PFAS è un acronimo inglese per indicare comunemente le sostanze perfluoroalchiliche (o acidi perfluoroalchilici). Si tratta di sostanze organiche composte da una catena alchilica fluorurata, cioè da una catena di atomi di carbonio (in numero variabile, da 4 a 16) legate ad atomi di fluoro. Al termine della catena, c’è un gruppo funzionale che distingue essenzialmente uno dall’altro i vari composti di questa famiglia. I più noti sono acidi, come l’acido perfluoroottanoico (PFOA, noto anche come C8) e l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS). La catena di atomi di carbonio collegati ad atomi di fluoro è ciò che determina la principale caratteristica di queste sostanze organiche: la repellenza all’acqua e ai grassi. Inoltre, la tensioattività, cioè la capacità di miscelare liquidi diversi, li ha resi ingredienti usati nella produzione di detergenti, insetticidi, vernici, per l’impermeabilizzazione di tessuti e in prodotti per stampanti, stampa fotografica, schiume antincendio e industria dei metalli (placcatura). Fra le loro caratteristiche fisico-chimiche c’è anche la resistenza termica, che li ha resi sostanze utili per il rivestimento di contenitori per il cibo e per il rivestimento di pentole. Il loro utilizzo, a partire fin dagli anni Cinquanta, ha fatto sì che siano stati ritrovati percentuali significative nell’ambiente e anche negli esseri viventi, al punto che il Ministero dell’Ambiente ha fatto partire un progetto commissionato al CNR-IRSA per l’analisi della contaminazione ambientale di PFAS in molti bacini fluviali italiani. Infatti, i PFAS sono in grado di rimanere nelle acque dei fiumi e di contaminare le falde acquifere. Inoltre, nel progetto s’intendeva studiare anche l’impatto sull’ambiente e su alcune attività produttive legate all’acqua, come l’allevamento di molluschi. La pericolosità dei PFAS è dovuta, come dice testualmente la direttiva Europea 2006/122/CE, al loro potenziale di propagazione a lunga distanza nell’ambiente, al fatto che sono persistenti e bioaccumulativi (sono in grado di accumularsi negli organismi viventi). Pertanto, essi soddisfano i criteri per essere considerati inquinanti organici persistenti (POP) ai sensi della Convenzione di Stoccolma del 2004 che sancisce le caratteristiche che devono avere le sostanze inquinanti organiche in Europa. Purtroppo, in Italia i PFAS sono tristemente famosi per una contaminazione ambientale che ha raggiunto l’acqua potabile delle case in alcune zone del Veneto e che ha acceso i riflettori della cronaca su queste sostanze.
Occorre infine rilevare che c’è solo un lontano legame fra PFAS e altre sostanze come il teflon; il teflon di per sé non è cancerogeno, ma l’acido perfluoroottanoico (PFOA) è utilizzato nel processo di produzione del teflon e sostanze chimiche simili (note come fluorotelomeri); è bruciato durante il processo e non è presente in quantità significative nei prodotti finali.

Struttura dell’acido perfluoroottanoico
PFAS – Quali sono i rischi per la salute?
Gli effetti sulla salute di PFOS e PFOA sono stati studiati più ampiamente rispetto ad altre sostanze appartenenti alla categoria dei PFAS. Alcune ricerche (anche se non tutti gli studi concordano) avrebbero mostrato che l’esposizione a queste sostanze potrebbero avere questi effetti:
- influenzare la crescita, l’apprendimento e il comportamento dei neonati e dei bambini
- diminuire la fertilità femminile, con insorgenza di amenorrea ed endometriosi.
- interferire con il sistema endocrino e la normale produzione ormonale (specie a carico della tiroide)
- aumentare i livelli di colesterolo
- interferire con il sistema immunitario
- aumentare il rischio di cancro (reni e testicoli)
- aumentare i casi di ipertensione gravidica.
È importante rilevare che l’esposizione deve essere di tipo continuato, in altre parole i PFAS sono tossici solo se si accumulano nell’organismo. Quindi bere un solo bicchiere di acqua contaminata non è rischioso, mentre lo è per chi vive in zone contaminate e beve le acque contenenti alti livelli di PFAS per molti anni. Attorno alla pericolosità di queste sostanze si è sviluppata una discussione in ambito scientifico perché, secondo alcuni, gli studi esistenti sarebbero sufficienti per stabilirne i rischi per la salute degli esseri umani; secondo altri, invece, i risultati dovrebbero essere ancora ulteriormente confermati. Sicuramente le ricerche hanno dimostrato, negli esperimenti su cavie da laboratorio, alterazioni delle funzionalità epatica, tiroidea e pancreatica, e alcune variazioni dei livelli ormonali. Negli animali si sono dimostrati anche sicuramente cancerogeni. Proprio per questa insufficiente conclusione, di fatto non esiste in Italia un limite alla concentrazione massima di PFAS, nonostante fin dal 2006 esistesse una raccomandazione Europea (Direttiva 2006/122/CE) per limitare i rischi di esposizione a PFOS e PFOA. Solo nel 2014 il Ministero della Salute italiano ha introdotto dei livelli di performance pari a 300 ng/L per PFOS, 500 ng/L per PFOA e 500 ng/L per gli altri PFAS. Poiché la pericolosità è per accumulo, questi limiti sono stati calcolati considerando il consumo medio di acqua per persona. Interessante notare che invece nel documento del CNR-IRSA del progetto commissionato dal Ministero dell’Ambiente sono citati come valori di riferimento internazionale misure dell’ordine di 20 ng/L.
Il caso in Veneto
Nel maggio del 2013 è stato pubblicato lo studio commissionato dal Ministero dell’Ambiente al CNR-IRSA che rilevava la contaminazione delle acque potabili di una vasta area del Veneto, in alcune zone del bacino del Brenta e dell’Adige. Nel bacino di Agno-Fratta Gorzone sono state misurate concentrazioni crescenti da nord a sud, con valori di PFOA superiori a 1.000 ng/L e di PFAS totale superiori a 2.000 ng/L.
Nelle zone identificate come contaminate, sono stati rilevati numeri anomali che confermerebbero la pericolosità di un accumulo di PFAS nell’organismo umano, tra le quali un aumento significativo di aborti e una diminuzione sensibile di fertilità. In seguito al succedersi di rapporti che documenterebbero un rischio concreto per la salute umana e alle proteste delle organizzazioni ambientali e della regione Veneto, nel marzo del 2018 il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza per la contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche delle falde idriche nei territori delle province di Vicenza, Verona e Padova, nominando un commissario. Nella zona rossa, dove sono state misurate le concentrazioni più alte, vivono ora circa 2.000 persone.
Ai residenti fu proposto di sottoporsi a trattamenti di plasmaferesi e di scambio plasmatico per ridurre l’accumulo di PFAS nell’organismo. Queste pratiche sono state al centro di accesi dibattiti, perché non tutti concordano sulla loro utilità. I primi risultati del 2017 hanno evidenziato una diminuzione di PAFS del 35% con plasmaferesi e del 68% con scambio plasmatico, anche se i dati erano ancora molto preliminari perché validati solo su un centinaio di persone. L’attività di screening della popolazione è comunque ancora in atto.
Per 21 comuni un decreto regionale (2017) aveva stabilito che, nell’arco temporale di sei mesi, i valori di PFOA + PFOS sarebbero dovuti risultare inferiori o uguali a 40 ng/l. Nel gennaio 2022 solo a Sarego Nord si sono rilevati 6 ng/l, mentre negli altri prelievi la somma dei valori non era quantificabile.