bufera ritornano la calma e la pace, che lasciano spazio ai dolci suoni della natura.
Il poeta, nella prima strofa, introduce il passaggio dal temporale al sereno della sera e, nel corso della poesia, lo paragona a ciò che è avvenuto nella sua esistenza: forse dopo anni di sofferenze e di dolori, la vecchiaia può rappresentare il raggiungimento della quiete? Il titolo con l’aggettivo possessivo mia sottolinea che la poesia non si limita a rappresentare un paesaggio naturale, ma racconta qualcosa della biografia dell’io lirico. Questo diventa evidente nella quarta strofa, dove Pascoli opera il parallelismo con i rondinini che non hanno potuto ricevere una porzione adeguata di cibo a causa del temporale: anche lui, da bambino, ha vissuto un’infanzia diversa da come avrebbe dovuto essere, a causa dei lutti subiti. Nel finale, poi, il suono delle campane riporta il poeta all’età infantile ed egli si lascia cullare dai ricordi per dimenticare gli affanni che hanno caratterizzato la sua esistenza.
Nelle prime strofe il passaggio dal temporale al sereno è messo in evidenza da numerose antitesi: lampi e stelle (vv. 1-2), scoppi e pace (vv. 7-8), allegre ranelle e singhiozza monotono un rivo (vv. 11-12) (in questo caso si ha anche la figura retorica della personificazione), cupo tumulto e dolce singulto (vv. 13, 15), fulmini e cirri (vv. 19-20), più nera e più rosa (vv. 1-2).
Due sono le onomatopee: il gre gre (v. 4) delle rane e il don don (v. 33) delle campane.
Significativa la rima culla…nulla (vv. 37, 39): il poeta torna con la mente all’infanzia, rievoca la figura della madre che lo faceva addormentare cantandogli delle ninnenanne, si abbandona al sonno che, ora, in età adulta, gli giunge sentendo il suono delle campane; si addormenta, in qualche modo sceglie di entrare nel nulla, una sorta di oblio e di sospensione della coscienza. Tale rima si ritrova anche nella poesia Il tuono, contenuta in Myricae: lì il nulla del primo verso rimava con il culla del verso finale, a simboleggiare che l’angoscia del vuoto ha lasciato spazio alla serenità del nido.
Oltre a quelle citate in precedenza, sono presenti anche le figure retoriche della metonimia (vv. 27-28, La fame del povero giorno / prolunga la garrula cena; v. 29, i nidi), l’ossimoro (v. 15, dolce singulto; v. 36 tenebra azzurra), della sinestesia (v. 19, fulmini fragili; v. 36 voci di tenebra), della personificazione (v. 12, singhiozza monotono un rivo; cielo sì tenero e vivo), l’enjambement (vv. 5-6, 17-18, 19-20, 22-23, 27-28, 29-30) e della metafora (v. 9, si devono aprire le stelle, v. 20, cirri di porpora ed oro; v. 36, le voci delle campane). Ai vv. 33-35 (Don… Don… E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi!) è presente la figura della prosopopea nonché quella dell’anticlimax (climax discendente: cantano, sussurrano, bisbigliano).
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