Alle fronde dei salici è uno dei componimenti poetici più noti e importanti di Salvatore Quasimodo, che apre la raccolta Giorno dopo giorno (1947), segnata come quelle successive dall’esperienza dolorosa della guerra mondiale e dalle sue conseguenze sugli uomini e sulla natura. A differenza dei testi poetici precedenti, in cui prevalevano una piena adesione all’Ermetismo e il frammento, adesso Quasimodo predilige una poesia maggiormente accessibile e versi lineari e dal significato immediato. Inizialmente la raccolta avrebbe dovuto titolarsi Con il piede straniero sopra il cuore, secondo verso di questa lirica, a sottolineare l’importanza che tale testo riveste all’interno della produzione di Quasimodo.
In questa lirica egli richiama gli orrori legati all’occupazione nazista in Italia: gli eventi di quel periodo hanno imposto ai poeti di “appendere le cetre alle fronde dei salici”, cioè di abbandonare temporaneamente la parola poetica per farsi partecipi della sofferenza e del dolore collettivi.
Quasimodo tiene a modello il Salmo 137 della Bibbia, che esprime il lamento degli Ebrei in esilio a Babilonia: “Lungo i fiumi di Babilonia, / là sedevamo e piangevamo / ricordandoci di Sion. / Ai salici di quella terra / appendemmo le nostre cetre, / perché là ci chiedevano parole di canto / coloro che ci avevano deportato, / allegre canzoni, i nostri oppressori: / “Cantateci canti di Sion!”. / Come cantare i canti del Signore / in terra straniera?”. Si tratta di un’unica strofa in endecasillabi sciolti.
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Alle fronde dei salici è una delle poesie più note e importanti di Salvatore Quasimodo; in essa il poeta richiama gli orrori legati all’occupazione nazista in Italia
Testo
- E come potevano noi cantare
- con il piede straniero sopra il cuore,
- fra i morti abbandonati nelle piazze
- sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
- d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero 5
- della madre che andava incontro al figlio
- crocifisso sul palo del telegrafo?
- Alle fronde dei salici, per voto,
- anche le nostre cetre erano appese,
- oscillavano lievi al triste vento. 10
Alle fronde dei salici – Parafrasi
- E come avremmo potuto noi poeti scrivere poesie
- con l’occupazione nazifascista che rendeva pesante il nostro animo
- tra i morti abbandonati nelle piazze
- sui prati resi duri dal ghiaccio, sentendo i lamenti
- dei bambini innocenti, il tragico urlo
- della madre che andava incontro a suo figlio
- impiccato sul palo del telegrafo?
- Sui rami dei salici, per un voto di silenzio,
- le nostre cetre (simbolo della poesia) erano appese
- e oscillavano lievemente al vento che recava dolore.
Alle fronde dei salici – Analisi e figure retoriche
Alle fronde dei salici è suddivisibile in due parti: la prima è rappresentata dall’interrogativa che copre i vv. 1-7 mentre la seconda dalla dichiarativa che chiude la poesia ai vv. 8-10. Quasimodo si interroga sulle possibilità della poesia in un mondo oppresso e distrutto dalla guerra e dagli orrori nazifascisti («il piede straniero sopra il cuore» al v. 2 è una metafora per indicare l’occupazione nazista a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943) esplicitati attraverso alcune immagini di forte impatto:
- «i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio» dei vv. 3-4 sono le vittime della repressione nazifascista, fucilati e lasciati nelle piazze a monito di eventuali ribellioni; il «ghiaccio» è quello dell’inverno freddo del 1943-1944.
- il «lamento / d’agnello dei fanciulli» con forte enjambement ai vv. 4-5 è un’analogia che accosta il pianto dei più innocenti e indifesi al belato degli agnelli, che sono inoltre simbolo di purezza e del sacrificio di Cristo; gli enjambement sono presenti anche nei vv. 5-6 e 6-7. (urlo nero /della madre; figlio / crocifisso).
- l’«l’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo» dei vv. 5-7 è una sinestesia cruda e fortemente espressionistica, che esprime il lamento lugubre, straziato, indicibile delle madri costrette a guardare impotenti i propri figli, impiccati ai pali delle città (l’uso del termine «crocifisso» suggerisce ancora una volta l’analogia tra le vittime della repressione nazifascista e Cristo morto innocente sulla croce, con Maria sua madre che, impotente, volgeva lo sguardo al figlio). L’«urlo nero» della madre fa pensare al quadro “L’urlo” di Edvard Munch del 1893.
Nella seconda parte il poeta risponde a questo interrogativo posto come retorico: era impossibile «cantare», fare poesia, di fronte a questo dolore straziante. Per questo «anche» (la congiunzione crea un parallelismo tra gli Ebrei di Babilonia e la generazione di poeti che stava vivendo quei momenti: “anche noi, come gli Ebrei in esilio, non potevamo cantare”) i poeti, «per voto» (v. 8) – ancora una volta Quasimodo rimane nell’ambito religioso, con il riferimento al “voto”, una scelta che il fedele compie sperando di ottenere una grazia – dunque per dovere morale, per rispetto e solidarietà, hanno appeso «alle fronde dei salici» (l’immagine è quella del Salmo biblico) le «cetre», che fin dall’antichità sono simbolo del canto e della poesia, che continuavano ad oscillare, silenziose, al «triste vento» della guerra e dell’oppressione.
Oltre a quelle citate, sono presenti anche altre figure retoriche fra cui le pregnanti metafore (piede straniero; lamento / d’agnello dei fanciulli; triste vento; piede straniero è anche una metonimia) e le allitterazioni della r (vv. 1, 2, 5, 6, 7) e della l (4, 5, 10).
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