Precariato è un termine sulla cui definizione non è semplice trovare tutti concordi. Nel parlare comune con precariato ci si riferisce alla condizione di soggetti in età da lavoro che si trovano in una condizione lavorativa caratterizzata da incertezza, instabilità o provvisorietà.
Secondo alcuni è possibile parlare di precariato anche facendo riferimento ai lavoratori cosiddetti al nero. Senza ombra di dubbio, una condizione di precarietà lavorativa è da considerarsi un elemento peggiorativo della qualità della vita, tant’è che spesso la situazione dei precari viene definita come area del disagio.
I dati ufficiali più recenti (ISTAT, dicembre 2016) mostrano che nel nostro Paese il numero dei precari è in costante aumento. Sul totale di 22,7 milioni di occupati italiani, poco più di 5 milioni sono lavoratori autonomi (partite IVA, professionisti, consulenti) mentre 17 milioni sono lavoratori dipendenti. Tra questi, 14,8 milioni sono lavoratori a tempo indeterminato, mentre 2,4 milioni sono a tempo determinato (i cosiddetti “precari”). Da febbraio 2014 gli occupati a tempo indeterminato sono cresciuti del 3,3%, mentre quelli a tempo determinato sono cresciuti dell’8,5%.
Alcune ricerche hanno cercato di definire le varie caratteristiche che identificano il lavoratore precario; sotto questa definizione rientrerebbero i dipendenti a termine involontari, i dipendenti part-time involontari, i collaboratori che presentano contemporaneamente tre vincoli di subordinazione (monocommittenza, utilizzo dei mezzi aziendali e imposizione dell’orario di lavoro) e i liberi professionisti e i lavoratori in proprio che presentano contemporaneamente i tre vincoli di subordinazione citati precedentemente.
Una buona parte dei lavoratori precari (quasi il 40%) è costituita da soggetti che non hanno proseguito gli studi dopo aver terminato la scuola dell’obbligo. L’area geografica che conta il maggior numero di precari (35% circa) è il Sud; le regioni maggiormente interessate dal problema sono la Calabria, la Sardegna, la Sicilia e la Puglia.
I settori che registrano una forte componente di precariato sono il Pubblico impiego, il commercio, i servizi alle imprese, gli alberghi e i ristoranti.
Precariato in Italia: una questione complessa
Il discorso sul precariato è molto più complesso di quello sulla disoccupazione perché se per molti lavori da un lato è necessario un periodo di apprendistato, dall’altro questo periodo non può essere eterno, se da un lato alcuni lavori sono necessariamente periodici o a tempo determinato, dall’altro il lavoratore deve essere tutelato al di là del periodo, per il semplice fatto che gli effetti del suo lavoro si propagano oltre l’effettivo periodo di lavoro (per esempio consentendo la sopravvivenza economica di un’azienda fino al periodo successivo).
Nota – Parlando di precariato sarebbe opportuno limitare la discussione a quei soli casi in cui alla precarietà del lavoro si affianchi anche una certa insoddisfazione economica. Difficile giudicare precario l’allenatore di calcio che prende un milione di euro l’anno, ma che può non arrivare alla fine della stagione!
In linea di massima, compito dei governi è quello di ridurre i tempi di precariato e di dare garanzie di stabilità a ogni forma di lavoro periodico o a tempo determinato. Il compito del singolo è di non accettare passivamente la situazione sperando o pretendendo che si risolva. Si possono definire due tipi di precari: quelli passivi e quelli attivi.
Nel passivo troviamo spesso i fattori del lavoro insoddisfacente:
- capacità ridotte; il precario pensa di essere capace solo per il semplice fatto di avere un titolo di studio o di conoscere un lavoro, senza rendersi conto che anche altri ce l’hanno, che quel titolo di studio o quel lavoro non sono più competitivi (si pensi a tutti quei lavori che la tecnologia ha cancellato negli ultimi decenni) ecc. Manca cioè di realismo.
- Scarsa determinazione; vuole il posto sicuro, non ama rischiare, mai si metterebbe in proprio. Personalità fragile.
- Pretese economiche; non accetta lavori più umili, meno qualificati; è un’evoluzione del disoccupato intellettuale o di quello apparente.
Nel precario attivo questi fattori sono superati dalla disponibilità e dalla capacità di riciclarsi (flessibilità). Mentre il precario passivo non sa riciclarsi, quello attivo è in grado di prendere in esame altri lavori che lo tolgano dal precariato. Ovvio che i suoi sforzi possono essere comunque vani, causa una situazione economica non favorevole. Possiamo pertanto dire che compito dei governi è quello di creare le condizioni per cui un precario attivo cessi di essere tale nel minor tempo possibile.
Stabilità o salario?
Supponiamo di essere nei panni del presidente del Consiglio. Dopo aver analizzato la situazione economica mi si prospetta un’alternativa:
- Eliminazione di ogni forma di precariato. Per realizzare questo è necessario fare investimenti tali che i salari resteranno praticamente immutati.
- Raddoppio dei salari degli italiani, diciamo per salari fino a 30.000 euro netti (cioè chi prende 1.500 euro al mese ne prenderebbe 3.000), poi l’aumento sarà progressivamente meno contenuto fino ad azzerarsi per importi superiori a X euro. Per realizzare questo non sarà però possibile rendere stabili i lavori dei precari.
Cosa scegliete: A o B? Evitate di salvare capra e cavoli con analisi approfondite della realtà italiana e soluzioni improvvisate da bar dello sport. È solo un gioco psicologico (non politico!) che prevede solo due scenari.
Io sceglierei senza dubbio B.
Chi ha scelto A può rivelare tratti di una personalità svogliata, debole, insufficiente, patosensibile o sopravvivente o può avere una visione della società alternativa a quella attuale; sposa il mito del posto fisso, una soluzione che oggi in realtà non esiste se non nella personalità di chi la vive.
Pretendere di avere un’assunzione a vita in un’azienda quando si sa benissimo che la stessa potrebbe entrare in difficoltà e fallire nel giro di qualche anno è più una speranza che un diritto. Nella pubblica amministrazione può essere più sensato, ma rivela comunque una scarsa propensione a vendere bene sé stessi e quindi la tendenza a sopravvivere. Se in un certo ambiente nessuno mi dà un posto fisso e la cosa mi dà fastidio, possibile che non mi venga in mente, se valgo, di poter trovare di meglio altrove?
Anni fa due miei amici persero quasi contemporaneamente il posto di lavoro. Il primo divenne traduttore di libri tecnici fino a farne un’attività redditizia e tranquilla (poteva lavorare a casa), il secondo entrò in depressione dopo aver cercato per mesi lo stesso posto di lavoro perso, non so se perché pretendesse quel tipo di lavoro, se fosse convinto di non riuscire a far altro, se ritenesse umiliante fare altro (molti ingegneri non cercherebbero mai un posto da commesso o da cameriere!) ecc. L’unica cosa che so è che non sapeva riciclarsi.
Sicuramente avrei scelto B perché, se la persona è accorta, B è molto più importante di A per costruirsi un futuro. In sostanza, è meglio essere precari da 3.000 euro al mese che fissi da 1.500 euro.
Il problema più grave dell’Italia non è tanto la mancanza di lavoro o il precariato (punti che toccano una percentuale comunque bassa della popolazione), ma il fatto che una grande percentuale di persone sono scontente del proprio stipendio. A ti tocca quando sei giovane, B per tutta la vita.
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