L’antropentropia è una grandezza che misura il degrado ambientale causato dall’uomo. In sostanza, il concetto di antropentropia non è che una versione ecologica del principio di Heisenberg:
la presenza dell’uomo altera ciò che vorrebbe salvare.
In questa pagina vogliamo analizzare quantitativamente il concetto per dare una regola generale che spieghi:
- gli insuccessi dell’ecologismo del XX sec.;
- la difficoltà pratica di salvare la natura a lungo termine.
Parlare di insuccessi dell’ecologismo non è essere pessimisti. Chi ha un orizzonte temporale sufficientemente ampio e confronta la situazione della Terra 50 anni fa con quella di adesso non può che concludere che la situazione è peggiorata. Singoli successi sono da ascrivere a battaglie vinte in una guerra persa: salvare un albero secolare non ha molto pregio se poi alle nostre spalle si abbatte la foresta!
Il verde cittadino
Purtroppo si è fatta strada una figura che si illude di salvare la natura confondendo ciò che è veramente naturale con ciò che è stato semplicemente antropizzato bene. L’interesse si è cioè spostato verso città a misura d’uomo, dove case, strade, qualche parco sono il massimo della vita, dove il verde cittadino è presente e illude chi non conosce quello vero di vivere nella natura. Intere zone anche prestigiose sono ormai talmente antropizzate da potersi definire inquinate dall’uomo. Certo ci si può vivere bene, ma nulla c’entrano con un modo di vita naturale, si può parlare di “natura artificiale”:
il verde di un parco cittadino sta alla natura come l’amore con una prostituta sta a quello vero.
Il concetto di antropentropia vuole proprio spiegare come sia concreto il rischio di un’umanità che potrà aspirare solo alla natura artificiale.
L’antropentropia
I più bravi in termodinamica sanno che l’entropia è una funzione di stato del sistema che misura il grado di disordine del sistema stesso.
Sempre secondo la termodinamica, l’entropia totale dell’universo è in continuo aumento, cioè il disordine cresce sempre.
Analogamente (il termine richiama quindi il disordine provocato dalla presenza umana) possiamo definire l’antropentropia (Albanesi, 2007) di un territorio in modo molto semplice come la superficie antropizzata sA.
In realtà, se N è il numero di uomini presenti nel territorio, si può definire la superficie antropizzata media S come sA/N: S rappresenta la quota di degrado attribuibile a ogni uomo. L’antropentropia si può quindi definire come
A = S * N
dove S è la superficie antropizzata media e N il numero di uomini. Perché questa seconda definizione leggermente più complessa? Perché spiega i due fattori che concorrono a far aumentare l’antropentropia.
S è la superficie che compete (in media) a ogni uomo che vive nel territorio come suo spazio vitale e che ha sottratto alla natura: la casa dove abita, le strade, le strutture (luoghi di lavoro, luoghi ricreativi, scuole, ospedali ecc.). Si tratta della quota individuale che abbiamo tolto alla Terra. Tale quota cresce continuamente con il progresso. L’ipotesi del cemento si basa su essa:
se ognuno di noi avesse a disposizione un terreno di SOLI (incredibile, ma vero!) settanta metri per settanta, ogni metro della penisola sarebbe urbanizzato.
Se nel Terzo Mondo si vive ancora in dieci in una capanna di 30 mq, oggi il sogno di ognuno di noi è di espandersi. Parlo spesso con ambientalisti che hanno una bella e ampia villa. Ebbene, costoro non si rendono conto che se ognuno di noi (aspirazione legittima) portasse via alla natura la fetta che loro hanno preso, della natura resterebbe ben poco. Ovvio che con il progresso sociale, se non cambia la sensibilità sull’antropentropia, S continuerà ad aumentare.
Purtroppo anche N continua ad aumentare, in maniera veramente impressionante, soprattutto perché nessun governo è interessato a una politica di controllo demografico.
In sostanza
dalla preistoria l’antropentropia continua ad aumentare
quindi:
che senso ha preoccuparsi di salvare una pianta, o una specie animale, quando un banale calcolo dell’aumento dell’antropentropia ci dice che fra X secoli la natura sarà estinta?
L’ambientalista che non si fa carico di rispondere a questa domanda, fa spallucce ed è contento di fare quello che si può, tanto fra X secoli lui non ci sarà più (se non risponde concretamente alla domanda questa è la motivazione inconscia del suo falso attivismo), non può poi indignarsi se si sente rispondere: ma che mi importa se fra 50 anni l’effetto serra farà disastri, fra 50 anni io non ci sarò più!
Che i secoli siano uno, due o dieci il discorso non cambia:
se la politica ambientale non fissa un limite all’antropentropia, di natura potrà esistere solo quella artificiale.
Ovviamente il limite non deve essere temporaneo (come i periodici piani regolatori che non fanno altro che differire l’agonia naturale), ma assoluto.
Solo studiando l’antropentropia e fissando limiti assoluti non trattabili, localmente e globalmente, si potranno ottenere risultati concreti. Altrimenti, tanto vale depredare la natura delle poche risorse che ancora ha.
Come misurare l’antropentropia
Semplicemente partendo dalla sua originaria definizione: l’antropentropia di un territorio è la superficie antropizzata. Se poi si considera la superficie totale del territorio, appare utilissimo introdurre il fattore antropentropico
FA = SA/sTOT
dividendo la superficie antropizzata per la superficie totale. Il calcolo della prima delle due grandezze del fattore antropentropico non è immediato, tanto che, per semplificare le cose, alcuni pensano che per misurare l’antropentropia ci si possa riferire solo alla densità della popolazione, eventualmente poi corretta con un fattore che è massimo per i Paesi economicamente più avanzati (dove l’uomo tende a “sprecare” più territorio, dove cioè S è maggiore); l’idea è interessante, ma non corretta.
Si considerino, per esempio, due Paesi simili come livello di ricchezza, l’Italia e la Gran Bretagna. L’Italia ha una densità abitativa di 197 ab/kmq, mentre la Gran Bretagna ha una densità di 252 ab/kmq. Quindi l’antropentropia della Gran Bretagna dovrebbe risultare superiore a quella dell’Italia, ma non è così. Il motivo è abbastanza facile capirlo se si pensa che l’area metropolitana di Londra ospita circa 15 milioni di persone, cioè il 25% della popolazione, mentre l’area metropolitana di Milano solo 7 milioni, cioè solo l’8% della popolazione italiana.
Ciò significa che in Italia la presenza umana è molto più sparsa (il decentramento è uno dei fattori che aumentano l’antropentropia). Al limite supponiamo che i 60 milioni circa di italiani siano tutti in Lombardia: l’antropentropia dell’Italia sarebbe comunque ottima (tranne che per i lombardi!).
Il calcolo del fattore antropentropico non può quindi che passare attraverso un’analisi dettagliata del territorio:
dato un territorio di superficie S, sia M la superficie morta, quella conteggiata con una fascia di 50 m da ogni insediamento umano, fruito o fruibile (una casa, una strada, una fabbrica ecc.). Il fattore antropentropico FA è dato dal rapporto M/S.
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