La posizione del Personalismo sul lavoro come condanna sociale va spiegata in dettaglio onde evitare fraintendimenti.
Cominciamo con il ricordare che chi attua la strategia dell’artista in realtà non lavora perché la sua attività economica è un oggetto d’amore al 100%, vive di una sua grande passione. Purtroppo tale strategia può essere la sola fonte di reddito per una percentuale molto piccola della popolazione (ricordiamo che molti “artisti” sono costretti a doppi lavori o a interpretazioni non ottimali della loro “arte” per poter sopravvivere), quindi possiamo ritenere che sia trascurabile e che per la maggior parte della popolazione il lavoro abbia un indice di qualità sicuramente inferiore a 100. Anche chi dice che il suo lavoro gli piace, spesso non vede l’ora di staccare o di andare in ferie e non può negare che molte cose sarebbero migliorabili; non parliamo poi del fatto che gran parte della popolazione, se potesse, non farebbe il lavoro che fa (non lavorerebbe o ne farebbe un altro).
Il lavoro serve quindi come sostentamento economico, ma ha anche la finalità di, sostenendo il singolo, sostenere di fatto tutta la società. Poiché, come detto, se fosse possibile, moltissimi non farebbero il lavoro che fanno, il lavoro è una condanna sociale praticamente inevitabile; i condizionamenti subiti dalla società portano poi a nascondere questa realtà, magari attraverso la coniazione di sciocchi aforismi come “il lavoro nobilita l’uomo” o simili.
Il concetto di condanna sociale deve essere ben gestito: qualunque propensione alla scarsa produttività non può essere giustificata con il concetto appena espresso. Per analogia, pensiamo a una persona condannata a 20 anni di carcere. Se in carcere si comporta bene, potrà magari uscire dopo 10. Analogamente, con un lavoro svolto al meglio la condanna risulterà più mite, avendo in cambio molti benefit.
Detto questo, analizziamo due posizioni completamente opposte, una vecchia e stantia e l’altra molto moderna.

Se fosse possibile, moltissimi non farebbero il lavoro che svolgono.
La posizione delle istituzioni e della Chiesa
Quella seguente è la posizione espressa dal papa (e dalle istituzioni).
Il lavoro è sacro: la mancanza di lavoro danneggia anche lo spirito – Il solito gratuito insulto a chi non la pensa come lui. Un buon lavaggio del cervello per fare in modo che la gente continui a essere massacrata dai problemi lavorativi (sono sacri anche loro?) perché, si sa, il consenso alla Chiesa è maggiore dove si vive peggio perché funziona l’illusione di un aldilà tutto rosa e fiori.
Chi non vuole lavorare, neppure mangi – Un’evidente sciocchezza che non tiene conto che nella società esistono moltissime persone che non lavorano (bambini, ragazzi, pensionati ecc.); se loro hanno diritto a non farlo, non si capisce perché chi per esempio ha vinto al Superenalotto o vive di rendita sia eticamente riprovevole. Il papa non si è accorto che si è dato la zappa sui piedi da solo, visto che molte donne non lavorano perché scelgono di accudire ai figli. I cattolici potrebbero rispondere “ah, già, ma che c’entra, questo è diverso…”. Peccato che un papa prima di aprire bocca dovrebbe formulare pensieri non contestabili anche da un bambino.
A una persona seria e onesta il complimento più bello che si può fare è dire che è un lavoratore, uno che non vive alle spalle degli altri – Un altro insulto che dimentica che chi vive senza lavorare comunque qualcosa fa per la società, dalla madre che accudisce ai figli, dallo studente che si prepara al mondo di domani, al nababbo che non ha mai lavorato, ma che, spendendo un sacco di soldi, aiuta altri a vivere. Poi una domanda: ma che “lavoro” farebbe il papa di così utile per la società?
Ovviamente la Chiesa cavalca l’onda del disagio causato dalle ricorrenti crisi economiche e cerca contemporaneamente di istruire i bravi ragazzi a non cercare il benessere, ma soprattutto una “sofferenza” finalizzata a riconoscere nella Chiesa una consolazione.