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Dora Markus

Dora Markus è un componimento poetico di Eugenio Montale, è compresa nella raccolta Le Occasioni (1939) ed è costituita da due parti composte in periodi differenti.

La prima parte, pubblicata nel 1937 sul Meridiano di Roma, è probabilmente il frutto dell’unione di versi scritti nel 1926 e dedicati a Gertrude Frankl Tolazzi, detta Gerti – un’ebrea austriaca amica di Montale, alla quale egli ha dedicato la poesia Carnevale di Gerti, anch’essa parte delle Occasioni – e di versi scritti tra il 1928 e il 1929 in seguito alla ricezione di una lettera da parte dell’amico Bobi Bazlen nel 1928 relativa a una conoscenza degli amici comuni Gerti e Carlo Tolazzi: «A Trieste, loro ospite, un’amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama Dora Markus». Montale non conobbe mai Dora Markus, ma le dedicò i versi della poesia che porta il suo nome mescolandoli a quelli già scritti per Gerti, che tra l’altro aveva scattato la fotografia delle gambe dell’amica inviata poi a Montale come ispirazione per la lirica.

La seconda parte, composta probabilmente nel 1939, risente del clima dovuto alle persecuzioni razziali nazifasciste e guarda al destino della donna ebrea. Anche in questi versi torna il mescolamento delle due figure femminili, a cui si aggiunge – per stessa ammissione del poeta a Bobi Bazlen – la rievocazione di Irma Brandeis, anche ella costretta alla fuga in seguito alle leggi razziali fasciste.

Si tratta di strofe di varia lunghezza in versi liberi, con prevalenza di endecasillabi, ottonari e novenari.

In questa pagina…

  • Testo
  • Parafrasi
  • Analisi e figure retoriche
Dora Markus - Parafrasi - Analisi - Figure retoriche

Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è considerato il più grande poeta del Novecento italiano.

Testo

I parte

  • Fu dove il ponte di legno
  • mette a porto Corsini sul mare alto
  • e rari uomini, quasi immoti, affondano
  • o salpano le reti. Con un segno
  • della mano additavi all’altra sponda 5
  • invisibile la tua patria vera.
  • Poi seguimmo il canale fino alla darsena
  • della città, lucida di fuliggine,
  • nella bassura dove s’affondava
  • una primavera inerte, senza memoria. 10
  • E qui dove un’antica vita
  • si screzia in una dolce
  • ansietà d’Oriente,
  • le tue parole iridavano come le scaglie
  • della triglia moribonda. 15
  • La tua irrequietudine mi fa pensare
  • agli uccelli di passo che urtano ai fari
  • nelle sere tempestose:
  • è una tempesta anche la tua dolcezza,
  • turbina e non appare, 20
  • e i suoi riposi sono anche più rari.
  • Non so come stremata tu resisti
  • in questo lago
  • d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
  • ti salva un amuleto che tu tieni 25
  • vicino alla matita delle labbra,
  • al piumino, alla lima: un topo bianco,
  • d’avorio; e così esisti!

II parte

  • Ormai nella tua Carinzia
  • di mirti fioriti e di stagni, 30
  • china sul bordo sorvegli
  • la carpa che timida abbocca
  • o segui sui tigli, tra gl’irti
  • pinnacoli le accensioni
  • del vespro e nell’acque un avvampo 35
  • di tende da scali e pensioni.
  • La sera che si protende
  • sull’umida conca non porta
  • col palpito dei motori
  • che gemiti d’oche e un interno 40
  • di nivee maioliche dice
  • allo specchio annerito che ti vide
  • diversa una storia di errori
  • imperturbati e la incide
  • dove la spugna non giunge. 45
  • La tua leggenda, Dora!
  • Ma è scritta già in quegli sguardi
  • di uomini che hanno fedine
  • altere e deboli in grandi
  • ritratti d’oro e ritorna 50
  • ad ogni accordo che esprime
  • l’armonica guasta nell’ora
  • che abbuia, sempre più tardi.
  • È scritta là. Il sempreverde
  • alloro per la cucina 55
  • resiste, la voce non muta,
  • Ravenna è lontana, distilla
  • veleno una fede feroce.
  • Che vuole da te? Non si cede
  • voce, leggenda o destino… 60
  • Ma è tardi, sempre più tardi.

Dora Markus – Parafrasi

I parte

  • Accadde nel punto in cui il ponte di legno,
  • a Porto Corsini, conduce al molo in mare aperto
  • e pochi uomini, quasi immobili, gettano
  • o tirano su le reti. Con la mano
  • indicavi verso l’invisibile sponda opposta [dell’Adriatico]
  • la tua vera patria.
  • Poi percorremmo il canale fino alla darsena [la parte più interna del porto]
  • della città, segnata dalla fuliggine,
  • nella parte bassa, dove sprofondava
  • una primavera inesplosa, senza memoria.
  • E qui [a Ravenna], dove la vita antica
  • assume varie tonalità di colore
  • come in una dolce nostalgia d’Oriente,
  • le tue parole mutavano continuamente come le scaglie
  • della triglia morente.
  • La tua irrequietudine mi fa pensare
  • agli uccelli migratori, che urtano contro i fari
  • nelle sere tempestose:
  • anche la tua dolcezza è una tempesta,
  • si agita, ma non appare,
  • e i momenti in cui essa trova tregua sono rari.
  • Non so come, ormai stremata, tu resisti
  • in questo lago
  • d’indifferenza che è il tuo cuore; forse
  • ti salva un amuleto che tu tieni
  • vicino alla matita delle labbra,
  • al piumino della cipria, alla lima: un topo bianco,
  • d’avorio; e così sopravvivi!

II parte

  • Ormai sei nella tua Carinzia,
  • costellata di mirti fioriti e di stagni,
  • china sul bordo del lago sorvegli
  • la carpa che abbocca timida,
  • segui il tramonto sui tigli,
  • tra i picchi altissimi [delle abitazioni],
  • e vedi riflettersi nelle acque un fiammeggiare
  • di tende di scali e alberghi.
  • La sera che si allunga
  • sull’umida conca del lago non porta,
  • col rumore dei motori dei battelli,
  • che gemiti di oche e un interno
  • con ceramiche bianche racconta
  • allo specchio ormai annerito, che ti ha vista
  • diversa [più giovane], una storia di errori
  • accettati senza turbamento e la fissa
  • in un punto in cui la spugna non può cancellarla.
  • La tua leggenda, Dora!
  • Ma è già scritta in quei ritratti
  • di uomini con lunghe basette
  • altere ma deboli, montati in grandi
  • cornici dorate, e viene riproposta
  • dagli accordi che un’armonica rotta
  • diffonde al tramonto,
  • sempre più tardi.
  • È scritta là. L’alloro
  • sempreverde usato in cucina
  • resiste, la voce non cambia,
  • Ravenna è lontana, una fede feroce [nazismo]
  • sparge veleno.
  • Cosa vuole essa da te? Non è possibile sacrificare
  • i propri valori, la storia o il destino…
  • Ma è tardi, sempre più tardi.
Dora Markus - Parafrasi - Analisi del testo

“Le gambe di Dora Markus” – Autrice: Gerti Frankl (1902-1989)

Dora Markus – Analisi e figure retoriche

La prima parte della poesia, con il verbo incipitario («Fu») che colloca i fatti in un passato non definito, è ambientata a Ravenna, come esplicita il v. 2 («Porto Corsini» è il porto della città emiliana).

Il poeta fissa la donna intenta a compiere un gesto con la mano mentre si trova sul canale che dal porto conduce alla città: ella indica verso l’«altra sponda» dell’Adriatico, a Oriente, la sua «patria vera» (v. 6), e quest’ultima potrebbe la Carinzia, regione austriaca della quale la donna è originaria, o – trattandosi di una poesia che mescola tre figure femminili ebree – più probabilmente l’espressione fa riferimento alla “terra promessa” degli ebrei della Diaspora.

Il paesaggio che avvolge la donna e l’io lirico (il verbo «seguimmo» al v. 7 esplicita una presenza plurale) è nero di fuliggine, in una primavera che è «senza memoria» (v. 10) perché l’atmosfera non è quella tipica di questa stagione.

La seconda strofa della prima parte è legata alla precedente dalla congiunzione incipitaria «E» (v. 11) ed evoca Ravenna che, con i suoi monumenti e mosaici bizantini, suscita una nostalgia d’Oriente. Nei due versi finali il poeta usa una similitudine: le parole della donna «iridavano» (v. 14), mutavano continuamente, come fanno le cangianti scaglie delle triglie. Tale effetto rimanda anche al cromatismo dei mosaici bizantini a cui alludeva poco sopra.

Nella terza strofa non ci sono riferimenti di luogo: il poeta guarda all’«irrequietudine» della donna, che gli ricorda quella degli uccelli migratori che, attirati dalla luce, «urtano ai fari / nelle sere tempestose» (vv. 17-18); a differenza di questi, che si concedono momenti di riposo durante i lunghi voli, la donna raramente trova tregua alla sua inquietudine, alla sua «dolcezza» che è come una «tempesta» (v. 19).

Il poeta si stupisce di come la donna possa resistere, così «stremata», al «lago / d’indifferenza» (vv. 23-24) che è il suo animo: egli presume che la sua salvezza derivi da un portafortuna («amuleto», v. 25), un «topo bianco / d’avorio» (vv. 27-28), un oggetto quotidiano che però assume appunto un significato salvifico, che ella conserva in mezzo agli oggetti da trucco.

Nella seconda parte il poeta immagina la donna in Carinzia, la regione austriaca della quale ella era originaria, e nella prima strofa descrive un paesaggio lacustre presso il quale la donna si sofferma: le acque riflettono, come un «avvampo» (v. 35), i colori delle tende delle banchine e degli alberghi circostanti.

Nella seconda strofa della seconda parte si passa dal lago, su cui la sera che scende lascia spazio al «palpito dei motori» (v. 39) delle imbarcazioni e ai «gemiti d’oche» (v. 40), agli interni della casa di Dora Markus, che sembrano raccontare una «una storia di errori», quella della giovinezza, che viene incisa in quella parte della memoria in cui i ricordi rimangono vivi.

Nella terza strofa la storia («leggenda», v. 46) di Dora viene legata a quella dei suoi antenati («sguardi / di uomini che hanno fedine / altere e deboli in grandi / ritratti d’oro», vv. 47-50), ma «nell’ora / che abbuia» (vv. 52-53) tutto appare fuori tempo rispetto alla minaccia del presente, quella nazista e della guerra, pur non esplicitamente nominata.

L’ultima strofa, invece, rende più esplicito il clima di sgomento e terrore che si sta abbattendo sull’Europa e, in particolare, sugli ebrei: il nazismo è «una fede feroce» (v. 58) che «distilla / veleno» (vv. 57-58) e che minaccia l’identità e i valori della donna, che tenta la sua resistenza con un altro oggetto salvifico, il «sempreverde / alloro per la cucina» (vv. 54-55): come già anticipato nella strofa precedente, però, «è tardi, / sempre più tardi» (v. 61).

Per quanto riguarda le figure retoriche si possono segnalare i numerosi enjambement (vv. 1-2, 3-4, 4-5, 5-6, 7-8, 9-10, 11-12, 12-13, 14-15, 16-17, 17-18, 22-23, 24-25, 25-26, 29-30, 31-32, 33-34, 34-35, 35-36, 37-38, 38-39, 40-41, 41-42, 42-43. 43-44, 44-45. 47-48. 48-49. 49-50, 50-51, 51-52, 52-53, 54-55, 55-56, 57-58, 59-60) e alcuni ossimori (v. 8, lucida di fuliggine; vv. 12-13, dolce / ansietà; v. 19, è una tempesta anche la tua dolcezza).

 

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