Generalmente per lavoro s’intende “l’impiego delle proprie attività fisiche e intellettuali in un’attività produttiva”, “un’occupazione” o “una serie di attività svolte da un gruppo di persone che operano insieme per un unico fine”. Più praticamente si parla di lavoro come di quell’attività che ci dà da vivere. Non per nulla di chi vive di rendita si dice che “può permettersi di non lavorare”. In tutte queste definizioni non entra il concetto fondamentale di qualità della vita. Un lavoro può essere piacevole o può stroncarci l’esistenza: come si possono mettere sullo stesso piano e chiamare nello stesso modo due attività che possono produrre effetti così diversi sull’individuo?
Due sono i tipi di attività economica che possiamo svolgere.
- Il primo tipo di attività è ciò che viene svolto in cambio di una contropartita economica, ma che non lo sarebbe se venisse a mancare tale contropartita; si tratta del vero lavoro.
- Il secondo tipo è ciò che viene svolto per il piacere di farlo o per l’amore verso l’oggetto di tale attività. È un hobby o un oggetto d’amore. Un hobby o un oggetto d’amore possono anche procurarci un utile economico. Se l’utile economico è la principale risorsa economica della nostra vita, usualmente si continuerà a chiamare l’attività lavoro, ma ciò è scorretto: si dovrebbe definire semplicemente attività economica.
Lavoro e Personalismo
Per il Personalismo è importante capire che la scelta del lavoro è fondamentale per essere Top, cioè vivere al meglio di quelle che sono le nostre condizioni di partenza.
Riassumendo quanto poi affrontato nell’articolo, per il Personalismo:
- occorre distinguere fra lavoro e attività economica
- il lavoro è una condanna sociale
- è assurdo pretendere (un errore comune) che il lavoro sia un’attività economica (cioè sia un oggetto d’amore con indice di qualità 100)
- pur essendo una condanna sociale, la strategia migliore è lavorare al meglio
- ci si deve porre nelle condizioni di avere il lavoro migliore
- un buon indicatore dell’interazione fra lavoro e vita privata è la verifica che non si sia adottata la strategia del carcerato, comunissima nella popolazione.
Il lavoro come condanna sociale
La domanda fondamentale è: se riceveste un’eredità di 100 milioni di euro continuereste a lavorare?
Probabilmente chi è nel caso 2 risponderebbe di sì, mentre chi è nel caso 1 risponderebbe di sì solo se la motivazione è “perché altrimenti non saprei come passare le mie giornate”. Ovvio che questa risposta emette una sentenza di condanna inappellabile dal punto di vista esistenziale, la persona sta semplicemente sopravvivendo. La stragrande maggioranza di persone risponderebbe no perché o vorrebbe passare fra le fila del caso 2 o vorrebbe godersi la vita. Non è quindi difficile capire che
il lavoro è una condanna sociale.
Visto che l’articolo 1 della Costituzione (L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro) lo mette alla base del nostro Paese, parlare di “condanna sociale” potrebbe sembrare addirittura immorale. Premesso che in molti Paesi le costituzioni sono una specie di religione (si pensi agli USA dove c’è ancora chi crede ciecamente che una costituzione scritta qualche secolo fa debba essere intoccabile), dovrebbe essere però chiaro a tutti che l’articolo 1 fu scritto sotto l’emozione del periodo storico in cui si doveva ricostruire tutto e che lasciarlo in vita significa equiparare i bisogni attuali dell’Italia a quello di Paesi emergenti come India o Cina (ricordo che la Costituzione italiana è programmatica). Oggi non ha più senso. Un Paese moderno sostituirebbe l’articolo 1 con qualcosa del genere: l’Italia è una repubblica democratica, fondata sui valori che promuovono la qualità della vita (benessere).
L’attacco di questo paragrafo si può esprimere semplicemente dicendo che (negazione dello stacanovista)
non è detto che si debba lavorare.
Gli uomini lavorano sempre meno e oggi esistono molti soggetti che possono permettersi di lavorare meno della metà della loro giornata attiva (a prescindere dal guadagno economico); ciò dovrebbe far riflettere sul fatto che il lavoro è necessario fintantoché serve al progresso dell’individuo e della società, probabilmente fra qualche secolo si potrà lavorare al massimo una o due ore al giorno e vivere comunque benissimo.
La definizione al punto 1 è sicuramente poco etica per tutti coloro che ritengono che il lavoro nobiliti. “Il lavoro è una merce” diceva Marx; “lavorare stanca” sosteneva Pavese, mentre Oscar Wilde aggiungeva che “noi viviamo nell’epoca in cui la gente è così laboriosa da diventare stupida”. Si è in buona compagnia, almeno intellettuale, se si sostiene che il lavoro non è affatto necessario per essere felici: chi sa amare utilizza la propria capacità d’amare indirizzandola verso altri oggetti d’amore. Nelle società moderne, dove la piaga della disoccupazione è tuttora presente, non lavorare potrebbe essere una nobile decisione per lasciar posto a chi vorrebbe avere una qualunque attività lavorativa e non ce l’ha. D’altra parte quanti, se potessero, farebbero a meno di lavorare?
La vecchia frase che “il lavoro nobilita” nel terzo millennio non ha più senso. Se una volta chi non lavorava era preda dell’ozio e dei vizi, oggi si può usare il proprio tempo libero in modo eticamente corretto per sviluppare i propri hobby. Ciò non significa che non si debba lavorare (sono pochi quelli che possono permettersi di non farlo…), ma che lavoro e hobby hanno pari dignità. Per vivere i propri hobby non si deve aspettare la pensione. Chi lo fa, spesso li ha “dimenticati” e si ritrova con una vecchiaia vuota e inconcludente.
Altre concezioni del lavoro frutto di un notevole condizionamento sociale:
- il lavoro è sacro: la mancanza di lavoro danneggia anche lo spirito;
- a una persona seria e onesta il complimento più bello che si può fare è dire che è un lavoratore, uno che non vive alle spalle degli altri;
- chi non lavora, neppure mangi.
Quale lavoro fare?
La locuzione condanna sociale non deve essere fraintesa. Non deve essere né l’alibi per lavorare male, né per non lavorare pretendendo di poterlo fare in assenza di enormi condizioni facilitanti.

Chi non ha un indice di qualità 100 deve evitare di cadere vittima della strategia del carcerato
La locuzione condanna sociale indica che è il prezzo che si deve pagare per far funzionare sia la propria vita sia la società in cui viviamo. Per questo il percorso alla felicità, una volta raggiunto l’equilibrio individuale (che è la prima irrinunciabile condizione), passa prima dalla stabilizzazione della situazione lavorativa. Stabilizzazione vuol dire trovare un lavoro che, a seconda della strategia lavorativa che si è scelta, dia il sostegno economico sufficiente a gestire i propri oggetti d’amore.
Meglio facciamo il nostro lavoro e meno ci peserà
perché comunque, come vedremo più avanti, ciò innalzerà il suo indice di qualità.
Vediamo ora alcuni modi scorretti di interpretare il concetto oggetto del titolo.
Il lavoro subito
Molti arrivano da soli alla considerazione che il lavoro è una condanna sociale (cioè superano il primo condizionamento di base del lavoro nobilitante), ma poi non sanno opporsi al condizionamento negativo di chi vede il lavoro come la lebbra (un po’ come chi rifugge dal matrimonio perché ritiene che “tutti” i matrimoni finiscano nella noia). Sul lavoro sono svogliati, sono dei pesi morti, dei fannulloni, la loro efficienza lavorativa è molto bassa.
Per capire quanto questo comportamento sia inutile, basta pensare all’analogia con un carcerato: quanto più si comporta bene, tanto più alte sono le probabilità di uno sconto di pena.
Analogamente
lavorare male è il modo peggiore di scontare la propria condanna sociale.
Quindi, il lavoro è una condanna sociale, ma va eseguito al meglio.
Se non siete soddisfatti del vostro lavoro, cercate di cambiarlo, ma non trasformate la vostra insoddisfazione in inefficienza, non serve a nulla, anzi, spesso è solo un boomerang.
Il lavoro sanguisuga
Molti superimpegnati saranno portati a obiettare che la nostra definizione è scorretta, che per loro il lavoro è molto importante ed è un tassello fondamentale della loro vita. Di solito l’indice di qualità (si veda più avanti il sottocapitolo Il lavoro ideale) della loro attività economica è buono (diciamo superiore alla media), ma non giustifica (come potrebbe farlo se fosse 100, nel caso 2) lo straordinario impegno profuso, impegno che spesso va a scapito di altri aspetti della loro vita, famiglia compresa. In genere sono quelle persone per cui sono importanti tutti o almeno uno di questi fattori:
- la carriera
- il denaro
- il potere.
Non è difficile capire che, fra le personalità critiche del Personalismo, le più soggette al lavoro sanguisuga sono i romantici, gli apparenti, i violenti e, a volte, i mistici e i contemplativi.
Alcune massime del lavoro sanguisuga:
- successo nel lavoro vuol dire successo nella vita. Storie, le “soddisfazioni” non sono la felicità. Troppe persone che hanno già realizzato la strategia del traguardo (magari per caso, senza volerlo) continuano a lavorare per mantenere un altissimo tenore di vita, quando, con più modestia, potrebbero non lavorare, pur vivendo comunque alla grande! Che senso ha sprecare la propria vita lavorando come pazzi per mantenersi una bella casa, un’auto fiammante, due o tre settimane di vacanze da sogno ecc.? Essere apparenti alla lunga non paga.
- Fare bene il proprio lavoro è un dovere morale. Chi ha una visione etica del lavoro avrà sempre problemi interpersonali perché tenderà a considerare il lavoro come una competizione in cui ognuno deve dare il meglio e il sospetto che ciò non accada avvelenerà i rapporti (gli accentratori per esempio non si fidano mai del lavoro altrui; il padrone pretenderà sempre il massimo dal dipendente o dal sottoposto e tenderà a punire ogni mancanza).
- Solo chi lavora è libero o è realizzato. Panzane che ricordano le scritte all’ingresso dei campi di sterminio nazisti (il lavoro rende liberi). Pensiamo a uno degli aspetti negativi dell’emancipazione femminile: per sentirsi pari all’uomo, molte donne hanno reso la loro vita inutilmente stressata con lavori francamente discutibili. Non parlo solo delle donne in carriera, ma di tutte quelle donne che, per poter dire di lavorare, si sono scelte lavori insensati. Come giudicare una donna che ha un modesto lavoro part-time di 4 ore al giorno e spende (lei questi conti incredibilmente non li ha mai fatti!) tutto ciò che guadagna nella retta dell’asilo per i due figli che non può accudire, nei costi del trasporto per andare al lavoro ecc.? E in più è anche “stressata dal lavoro”. Non farebbe prima a stare a casa ad accudire e a crescere serenamente i figli che si spera abbia fatto per amore? Altro esempio è chi continua a lavorare “perché si deve” anche se ormai dalla sua attività non ricava più nulla (e vive dei guadagni dei tempi d’oro) oppure chi ha la fortuna di aver ereditato dai genitori un bello stabile nel quale ha impiantato una traballante attività e non si accorge che dal suo lavoro ricava meno che da un eventuale affitto del locale!
Qual è la ricetta per evitare il lavoro sanguisuga? Semplice, se fate un lavoro di tipo 1, potete accettare che il lavoro abbassi la qualità della vita solo per un periodo limitato (10, 15, 20 anni al massimo) nel quale costruire un patrimonio che vi permetta poi di non lavorare più (strategia del traguardo); per la maggioranza delle persone la strategia del traguardo non è perseguibile e quindi è necessario che condizionamenti come carriera, denaro, potere non siano devastanti:
se pensate di lavorare per gran parte della vostra vita, qualunque sia la molla che vi fa lavorare moltissimo (carriera, denaro, potere), non deve abbassare la qualità della vostra vita.
Il lavoro salvagente
Se non si ha altro nella vita, lavorare può essere un modo di riempirla; diventa normale pensare che ci si realizzi quanto più si lavora. Non si è capito che
non si deve lavorare per riempire la propria vita (il morto vivente).
Molti pensano che “senza lavoro la loro vita sarebbe vuota”. Ciò equivale ad affermare il proprio fallimento esistenziale, l’incapacità di aver trovato qualcosa da amare, qualcosa per cui vivere i propri momenti. Molto spesso questi individui passano la loro esistenza aspettando il venerdì durante la settimana lavorativa e aspettando il lunedì quando nel fine settimana non sanno che cosa fare. Dovrebbero però meditare che “di venerdì in venerdì arriverà anche l’ultimo venerdì“: essi vivono nella condizione dei morti viventi.
Le personalità più interessate dalla “patologia” del lavoro salvagente sono sicuramente i sopravviventi, gli svogliati e i deboli.
La massima del lavoro salvagente:
- avere un lavoro gratificante aiuta a vivere. Sicuramente, ma spesso le gratificazioni vengono usate dagli altri per sfruttarci: a fronte di una retribuzione economica modesta, si usa cioè il nostro entusiasmo per sfruttarci. Ho spesso incontrato dipendenti che svolgevano il loro lavoro creativo con entusiasmo anche se erano oberati dalla mole di faccende da sbrigare: spesso stanchi, con poco tempo per sé, non si accorgevano che se avessero svolto lo stesso lavoro in proprio avrebbero guadagnato almeno tre volte tanto!
Il lavoro come oggetto d’amore?
All’inizio dell’articolo abbiamo detto che è scorretto chiamare lavoro un’attività economica che è un nostro oggetto d’amore; questo perché non sarebbe più una condanna sociale. I soggetti che, secondo la definizione data all’inizio dell’articolo, hanno attività economiche di tipo 2 sono semplicemente molto fortunati e, di fatto, non lavorano, ma si procurano denaro da ciò che piace loro moltissimo e che farebbero a prescindere dalla remunerazione economica.
Dalle definizioni precedenti è chiaro che non è affatto scontato che un lavoro piaccia moltissimo, anzi, per la maggior parte delle persone non è così. Si tratta di un dato statistico inoppugnabile che molti hanno la tendenza a contrastare con la pretesa di un’attività lavorativa piacevole e gratificante sotto ogni aspetto.
Quindi:
(1) non si può pretendere che il proprio lavoro piaccia al 100%.
In genere chi non accetta la (1) non ha compreso due punti fondamentali:
- Non è detto che i propri oggetti d’amore (se se ne hanno) siano tali da garantirci una contropartita economica adeguata. Non è da tutti.
- Non si deve mentire a sé stessi, scambiando una generica soddisfazione con un lavoro al 100% gratificante: la prova del nove è proprio rappresentata dalla domanda fondamentale (test del condizionamento al lavoro): se non avessi nessuna contropartita economica, “lavorerei” lo stesso? Come vedremo, solo nel caso della strategia dell’artista questa domanda ha una risposta positiva.
Occorre quindi trovare la giusta strada per essere in equilibrio con il proprio lavoro. Senza tale equilibrio la nostra vita non può essere soddisfacente. Infatti un lavoro può essere stressante, può non essere interessante o appagante, può essere deludente dal punto di vista economico ecc. Tutto va inquadrato in una strategia generale che consenta di accettare i lati negativi del lavoro con l’aspettativa di un premio finale (che non può certo essere il classico concetto di pensione, troppo vicino al concetto di vecchiaia). Senza questa aspettativa è molto difficile sopportare gli aspetti negativi della propria occupazione e concludere che tutto nella nostra vita è a posto.
Il lavoro ideale
Poiché nella (1) è espressa una percentuale, è interessante studiare i fattori che influiscono su di essa. Principalmente, ne possiamo identificare cinque.
Indice di qualità – L’indice di qualità (q) ci dice quanto il nostro lavoro sia buono: è un indice fra 0 e 100 che ci dice quanto si ami realmente il nostro lavoro. Si veda l’articolo Buon lavoro per capire cosa sia in dettaglio l’indice di qualità e come si possa valutarlo.
Il denaro – Per molte persone la contropartita economica può giustificare un indice di qualità basso. In ogni caso, il denaro (d) che si riceve in cambio della propria attività lavorativa modula la percentuale di soddisfazione.
Sul fatto che il lavoro serve come attività di sussistenza economica non ci piove, ma oggi è abbastanza facile comprendere che superare un certo livello di ricchezza personale al prezzo di sforzi sovrumani non è certo positivo per la qualità della vita.
Molte persone incominciano a relazionare d agli altri fattori che descriveremo, comprendendo che la sola valutazione di d è incompatibile con la massima qualità della vita. Altre persone continuano invece a vedere d come unica variabile; da esso dipende la loro “realizzazione”, il loro “tenore di vita”. Sono psicologicamente così condizionate dal valore che nella società è attribuito ai soldi da svendere la qualità della loro vita per un buon conto in banca.
Il tempo – Nel caso in cui non si abbia un q=100, è normale considerare il tempo (t) che si dedica all’attività lavorativa perché esso viene sottratto al resto della nostra vita. Tale tempo deve essere considerato in modo realistico: non si possono dimenticare i tempi di trasporto al lavoro (come nel caso dei pendolari) oppure il tempo dedicato al lavoro al di fuori del proprio ufficio (per esempio a casa oppure durante un’attività rilassante come la corsa: se penso al lavoro mentre corro, sto lavorando!).
Tizio per esempio ha deciso di accettare un lavoro più vicino a casa perché ciò gli consente di risparmiare due ore al giorno: è vero che prende 150 euro in meno al mese, ma “vive di più”.
Il controllo – La precarietà del lavoro è un fattore che entra pesantemente nella valutazione; sarebbe però incompleto considerare solo la stabilità come l’unico parametro che ci dia il controllo (c) del lavoro. Anche chi ha un lavoro stabile può averlo talmente fluttuante da avvertire un senso di disagio da mancato controllo: continui cambi nelle mansioni, nei colleghi di lavoro, nelle sedi.
Pensiamo a chi ha un lavoro a turni: data una qualunque domenica non potrà sapere se sarà o meno libero; pensiamo a un bancario che periodicamente viene spostato fra le filiali della zona. Gli esempi si sprecano, ma è certo che più si controlla la propria attività lavorativa e più aumenta la soddisfazione esistenziale.
Lo stress – Il termine stress (s) qui va inteso come distress, cioè come stress negativo (in contrapposizione all’eustress, lo stress comunque benefico per il soggetto): fatica, ansia, depressione, tutti gli influssi negativi sul binomio corpo-mente.
Rientrano pertanto nel fattore stress anche i lavori fisicamente usuranti, non solo quelli dove competizione, ansia da risultato, ritmi di lavoro logorano la mente del lavoratore.
Conclusioni – Il lavoro reale è una combinazione di questi cinque fattori: l=l(q, d, t, c, s). Oggettivamente i fattori sono indipendenti, nel senso che fissato uno di loro non si può dire nulla sugli altri: per esempio se d=5.000 euro al mese, Tizio può raggiungere tale somma con stress minimo mentre Caio con stress massimo (e Sempronio nemmeno ci riesce). Soggettivamente, i fattori sono in competizione: per esempio se voglio alzare d, probabilmente t aumenterà, come pure s; se voglio alzare q, è probabile che d diminuisca (per esempio abbandono clienti o mercati che creano molte “grane”) ecc.
La scelta della strategia del lavoro
Nell’articolo sulle strategie lavorative vedremo che è possibile scegliere fra diverse strategie:
- Strategia dell’artista
- Strategia del plutomane
- Strategia della libertà
- Strategia del posto fisso
- Strategia del barbone
Vedremo anche che molti soggetti che non hanno un’indice di qualità 100 (cioè la stragrande maggioranza della popolazione) provano a migliorare la loro qualità della vita con la strategia del carcerato, cioè evadendo dal lavoro periodicamente. Un numero decisamente minore ci prova con la strategia del traguardo.
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