In un periodo di crisi e di una disoccupazione che fatica a tornare al 10% parlare di lavoro inutile appare poco significativo. In realtà, è la strategia di una piccola parte della popolazione.
Che cos’è il lavoro inutile? Un lavoro che non è una significativa fonte di guadagno, spesso nullo o addirittura con segno negativo. Occorre precisare cosa si intende per “significativa”: il confronto con altre fonti di reddito che incidono sulla nostra vita. Per esempio, rendite finanziarie, lo stipendio di chi vive con noi (coniuge, compagno/a), un’occupazione principale che magari ci impegna per due ore al giorno, ma è molto più redditizia del “lavoro vero” ecc.
Ovviamente, un’entrata mensile di 500 euro può essere significativa per una persona non abbiente, mentre non lo è per chi ha per esempio centinaia di migliaia di euro in banca.
Perché esiste il lavoro inutile? Senza voler generalizzare (ogni caso andrebbe studiato a sé), due sono le cause principali.
Per le donne la motivazione del lavoro inutile deriva da una distorsione del femminismo: la donna per essere uguale all’uomo deve lavorare, il lavoro nobilita, il lavoro rende liberi (per chi non lo sapesse, questa frase campeggiava all’ingresso di numerosi campi di concentramento nazisti) e altre sciocchezze simili che deprimono la qualità della vita. Ovviamente, niente in contrario al fatto che la donna lavori, anzi, può fare la carriera che vuole, ma il lavoro deve essere significativo, non inutile. Quando per lavorare, al netto delle tasse e delle spese, arriva a malapena a coprire i costi dell’asilo dei figli, della donna delle pulizie ecc., beh… allora il lavoro è inutile. Se, per esempio, una donna ama lavorare la ceramica e s’inventa un negozio di oggettistica, magari in perdita o che porta mensilmente una quota “non significativa”, potrebbe tranquillamente non lavorare (la quota è non significativa quindi ha altre fonti di supporto) e lavorare la ceramica come hobby, senza lo stress e le perdite di tempo che un lavoro vero comporta.

Lavorazione della ceramica
Per gli uomini la motivazione è diversa, anche se sempre socioculturale: l’uomo lavora e deve sostenere la famiglia e, quando questa non c’è, il lavoro è parte della sua autostima (instabile, basata sostanzialmente sul successo, anziché su valori morali ed esistenziali). Così si deve a tutti i costi mandare avanti l’azienda di famiglia, si deve continuare la tradizione, il lavoro è la mia vita ecc. A mo’ di esempio (diversi i casi dal mondo reale, anche conosciuti personalmente), cito quello di chi, per sostenere l’azienda in crisi per una concorrenza ormai insostenibile e un settore ormai povero, ha dilapidato il patrimonio personale, qualche milione di euro, pur di mandare avanti l’azienda in profondo rosso per qualche anno, prima di comunque chiudere definitivamente. Un altro esempio meno drammatico, ma frequente, di lavoro inutile maschile è quello del figlio che non ha il coraggio di dire ai genitori che la vecchia attività di famiglia rende ormai veramente poco (o nulla) e che, persona semplice, potrebbe tranquillamente vivere di rendita senza un lavoro che avvelena le sue giornate per il rigetto verso di esso che sente dentro di sé.
Va da sé che nel bilancio occorre tener conto anche del tempo sottratto alla qualità della vita: ai propri oggetti d’amore (in primis i figli, spesso parcheggiati all’asilo o dai nonni; chi ha un vero oggetto d’amore preferisce viverlo piuttosto che svolgere un lavoro inutile!), agli amici, alla semplice tranquillità di una vita veramente libera.
Probabilmente il lavoro inutile è una strategia che riguarda non oltre il 2-3% della popolazione, ma spero di aver dimostrato che, oltre a essere inutile, spesso fa anche danni!