Io m’aggio posto in core a Dio servire è un componimento poetico di Jacopo da Lentini, uno dei maggiori esponenti della cosiddetta scuola siciliana; noto anche come «il Notaro» (svolgeva la funzione di notaio presso la corte di Federico II di Svevia), Jacopo da Lentini è considerato l’inventore della forma tipica del sonetto, ovvero quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine a rima alternata o incrociate e in due terzine a rima varia. Nello specifico, Io m’aggio posto in core a Dio servire è un sonetto a rime alternate nelle quartine (ABAB, ABAB) e nelle terzine (CDC, DCD); è presente una rima siciliana ai vv. 5 e 7. La datazione è incerta.
Prima di passare al testo e alle successive analisi e parafrasi è opportuno premettere che i componimenti della scuola siciliana sono scritti in “siciliano illustre” (una lingua che derivava dal rimaneggiamento delle lingue auliche del periodo, ovvero il latino e il provenzale), ma sono arrivati a noi trascritti dai copisti toscani che, in questo passaggio, fecero alcuni adattamenti; da qui la “toscanizzazione” di alcuni termini e la presenza di rime imperfette; nel caso di questo sonetto, per esempio, troviamo ghiora piuttosto che gloria e, per esempio, gaudere (rima siciliana con i precedenti termini servire, dire e gire anziché gaudiri (che avrebbe rimato perfettamente con i probabili originali serviri, diri e giri).
Alcune note: Agio (aggio) ai vv. 1 e 3 è la forma siciliana della prima persona singolare del verbo avere (ho); il verbo servire (v. 1) sta per “essere fedele” (si tratta di un termine usuale nella lirica d’amore cortese); u‘ (v. 4) è apocope di ubi, termine latino che significa dove (in alcune fonti è riportato il termine o’ (probabilmente intesa come apocope di ove); il trinomio sollazzo (in alcune fonti solazo), gioco, riso (v. 4) è di derivazione provenzale; anche blonda (v. 6) è un provenzalismo, lo stesso dicasi per estando (v. 8).
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Statua ornamentale a Lentini, cittò natale di Jacopo da Lentini (1210 circa – 1260 circa)
Testo
- Io m’a[g]gio posto in core a Dio servire,
- com’io potesse gire in paradiso,
- al santo loco ch’a[g]gio audito dire,
- u’ si manten sollazzo, gioco e riso. 4
- Sanza mia donna non vi voria gire,
- quella c’ha blonda testa e claro viso,
- ché sanza lei non poteria gaudere,
- estando da la mia donna diviso. 8
- Ma no lo dico a tale intendimento,
- perch’io peccato ci volesse fare;
- se non veder lo suo bel portamento 11
- e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
- ché lo mi teria in gran consolamento,
- veggendo la mia donna in ghiora stare. 14
Io m’aggio posto in core a Dio servire – Parafrasi
- Io mi sono ripromesso di servire (essere fedele a) Dio,
- così da poter andare in Paradiso,
- in quel luogo santo di chi cui ho sentito parlare,
- dove eternamente durano il piacere, il divertimento e l’allegria. 4
- Non vorrei andarci senza la mia donna,
- che ha i capelli biondi e la carnagione chiara,
- senza di lei non potrei gioire,
- essendo diviso dalla mia donna. 8
- Ma non lo dico con lo scopo
- di voler peccare con lei,
- ma solo perché vorrei ammirare il suo comportamento virtuoso, 11
- e il suo bel viso e il suo sguardo soave,
- per me sarebbe (considererei) una grande consolazione,
- vedere la mia donna nella gloria di Dio. 14
Io m’aggio posto in core a Dio servire – Analisi
In questo sonetto, considerato come uno dei più interessanti della produzione di Lentini, il poeta realizza l’intreccio e, per certi versi, il contrasto fra il sentimento d’amore e il sentimento religioso. L’omaggio alla donna amata, un classico della tradizione cortese, si arricchisce, in effetti di una religiosità che comunque sembra divenire quasi un pretesto per un processo di divinizzazione della figura femminile (il sonetto ne esalta sia le caratteristiche fisiche che quelle morali); del resto, nella scuola siciliana, la donna assume in sé tutti i valori, mentre l’uomo, l’amante-vassallo, afferma la propria indegnità; Io m’aggio posto in core a Dio servire non fa eccezione; l’atteggiamento di sudditanza nei confronti della donna amata è chiarissimo (Sanza mia donna non vi voria gire, ovvero senza di lei non potrei gioire afferma il poeta al v. 7) e totalmente assenti sono i riferimenti al desiderio erotico, alla dimensione carnale del rapporto amoroso; in sostanza, il poeta sembra voler affermare che il Paradiso “non gli basterebbe” se fosse costretto a essere diviso dalla donna che ama.
Alcuni autori fanno notare il forte contrasto fra la prima quartina e il resto del componimento; nei primi versi, in effetti, si è portati a pensare non tanto a un sonetto d’amore, ma quasi a un testo penitenziale; il poeta ha deciso di mettersi a servizio di Dio, di essergli fedele, ma i versi successivi rivelano quello che, alla fine, è il reale tema del componimento, ovvero l’elogio della bellezza della creatura femminile.
Figure retoriche
Al v. 4 si nota un parallelismo tra la vita di corte (testimoniata dal trinomio sollazzo, gioco e riso della tradizione trobadorica) e quella del Paradiso. Al v.12 troviamo un limpido esempio di sinestesia (morbido sguardare) e un polisindeto (e lo bel viso e ‘l morbido sguardare).
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