L’infinito fu composto dal Leopardi a Recanati nel 1819, quando Leopardi aveva ventun anni, e pubblicato per la prima volta nel periodico milanese Il Nuovo Ricoglitore, dove apriva la serie degli “idilli”[1]. L’infinito comparirà nell’edizione bolognese dei Versi (1826) e nei Canti (1831).
La riflessione sul concetto di infinito, centrale nella poetica di Leopardi, prende avvio da una serie di percezioni sensoriali, visive e uditive. Il soggetto poetico si trova seduto di fronte a una siepe posta su un colle poco lontano dalla sua abitazione: essa, impedendo la visuale del poeta, scatena un processo immaginativo che gli permette di riflettere sul concetto di infinito, partendo paradossalmente da situazioni “finite” e “limitate”.
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Centro storico di Recanati (Marche); omaggio a Giacomo Leopardi
Testo
Si tratta di un componimento in endecasillabi sciolti, cioè privi di rime e vari nel ritmo.
- Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
- E questa siepe, che da tanta parte
- Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
- Ma sedendo e rimirando, interminati
- Spazi di là da quella, e sovrumani 5
- Silenzi, e profondissima quiete
- Io nel pensier mi fingo; ove per poco
- Il cor non si spaura. E come il vento
- Odo stormir tra queste piante, io quello
- Infinito silenzio a questa voce 10
- Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
- E le morte stagioni, e la presente
- E viva, e il suon di lei. Così tra questa
- Immensità s’annega il pensier mio:
- E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15
L’infinito – Parafrasi
- Mi furono sempre cari questo colle solitario
- e questa siepe, che esclude la vista
- da gran parte dell’ultimo orizzonte [che impedisce di vedere gran parte dell’orizzonte].
- Ma sedendo e guardando, al di là di quella [siepe],
- io immagino nel pensiero spazi interminabili
- e silenzi sovrumani
- e una pace profondissima; nei quali per poco
- il mio cuore non si spaventa. E non appena
- odo stormire il vento tra questi alberi, io
- vado confrontando quell’infinito silenzio
- a questo suono: e mi torna in mente l’eterno,
- e il tempo passato, e il tempo presente e vivo,
- e il suo suono [della stagione presente]. Così tra questa
- immensità il mio pensiero si smarrisce:
- e naufragare in questo mare mi dà piacere.
L’infinito – Analisi
Il canto si apre con la raffigurazione di un paesaggio molto essenziale, il colle – il monte Tabor – e una siepe che non consente all’autore di osservare l’orizzonte lontano (vv. 1-3); questa semplice, ma allo stesso tempo pregnante immagine, simboleggia la vita dell’uomo, circoscritta dallo spazio, dal tempo, dal destino. È però proprio questa limitatezza che risveglia il desiderio dell’infinito dell’animo, il desiderio di spingersi al di là di ogni limite, verso un’immensità che secondo Pazzaglia “coincide in qualche modo con la nostra spiritualità più autentica, con la realtà profonda del nostro essere”.
Nei versi successivi (4-6) il poeta sosta in una contemplazione senza tempo (Ma, sedendo e mirando, / interminati spazi…); sublime l’utilizzo degli aggettivi (interminati, sovrumani, profondissima); i primi due regalano il senso di uno spaziare senza limite alcuno in una dimensione cosmica, mentre il termine profondissima unito a quiete rende perfettamente l’idea di una pace profonda, di un appagamento senza confini.
Il v. 7, io nel pensier mi fingo…, significa “mi costruisco nel pensiero”.
Nei vv. 7-8 il poeta spiega che, in quell’infinito da lui stesso richiamato, il cuore sembra quasi turbarsi.
Poi arriva il vento che fa vibrare le piante, interrompe quel immobile silenzio e vi riporta il senso del moto e della vita (vv. 8-9); ma anche questo è come la siepe che gli limita la vista; lo spinge cioè a un nuovo slancio verso l’infinito, a infrangere qualsiasi limite.
Nei vv. 9-11 il poeta paragona l’immoto silenzio degli spazi infiniti a questa voce della vita e nella mente sovviene il senso dell’eternità e (vv. 12-13) ritornano alla mente anche il passato (le morte stagioni) e il presente.
Nei versi finali (13-15) il poeta descrive l’annegare del suo pensiero in questa immensità, ma, a differenza di prima, il cuore non è smarrito, turbato, ma anzi il naufragare è “dolce in questo mare”.
Nota – Per un’altra analisi del testo nonché per l’individuazione e la spiegazione delle varie figure retoriche si rimanda alla scheda Sempre caro mi fu quest’ermo colle.
[1] Il termine “idillio” deriva dal greco “eidyllion” e significa “piccola immagine, quadretto”, dunque indica una “poesia breve”. Nell’antica Grecia il vocabolo si riferiva a un genere di poesia bucolica, agreste, in cui veniva messa in risalto la vita di campagna. Negli idilli leopardiani il paesaggio diventa occasione per una riflessione esistenziale.
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