Per il Personalismo la ricchezza è una condizione facilitante. Anche comunemente si suole dire che
(1) i soldi non fanno la felicità, ma aiutano.
La saggezza insita nella frase si scontra prepotentemente con il comportamento di
- chi è ricco, ma non sa godersi la ricchezza e continua a lavorare e accumulare denaro, immerso in un mare di problemi e preoccupazioni;
- chi ricco non è, ma vive nella perenne invidia, per non dire odio, di chi lo è;
- chi sta economicamente bene, ma vorrebbe sempre di più.
Per capire questi comportamenti, arrivando a scoprire la relazione fra ricchezza e qualità della vita, è necessario affrontare il problema dal punto di vista teorico.
Un po’ di teoria
Negli ultimi due secoli molte dottrine economiche (capitalismo, socialismo, liberismo ecc.) hanno dovuto scontrarsi con il concetto di ricchezza; oggi in molti Paesi occidentali esiste un’innegabile corsa alla ricchezza, vista come condizione sufficiente al benessere; in alcune nazioni, come gli Stati Uniti, questa corsa è addirittura quasi un dovere civico di supporto al Paese. Di fatto, proprio la realtà americana ci insegna che la corsa alla ricchezza non è affatto condizione sufficiente alla felicità, anzi solo chi ha subito un deciso lavaggio del cervello può ormai crederlo.
La negazione della ricchezza
Per combattere queste degenerazioni del concetto di ricchezza, in particolare l’idea romantica che essa sia un valore assolutamente positivo, si sono via via proposte diverse strade, tutte più o meno confluenti in quella della negazione della ricchezza come condizione facilitante.
In questa negazione, ciò che cambia è la giustificazione: il mistico nega il valore della ricchezza perché convinto che non serva per la vita ultraterrena, il contemplativo la nega in nome della cultura e dei valori dello spirito che sono per lui “i veri valori”, la “vera ricchezza”, il romantico la sostituisce con idee dominanti diverse (per esempio l’etica o l’amore). Quest’ultimo caso è interessante perché dimostra come soggetti con personalità critica identica (romantici) possano comportarsi in maniera diversa: il romantico lavoratore avrà come idea dominante la ricchezza, la carriera, il successo nel lavoro ecc.; il romantico sognatore riterrà tali idee “inutili” e si concentrerà sull’amore o sull’etica.
Più motivata la negazione della ricchezza per motivi politici e sociali, tipica delle dottrine comuniste (dal punto di vista psicologico fatta propria da molti arrabbiati sociali).
La posizione della democrazia del benessere – Nella popolazione la ricchezza ha una distribuzione (si pensi a una gaussiana, anche se nella realtà la forma non è proprio questa) che deriva dalle condizioni iniziali del singolo, dalle sue capacità, dalle sue scelte, dal caso ecc. Del resto, se diamo 1 milione di euro a un folto campione di persone, dopo dieci anni ci sarà chi ne avrà 100 e chi ne avrà 0!
La ridistribuzione della ricchezza deve passare attraverso la ridistribuzione del reddito, realizzata in altri modi è solo una prevaricazione: quando un soggetto ha pagato le tasse, dei suoi soldi può farne quello che vuole, in particolare anche accumularli. Al limite, chi vuole ridistribuire la ricchezza, diminuendo la deviazione standard della gaussiana (cioè stringendola molto), potrà proporre l’innalzamento dell’aliquota fiscale massima individuale oltre un certo limite (per esempio un prelievo sul reddito del 90% dopo un milione di euro), ma non può intervenire ancora dopo che le tasse sono state correttamente pagate.
La ricchezza secondo il Personalismo
D’altro canto la ricchezza è una condizione facilitante, l’abbiamo detto subito. Come conciliare queste riflessioni in una condotta pratica? L’impresa sembra ardua perché pochissimi sono indenni dal fascino della ricchezza. Si provi a chiedere a un campione di 100 persone che relazione c’è fra felicità e ricchezza. Alcuni risponderanno che la ricchezza è condizione necessaria per la felicità, altri che è sufficiente, altri che è facilitante, ma molto probabilmente nessuno risponderà che è una condizione penalizzante per la felicità. Nessuno! Eppure nel prossimo paragrafo scopriremo che può esserlo!
Penso che ogni modello economico che si rispetti, per essere compatibile con la massima qualità della vita di tutti i cittadini, debba rispettare il principio della curva RQ che vado a descrivervi (RQ sta per ricchezza vs. qualità della vita).
Per costruirla premettiamo qualche riflessione. Se guadagniamo 1.000 euro al mese probabilmente dovremo tirare la cinghia e di molto; con 10.000 sicuramente le cose andranno meglio, potremo addirittura mettere via un bel gruzzolo per il nostro futuro. Con 100.000 euro al mese, il risparmio salirà vertiginosamente e ben presto ci renderemo conto che non basterà la nostra vita per spenderlo. Ecco che incominceremo a crearci alibi per continuare ad arricchirci. Quello più comune è rappresentato dai figli: “lo faccio per lasciare qualcosa ai miei figli”. Che questo non sia che un alibi è sempre e comunque rappresentato dalle cifre in gioco, in genere ben più di “qualcosa”. L’alibi dei figli può essere smontato con due osservazioni:
- Se tutti usassero questa strategia, nessuno finirebbe mai per godersi i soldi che sarebbero accumulati in ricchezze sempre crescenti, destinate sempre a chi verrà.
- D’altro canto se i figli sono intelligenti, faranno come il padre e ci metteranno ben poco a crearsi la loro ricchezza; è già tanto che partano non con “tutto”, ma con un piccolo aiutino; se viceversa sono “economicamente inefficienti”, dato loro un cospicuo capitale, lo dilapideranno in poco tempo.
Il punto è che per guadagnare 100.000 euro al mese probabilmente la nostra vita sarà talmente stressata (il costo della ricchezza) che la qualità della vita scenderà. Se valutiamo questa penalizzazione 50.000 euro al mese ecco che il nostro reale guadagno mensile sarà dimezzato.
In realtà, il caso ora citato avviene a tutti i livelli di ricchezza: nessuno include il costo esistenziale della ricchezza che dovrebbe essere valutato analogamente alle spese più o meno nascoste di un normale investimento finanziario.
Che senso ha guadagnare 6.000 euro al mese lavorando 12 stressantissime ore al giorno, quando potrei lavorare solo 8 ore tranquille guadagnando 4.500 euro? Chi fa la prima scelta non considera il costo della ricchezza, spesso illudendosi che “le cose cambieranno”, senza strategie a medio-lungo periodo (potrebbe essere sensato accettare una diminuzione della qualità della vita per 15 anni e poi vivere di rendita, strategia del traguardo).
Quello che esce da queste riflessioni è la curva RQ: la relazione fra la qualità della vita (in ordinata) e la ricchezza (in ascissa). Le unità di misura sono arbitrarie, ma la forma della curva resta, comunque si scelgano. Se vogliamo è una specie di elettrocardiogramma economico con diverse zone, ognuna delle quali ha un suo significato.
Come si nota, in un primo tratto (fino a X, che chiameremo punto di massima efficienza) si ha una brusca impennata: più si è ricchi e meglio mediamente si vive; ovvio che il discorso è fatto sulla media della popolazione: ci può essere un singolo soggetto felice con 1.000 euro al mese che contrasta nettamente con l’infelicità di un soggetto che ne guadagna 10.000: la ricchezza è una condizione facilitante come già abbiamo avuto occasione di ribadire.
Dopo X lo è ancora, ma di meno. Le cose migliorano fino a Y, ma da Y a Z restano invariate. Dopo il plateau, oltre Z, che chiameremo punto d’inversione, ci sono diverse pendenze con cui la qualità della vita tende a diminuire. Inutile discutere fin dove arriverà: per la teoria della ricchezza limitata, quel che conta è che diminuisce e non c’è inversione di tendenza.
Occorre subito dire che ci si riferisce non alla ricchezza globale del soggetto, ma a quella che lui gestisce con il lavoro (quindi con il suo tempo, quindi con una qualità della vita non completamente orientata a ciò che ama), essendo ovvio che una vincita stratosferica alla lotteria o un’enorme eredità non rientrano nel nostro discorso (a meno che poi non vengano investite in attività che producono comunque una degenerazione esistenziale).
Se vuole essere compatibile con la qualità della vita, qualunque modello economico moderno dovrebbe tener conto della curva RQ, in particolare favorendo tre condizioni:
- Ogni cittadino deve superare una certa soglia di sopravvivenza.
- Ogni cittadino deve poter esprimere le proprie potenzialità arrivando al punto di massima efficienza della società in cui vive.
- Ogni cittadino deve essere limitato nell’accumulo di ricchezze superiori al punto di inversione.
Qualche spiegazione.
Il primo punto è chiaro e probabilmente condiviso da tutti coloro che hanno una visione sociale sufficientemente altruistica da capire che in una società il fatto che una percentuale significativa di cittadini viva in condizioni di degrado è negativo per tutti. Quello che spesso manca a livello istituzionale è l’impegno reale e continuo, cioè la pratica di questo punto.
Il secondo punto è così importante che ogni società occidentale vorrebbe vantarsi di poterlo realizzare, mentre è incompatibile con visioni troppo critiche verso la ricchezza in generale.
Il terzo punto può generare facili incomprensioni. Non si vuole penalizzare la ricchezza, ma il fatto che un soggetto, arrivato al punto Z (per capacità o per fortuna), continui ad accumulare ricchezza impegnandosi direttamente nella sua attività. Potrà anche superare il punto Z, ma non rubando ad altri opportunità e risorse per la semplice soddisfazione di “diventare ancora più ricco”.
La curva RQ individuale
Si potrebbe pensare che il discorso che abbiamo fatto sulla curva RQ riguardi di fatto ben poche persone. Anche se una persona su 100 supera Z, certo, socialmente magari non è giustissimo, magari la sua qualità della vita decade, ma che senso hanno queste osservazioni per la stragrande maggioranza della popolazione?
La curva RQ globale che abbiamo descritto non è che una media sulla popolazione. In realtà, per ognuno di noi vale una curva individuale basata
- sulle proprie capacità
- sulla propria psicologia
- sulle proprie condizioni di partenza
- e, perché no, sulla fortuna.
Ognuno di noi ha un punto Z, un punto superato il quale la ricchezza ha un costo troppo elevato.
Se il mio punto Z è di soli 3.000 euro perché dovrei ammazzarmi di fatica e di stress per guadagnarne 4.000? Che senso ha?
Negli Stati Uniti questa banale domanda probabilmente spiazzerebbe gran parte della popolazione, nata e cresciuta con il mito della competitività nel lavoro e nello sport, sull’autostima da risultato e sul mito del successo individuale (il sogno americano è in fondo la visione romantica del punto Z per cui uno su mille ce la fa e, anziché fermarsi a Z, continua perché s’illude che la curva continui a salire); in Italia le cose vanno meglio, ma non tanto. Complice una certa acritica americanizzazione del nostro Paese (non scambiatela per una forma di antiamericanismo, gli USA per altri versi sono un Paese fantastico), penso che la maggioranza della popolazione viva oltre il proprio punto Z e quindi, di fatto, ha un costo della ricchezza troppo alto.
Ma c’è di più. Gran parte di coloro che sono oltre il loro punto Z, hanno punti Z tutto sommato modesti e, incapaci di accettarlo, che fanno? Si danno a speculazioni sbagliate, rischiose, ad affari dubbi.
Come fare per invertire questa tendenza? Che dire di un soggetto che si colloca oltre Z?
(2) Che è uno stupido, qualunque sia la sua ricchezza
perché sta sprecando una parte della sua vita, non la vive al meglio.
La (2) è una frase troppo forte? Beh, si pensi a come vengono visti i “secchioni” a scuola. Prendono il massimo dei voti, ma cosa si perdono della vita? L’ideale è prendere il massimo godendosi la vita, ma non è per tutti!
Chi è oltre il punto Z non è un manager rampante, un imprenditore di successo, un professionista affermato, è invece un secchione sociale.
La ricchezza esistenziale
Come è possibile descrivere la curva RQ in forma analitica, in modo da far capire ancora più chiaramente che
in senso moderno, qualità della vita e ricchezza sono manifestazioni di un valore più grande?
Semplicemente richiamando per analogia la relazione che esiste fra energia e massa. La teoria economica del Personalismo è riassunta da una semplice formula:
(3) R=dQ2,
dove R è la ricchezza esistenziale (l’unica sempre in fase con la qualità della vita), d il patrimonio, il denaro, la ricchezza tradizionale, e Q l’indice di qualità della vita (compreso fra 0 e 1). Ovviamente la formula andrebbe dimensionata secondo opportune unità di misura, ma questo ognuno può farlo da sé, l’importante è capire il significato della relazione.
La (3) spiega per esempio:
- Perché non ha senso fare un mutuo per una casa più grande, dovendosi ammazzare di lavoro per pagarlo (apparenza)
- Perché non ha senso investire in questo o quello per “farlo fruttare”, rinunciando a vivere (avarizia)
- Perché non ha senso immolarsi al lavoro per fare carriera e guadagnare di più senza avere il tempo di fare ciò che si ama.
Spiega che la ricchezza tradizionale (d) è una condizione facilitante, ma non certo sufficiente alla ricchezza esistenziale. I tre scenari sopraccitati non sono che l’esempio di come classicamente la gente non fa che limitarsi a considerare la grandezza d.
La (3) spiega tutto: perché non ha senso fare un mutuo per una casa più grande, dovendosi ammazzare di lavoro per pagarlo (apparenza), o perché non ha senso investire in questo o quello per “farlo fruttare”, rinunciando a vivere (avarizia), o perché non ha senso immolarsi al lavoro per fare carriera e guadagnare di più senza avere il tempo di fare ciò che si ama. Spiega che la ricchezza tradizionale (d) è una condizione facilitante, ma non certo sufficiente alla ricchezza esistenziale.
I tre esempi di inizio articolo non sono che l’esempio di come classicamente la gente non fa che limitarsi a considerare la grandezza d.
Il primo punto è tipico di coloro che vivono la ricchezza solo come mezzo di espressione della propria vanità, l’indice del successo nei confronti degli altri; l’accumulo del denaro dà loro preoccupazioni, stanchezza, stress e un sacco di altri indicatori negativi, ma non possono farne a meno perché hanno ingaggiato una lotta con il mondo: il loro valore dipende dal loro conto in banca (chi ragiona così è ovvio che non vale nulla). Non riescono a spendere i soldi che guadagnano, ma accumulano soldi e potere per sentirsi “migliori”. Spesso si tratta di soggetti romantici in cui il lavoro e il denaro hanno assunto l’idea del valore assoluto. Chi ha una bassa dose di romanticismo in genere è un soggetto violento che vede la sfida economica con gli altri come mezzo di superiorità e di dominio; addirittura però può essere anche un debole con bassa autostima che cerca nella ricchezza un modo di aumentarla o di consolidarla o un insoddisfatto, mai contento dei risultati raggiunti.
Il secondo punto è tipico di individui del tutto simili ai primi (anche se spesso c’è odio per il ricco), solo che manca l’attuazione del proprio desiderio, per incapacità o per oggettive difficoltà iniziali. In ogni caso, non hanno compreso che per essere felici nei Paesi occidentali è sufficiente un certo livello di agiatezza, facilmente raggiungibile da una fascia non certo marginale della popolazione che non abbia commesso grossi errori esistenziali e/o finanziari.
Il terzo punto spiega perché l’ultima frase del periodo precedente possa sembrare ottimistica. In realtà, molte persone non sono soddisfatte economicamente perché vogliono sempre di più, vittime del consumismo e di valori di scarso spessore etico. Si tratta di soggetti di ogni ceto sociale, da chi è nella soglia di povertà a chi sta decisamente bene, al ricco. Costoro fanno spesso parte dell’insieme degli apparenti e hanno dimenticato (o non hanno mai saputo) che
il vero saggio è colui che desidera solo ciò che può avere.
La spirale involutiva dal terzo punto al primo è chiara: chi ricerca la ricchezza perché è convinto che solo con essa sarà felice, avendo le cose che ora desidera, quando sarà ricco (ammesso che ci riesca) desidererà cose ancora più costose e sarà un insoddisfatto cronico.
La ricchezza del Paese
Quello che abbiamo detto per il singolo vale anche per una nazione e spiazzerà tutti quelli che vedono in una continua crescita economica il semplicistico e banale modo di fare economia.
Se consideriamo i primi 20-30 Paesi nel mondo relativamente alla ricchezza, ci accorgiamo che in essi si comincia a parlare di BIL (Benessere Interno Lordo), del benessere del cittadino, non semplicemente della sua ricchezza. Questo perché una larga fetta della popolazione non baratterebbe mai un ulteriore aumento di ricchezza se pagata con molti anni di lavoro in più (o con politiche del lavoro stressanti), servizi troppo cari ecc. In sostanza comprendono che aumentare la ricchezza va bene, ma solo se non diminuisce il benessere raggiunto. Poiché ovviamente tale discorso non avrebbe senso in un Paese dove si muore ancora di fame, la possibilità di sostituire alla semplice crescita economica, il concetto di benessere del cittadino è una dimostrazione che il Paese è veramente evoluto!
Commenti sulla ricchezza
Ricchezza esistenziale
Una coppia vive in una casa del valore di 150.000 euro. I soggetti in questione ricevono un’eredità di 50.000 euro; poiché non credono nel mercato mobiliare, vogliono investirla nel mattone, ma non sanno come fare. Le uniche soluzioni sensate sono:
a) aspettare di avere una quota superiore per comprare un piccolo immobile;
b) comprare uno o due garage e affittarli.
In effetti, vendere la propria casa e comprarne una più grande (200.000 euro) comporta molte spese (trasloco, tasse sulla differenza del prezzo d’acquisto fra garage e la casa). Quindi questa ipotesi è scartata dai più; eppure sarebbe necessario considerare anche questa opportunità. Per spiegarlo, utilizziamo la semplice formula che riassume la teoria economica del Personalismo:
(1) R=dQ2,
dove R è la ricchezza esistenziale, d il patrimonio, il denaro, la ricchezza tradizionale, e Q l’indice di qualità della vita. In senso classico di accumulo di d, io dovrei acquistare un garage, ma in senso moderno potrei valutare anche l’ipotesi di cambiare casa: a fronte di una diminuzione di ricchezza di, per esempio, 8.000 euro (trasloco e tasse), avrei un incremento della qualità della vita: avrei lo spazio per un canestro in giardino per fare due tiri a basket, un garage più grande dove mettere un tavolo da ping pong oppure un giardino per tenere il cane o fare giardinaggio, una camera per gli amici da ospitare ecc., a seconda di ciò che amo fare. La qualità della mia vita migliorerebbe e ognuno potrebbe applicare la (1) per capire se convenga o meno. Si noti come la (1) non dice affatto di contrarre un mutuo asfissiante per avere una casa migliore: la casa è sì migliore, ma la fatica immane che devo fare per pagare il mutuo abbassa troppo Q.
Lo stipendio non fa la felicità (prima parte)
Il punto di partenza è che
(1) la ricchezza è solo vagamente correlata a quanto un soggetto guadagna.
Questa è la sorprendente verità che politici e media non hanno il coraggio di dire perché offenderebbe gran parte di quella popolazione le cui scelte economiche (spesso conseguenza di quelle esistenziali) sono a dir poco disastrose.
La proposizione è sicuramente vera per redditi fino a 100.000 euro l’anno. Infatti la ricchezza (come la felicità in campo esistenziale) dipende dalle scelte che noi facciamo. Sbagliamo scelte, siamo spacciati.
Si incomincia con scegliere un’istruzione. Come è possibile che artigiani con modesta istruzione guadagnino molto di più di laureati? Due motivi, fra i tanti:
- si sceglie ciò che si studia in base ai soli propri desideri, pretendendo che il mondo si adatti a noi; se si diventa esperti di filosofia coreana o di farfalle della Nuova Guinea è ottimistico sperare che la società valuti molto la nostra esperienza.
- Si sceglie una qualunque strada senza nessun amore per quello che si fa. Il miglior modo per diventare dei mediocri nel proprio lavoro.
Poi si pensa a formare una famiglia. E qui sorgono due tipi di problemi:
- personalità apparenti
- i figli.
Se la persona è un apparente è già messa male perché spenderà molto di più di quanto sarebbe logico, ma supponiamo che non lo sia e si scelga un partner (per semplicità lo chiameremo coniuge) che invece lo è: un mutuo che ti strangola per avere una grande e bella casa, un’auto più che dignitosa, tutte le diavolerie tecnologiche, dal supercellulare alla televisione di ultima generazione, un bel gioiello ecc. Spesso tutto preso a rate. È la fine.
Circa i figli, qual è quel politico che affermi candidamente che “oggi avere dei figli è economicamente un disastro”? A prescindere da valutazioni etiche ed esistenziali, l’affermazione è sicuramente vera. E c’è per esempio una bella differenza fra avere un figlio o averne tre.
Poi arriva il lavoro. Qui il problema più grande è che ancora oggi c’è gente che vuole il lavoro sicuro in attesa della pensione (la classica personalità insufficiente che si fa prendere in carico dallo Stato o dalla grossa azienda). Ovvio che lo stipendio non possa essere una favola perché manca una qualsiasi azione che porti alla propria valorizzazione, a mettersi in gioco, a rischiare con le proprie capacità.
Poi ci sono le relazioni sociali. A prescindere dal problema del “voler apparire”, è evidente che chi esce a cena ogni sabato con tutta la famiglia o esce ogni sera con gli amici a “bersi qualcosa”, difficilmente avanzerà la stessa cifra di chi ha imparato a divertirsi in modi meno legati al semplice “spendere denaro”.
Scelte sbagliate portano a vite (economicamente) insoddisfacenti.
Nel mio caso potevo scegliere fra matematica o ingegneria elettronica (informatica); c’era il boom dell’informatica, quindi scelta “banale”.
Dopo i primi successi professionali, mi sono subito accorto che uno sfoggio di lusso attirava le ragazze come mosche. Mi divertivo a scaricare (senza mai approfittarne) tutte quelle che apprezzavano come apparivo anziché com’ero e ho sposato una delle poche che non erano “apparenti”.
Io e mia moglie abbiamo deciso di non avere figli. Secondo me è stata una scelta vincente (nella media) perché sono poche le famiglie nelle quali i figli nel medio-lungo periodo hanno portato un bilancio decisamente positivo. E sperare che siano un bastone della nostra vecchiaia, oltre che medievale, è utopistico perché ho sempre visto che vecchi malandati si lamentavano comunque della vecchiaia, nonostante il grande amore dei loro figli.
Questa scelta mi ha permesso a 39 anni di vendere l’azienda e ora di avere un lavoro-hobby che non mi stressa perché potrei mollare quando voglio. In questi giorni a caccia mi sembra di avere ancora 16 anni quando la scuola non era incominciata e stavo nei campi tutto il giorno. Posso farlo grazie alle mie scelte, non certo grazie al politico di turno che promette mare e monti.
Non ho sbagliato istruzione, non ho sbagliato lavoro, non ho sbagliato moglie, non ho sbagliato famiglia, non ho sbagliato valori…
Lo stipendio non fa la felicità (seconda parte)
Per chi non fosse ancora convinto che la (1) sia vera, facciamo un piccolo confronto.
Mario – Single, operaio specializzato, molto bravo, reddito lordo annuo 20.000 euro, compresi gli extra che i suoi principali gli passano. Vive in un bilocale di 60 mq che gli hanno lasciato i genitori. Ha diversi hobby, ma non è un apparente. Al netto delle tasse gli restano circa 15.000 euro netti, cioè 1.250 euro mensili. Vive senza alcun problema economico.
Carlo – Sposato con Anna, tre figli, direttore marketing in una grande città, 70.000 euro lordi all’anno; gliene restano circa 45.000 netti. Anna non lavora perché bada ai figli (del resto anche se lavorasse, con quello che sa fare, quello che prenderebbe sarebbe a malapena sufficiente a pagare la donna delle pulizie e l’asilo nido per due dei tre figli), ma “ovviamente” deve avere un tenore di vita adeguato e spende circa 800 euro al mese in sciocchezze del tutto inutili. Ogni figlio costa circa 500 euro. Il mutuo della grande villetta (un direttore marketing non può vivere in uno squallido appartamento) succhia 800 euro al mese. Fra moglie, figli e mutuo se ne vanno 3.300 euro al mese, cioè 37.200 euro. Al povero Carlo resterebbero per sé solo 7.800 euro l’anno, poco più della metà di quanto ha Mario per vivere, eppure Carlo guadagna 3,5 volte tanto!
Scartata la soluzione di mandare i figli in Bielorussia (dopo tutto vuol loro bene…) e quella di pagare un killer per eliminare la moglie dopo l’ennesimo acquisto di un gioiello (forse c’è la speranza che scappi con l’amico primario che ha un reddito doppio del suo!) non gli resta che andare avanti a tranquillanti, rimpiangendo tutte le sue scelte sbagliate.
Non fate le pulci alle cifre e cercate di capire il concetto generale:
lamentatevi pure di un basso reddito, ma prima verificate di non aver fatto scelte disastrose.
Ostentare ricchezza
Leggendo l’articolo sul ridimensionamento nel lavoro, Ilaria si chiede come sia possibile che io non abbia mai comprato vestiti firmati e conclude “vai in giro con un saio alla San Francesco?“.
No, di capi firmati ne ho comprati, come altre cose giudicate di lusso. Nell’articolo in questione l’accento era posto sull’inutilità dell’acquisto, sul comprare il capo così, solo per apparire. Supponiamo che tu abbia bisogno di una borsa e ti trovi davanti a una vetrina di un grande stilista. C’è una borsa che ti piace. Come ragioni? Il modo corretto è di valutarne la reale utilità (la durata, la praticità ecc.); una borsa ben fatta può durare anche 10 anni; se costa 400 euro può essere più competitiva di una borsa che costa 40 euro e non dura nemmeno un anno. Vediamo alcuni modi errati di affrontare il problema.
Mi piacerebbe proprio andare in giro con una borsa di XY (per non fare pubblicità…). Pensiero da apparente, magari completato dalla frase “ma non posso permettermela”.
Uh, che bella. La compro! Pensiero molto superficiale. Spesso è indicativo della sindrome del compratore folle (vedi La felicità è possibile), cioè di un sopravvivente che compra per riempire la sua giornata; oppure una frase del genere può essere tipica di un semplicistico (tutto ciò che è bello, se posso permettermelo, migliora la mia vita: in realtà la migliora solo se poi lo uso!) o di un irrazionale (non si considera il proprio status economico).
Uh, ma quanto costa! Pensiero da irrazionale. Il pensiero può essere accompagnato da sentimenti di disappunto, di rabbia, di invidia oppure da semplice indifferenza per un mondo che si giudica non essere il nostro (“al massimo una borsa dovrebbe costare x”). L’irrazionalità del processo di valutazione consiste nel fatto che ci si ferma al costo assoluto, anziché (come sarebbe opportuno) al costo unitario di impiego. Spesso i capi firmati durano molto, essendo di alta qualità: una borsa di marca che uso quotidianamente può durare dieci anni, 500 euro diviso dieci fa 50 euro all’anno, lo stesso costo di una borsa comprata al mercato che dura un solo anno. Quindi, se si hanno i soldi per l’investimento iniziale, le due scelte sono equivalenti. Per un vestito la situazione può essere diversa. Acquistare un capo per andare a un matrimonio spendendo 3.000 euro è pura apparenza, visto che magari con 200 euro si risolve il problema (a meno che la vostra professione non sia andare ai matrimoni e ne collezionate uno a settimana): il capo da 3.000 euro verrà messo al più una decina di volte prima che diventi obsoleto con un costo unitario di 300 euro. Un cattivo affare.
Come è un cattivo affare comprare, tanto per comprare, oggetti che poi rimarranno nel nostro guardaroba, utilizzati una o due volte, con costi unitari pazzeschi.
Una variante dell’irrazionalità del riferirsi al costo assoluto dobbiamo subirla periodicamente da chi vorrebbe venire ad acquistare un libro presso di noi “per evitare le spese postali”, persone (e purtroppo ce ne sono molte) disposte a farsi un’ora di macchina per risparmiare 5,70 euro. E il costo della benzina, dell’usura dell’auto, del loro tempo? Non vengono considerati, a loro interessa pagare il libro il meno possibile!
Indice materie – Economia – Ricchezza