Quando si discute con i pendolari della loro condizione, in relazione alla qualità della vita spesso si risulta sgradevoli perché non si riesce a trattenersi dal dire loro che stanno sopravvivendo. Difficile accettare gli alibi con cui cercano di giustificare la loro condizione soprattutto se si è stati pendolari e si ricorda benissimo com’era allora la propria vita e come è ora.
Primo giorno di lavoro, tanti anni fa; mi mandano a fare un corso alla Data General (defunta nel 1999, allora leader insieme alla Digital nel campo dei microcomputer). Il corso era a Cinisello Balsamo e l’autobus che presi aveva scritto in testa una bizzarra località, Campo dei fiori. Mi guardo intorno, ma non vedo nulla che possa assomigliare a un fiore; tante case, tanto smog, una bella tangenziale; insomma una schifezza.
Arrivo alla sede del corso dopo due ore di viaggio da Pavia, con mezzi vari. Idem per il ritorno.
Le cose non vanno meglio quando dopo una settimana rientro in sede, a Redecesio di Segrate: sia in treno (più autobus) sia in auto ci metto sempre un’ora, butto via due ore al giorno della mia vita. In pochi giorni realizzo che la vita del pendolare è una mezza vita e mi attivo per cambiarla; con il senno di poi, quella fu la mia fortuna. (R. Albanesi)
Gli alibi dei pendolari
L’analisi della giornata dei pendolari (diciamo tutti quelli che sprecano più di un’ora e mezza per andare/tornare dal proprio luogo di lavoro) ha lo scopo di capire se proprio non possono farne a meno: nel 90% dei casi si è davanti ai sopravviventi.
Quello che sorprende non è tanto la loro condizione, quanto il fatto che non ci provano nemmeno a cambiare e l’inerzia è suffragata da alibi irrazionali.
“Sì, ma come faccio a spostarmi e andare a vivere più vicino alla sede di lavoro, qui ho tutti miei amici (lasciamo perdere chi usa la frase “qui ho i miei genitori“)”. Visto che alla sera il soggetto è così stanco che non riesce mai a vederli, non sarebbe più logico tornare nei week-end? Si sposterebbe 2 giorni anziché 5.
“Sì, ma qui la vita è più a misura d’uomo“. Ma allora perché non si ridimensioni e trova un lavoro in un ambiente più a misura d’uomo?
La discussione potrebbe andar avanti per ore, è importante chiarire il concetto che il pendolare è un rassegnato della vita. Se non ci credete, provate a fotografarlo in coda al mattino sulla tangenziale oppure nella nebbia lombarda sulla banchina in attesa del suo treno: sta vivendo o è in letargo?

Da un punto di vista pratico può essere definito “pendolare” chiunque impieghi per il tragitto andata/ritorno dal lavoro più di un’ora e mezza al giorno.
I dati del pendolarismo
I dati relativi al pendolarismo non sono aggiornatissimi. Da un rapporto del Censis (2008) si sa che i pendolari erano 13 milioni, cioè il 22,2% della popolazione residente. Questi dati risentono però della definizione stessa di pendolare; per esempio, considerano tale chi si sposta fuori comune per motivi di studio o di lavoro. Da un lato la definizione è troppo ampia (si dovrebbero considerare solo i lavoratori per i quali il calcolo della reale paga oraria dovrebbe tener conto anche dei tempi di spostamento sul e dal lavoro) e dall’altro troppo restrittiva perché ci può essere chi esce dal comune e resta in auto 10′ e chi viaggia all’interno del comune (per esempio Milano), ma impiega 45′ per giungere al lavoro.
Un dato recente (ma che mescola sempre studenti e lavoratori; gli studenti, a seconda delle varie fonti, variano dal 20 al 25%) indica in 5,5 milioni il numero dei pendolari che viaggiano in treno, per i quali è lecito supporre che il tragitto verso il lavoro superi quasi sempre la mezz’ora.
I dati più significativi sembrano quelli dell’ISTAT (2018) che comunque risentono dei dubbi sopraesposti sulla definizione di pendolare usata; infatti si parla più di spostamenti che di pendolarismo e gli spostamenti purtroppo sono divisi solo in tre fasce (tralasciando l’analisi per fuori comune/stesso comune): fino a 15′, da 15′ a 30′, più di 30′. I dati sugli spostamenti lavorativi confermano comunque i vecchi dati del Censis, dimostrando che in 10 anni non è cambiato poi molto. I dati ISTAT sono comunque interessanti perché mostrano che il fenomeno è più evidente al Nord e al Centro.
Da un punto di vista pratico può essere definito
pendolare chiunque impieghi per il tragitto andata/ritorno dal lavoro più di un’ora e mezza al giorno.
Consideriamo Carlo che lavora 40 ore alla settimana (diciamo 21 giorni al mese) e prende uno stipendio netto di 1.680 euro al mese. In teoria (senza calcolare tredicesima ecc.), prende 10 euro l’ora nette, ma se spende un’ora per arrivare al lavoro, la sua paga oraria si riduce a 8 euro l’ora, una decurtazione del 20% a causa del pendolarismo.
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