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Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira è l’incipit di uno dei sonetti più noti di Guido Cavalcanti. Si tratta di un componimento in lode della donna amata, in linea con la tradizione guinizzelliana (dal suo sonetto “Io voglio del ver la mia donna laudare“, Cavalcanti riprende due rime, in quattro parole-rima) e stilnovistica. In realtà, potremmo definire quello di Cavalcanti uno “stilnovismo tragico”. Il grande tema della poesia cavalcantiana era infatti l’amore, che ha la capacità di nobilitare l’animo umano, ma allo stesso tempo è interpretato come esperienza tragica, poiché è un’esperienza talmente radicale e complessa che, non potendo essere soggetta al controllo razionale, può portare alla disgregazione dell’io. Di conseguenza, in molti componimenti i temi del saluto e della lode dell’amata risultano mutati: spesso la donna, più che portatrice di salvezza, risulta portatrice di distruzione.

In questo sonetto, il poeta annuncia l’apparizione della donna, che si manifesta in uno splendore tale che egli non è capace di descriverla e dichiara l’inadeguatezza della propria parola.

Il sonetto presenta rime incrociate nelle quartine e rovesciate nelle terzine, secondo lo schema ABBA, ABBA, CDE, EDC.

Testo

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,

che fa tremar di chiaritate l’âre

e mena seco Amor, sì che parlare

null’omo pote, ma ciascun sospira? 4

O Deo, che sembra quando li occhi gira!

dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare:

cotanto d’umiltà donna mi pare,

ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira. 8

Non si poria contar la sua piagenza,

ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,

e la beltate per sua dea la mostra. 11

Non fu sì alta già la mente nostra

e non si pose ‘n noi tanta salute,

che propiamente n’aviàn canoscenza. 14

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira – Parafrasi

 

Chi è questa che viene, questa che ogni uomo ammira,

la quale fa tremare di luminosità l’aria

e porta con sé Amore, così che

nessun uomo può parlare, ma ciascuno sospira?

O Dio, che cosa sembra quando gira intorno gli occhi!

Lo dica Amore, perché io non lo saprei dire:

mi appare a tal punto una donna così piena di umiltà.

che ogni altra, rispetto a lei, io la definisco malvagia.

Non si potrebbe definire la sua bellezza,

dato che a lei si inchina ogni nobile virtù,

e la bellezza la indica come sua dea.

La nostra mente non fu mai così alta

e non fu posta in noi (da Dio) tanta perfezione,

da poterne avere conoscenza in maniera adeguata.

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira – Analisi

L’incipit del sonetto è una ripresa biblica dal Cantico dei Cantici («Chi è questa che avanza…», VI, 9) e dal profeta Isaia («Chi è questa che viene…», LXIII, 1).

I vv. 3-4 sottolineano l’insufficienza della parola, alla quale si sostituisce il sospiro come estrema forma di espressione.

Nella seconda quartina Cavalcanti riprende il tema della limitata capacità della parola del poeta, che ha una duplice valenza: da un lato ha una funzione retorica, che il poeta utilizza per esprimere la sua modestia; dall’altro lato, evidenzia il limite della parola umana, che non può raccontare lo splendore legato all’apparizione della donna, che risulta quindi più divino che umano.

Nella prima terzina, Cavalcanti spiega che la donna, essendo superiore a qualsiasi altro modello di bellezza o valore positivo, rende il poeta incapace di esprimere le sue qualità, perché il linguaggio non risulta adeguato. L’oggetto da conoscere e di cui parlare (la donna) risulta dunque superiore alla conoscenza e all’espressione stesse.

Nell’ultima terzina, infatti, il poeta spiega che la Grazia non ha concesso all’uomo la possibilità di conoscere razionalmente la perfezione dell’amata.

Chi è questa che vèn, ch'ogn'om la mira - Parafrasi - Analisi

Guido Cavalcanti (fonte: Wikimedia Commons / autore: Giogo)

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira – Figure retoriche

Nel sonetto di Cavalcanti sono presenti alcune figure retoriche. Esso si apre con una domanda retorica (Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira…?).

Al v. 2 è presente un’anastrofe (di chiaritate l’âre).

Il v. 2 fa tremar di chiaritate l’âre è una chiara iperbole.

Il testo presenta un solo enjambement (vv. 3-4, parlare / null’omo pote).

Il v. 5 si caratterizza per la presenza di un’apostrofe (O Deo…).

Si notano anche le anafore (vv. 2, 8, 10, 14: che/ch’/ch’/che; vv. 9, 12, 13: non/non/e non).

La figura dell’iperbato è presente nei vv. 3-4 (sì che parlare / null’omo pote), vv. 5-6 (O Deo, che sembra quando li occhi gira! / dical’ Amor) e nel v. 7 (cotanto d’umiltà donna mi pare).

Nei vv. 7-8 è presente un’antitesi (umiltà/ira).

Nel v. 6 compare la figura retorica della personificazione (dical’ Amor).

 

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