Il possesso è uno dei fenomeni giuridici più interessanti e, per certi aspetti, più controversi dell’ordinamento civile italiano; determina sempre perplessità nei non addetti ai lavori e, contestualmente, viene spesso in gioco, costituendo il presupposto dell’usucapione, della quale parliamo in separato articolo. Secondo la definizione del codice civile (art. 1140) il possesso è “il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale“.
La definizione fa emergere, con immediatezza, la diversità tra il diritto e il possesso: il secondo è un fenomeno fattuale, concreto, nel quale un soggetto si comporta come se fosse proprietario, o titolare di un altro diritto reale (usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, servitù). Non rileva se sia davvero proprietario o no; ciò che conta è che egli mantiene dei comportamenti tipici di un soggetto che può vantare un diritto sul bene.
Emerge, quindi, la preponderanza del rapporto materiale, concreto (ma non solo, come si dirà) tra un soggetto e un bene, accompagnato dall’intenzione di considerare la cosa, in buona o mala fede, come propria.
La definizione fornita e le prime esplicazioni permettono di individuare il primo elemento del possesso, ovvero il cosiddetto corpore possidere; è l’elemento oggettivo del possesso, poiché deve sostanziarsi in un rapporto diretto tra la persona e il bene, manifestato attraverso comportamenti concreti che permettono agli esterni (indipendentemente, dunque, dall’eventuale nesso giuridico) di percepire il rapporto sussistente.
Facendo un banale esempio: si incappa in un terreno incolto e si inizia a utilizzarlo come se fosse proprio, adibendolo a coltivazione di ortaggi, che poi si trattengono per uso personale o cessione a terzi. All’occhio di un esterno che veda l’accesso al fondo, si apparirà come proprietari del terreno.
Si possiede perché si usa; banalmente. Ma non solo. Si possiede perché, in ogni momento, è possibile ripristinare il rapporto con il bene. La giurisprudenza, infatti, conferma che non sono necessari “continui e concreti atti di godimento ed esercizio del possesso“; è evidente che per possedere un terreno, non occorre che si pianti una tenda e si viva l’intera esistenza in loco.
Ma è importante che ci si continui a ritenere proprietari.

il possesso è “il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale”
L’animus possidendi
La spiegazione riportata nel paragrafo precedente permette di introdurre il secondo elemento costitutivo del possesso, ovvero il cosiddetto animus possidendi; la definizione normativa non contiene tale requisito (in essa, infatti, si discorre solo del potere di fatto sulla cosa), ma è stata necessariamente ricavata dal sistema, anche per distinguere, come diremo, possesso e detenzione.
È possibile, quindi, che non serva un rapporto “continuo, costante, permanente” tra persona e bene, purché permanga nel soggetto la considerazione soggettiva di continuare a comportarsi come proprietario. Percezione soggettiva che deve sussistere, si faccia attenzione, anche al sorgere del rapporto di fatto.
Sembra quasi una definizione circolare, poiché è una considerazione soggettiva, l’opinione di essere il proprietario, ma la si lega, comunque, al potere di fatto sulla cosa. Si capisce bene, quindi, che l’animus è un elemento quanto più sfuggente esista e le prove di esso sono solamente presuntive (ovvero vengono forniti elementi che dovranno indurre il Giudice, in caso di contestazione, a rilevare l’esistenza dell’animus nel soggetto che accampi il possesso di un bene).
Ben consapevole di ciò, il codice civile prevede un importante spartiacque, fissato dall’art. 1141.
La legge prevede, infatti, che l’animus possidendi sia presunto (considerato, dunque, sussistente salvo prova contraria) in un soggetto che possieda il bene senza far derivare tale potere da una qualche forma di autorizzazione altrui. Quando, invece, vi sia un qualche titolo o il potere di un terzo a fondamento di tale rapporto, si parlerà di detenzione, di cui subito ci occuperemo; se si vuole iniziare a possedere sarà necessario, quindi, mutare la ragione per cui si possiede, per mezzo della cosiddetta interversione.
Per comprendere il concetto di animus nel possesso, quindi, diviene essenziale capire cosa sia la detenzione: non vi è una definizione esatta, ma la si ricava dall’art. 1140, II comma, e dall’art. 1141 II comma del codice civile. L’art. 1140 spiega che si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona. In questo secondo caso, il soggetto verrà definito detentore: egli è, quindi, un soggetto che esercita i poteri di fatto sulla cosa, ma in nome di un altro soggetto che rimane unico possessore. Svariate sono le ipotesi di detenzione: il comodatario, il conduttore (colui che ha in locazione un bene), l’utilizzatore in un contratto di leasing, l’usufruttuario nei confronti del nudo proprietario.
Sono tutti soggetti, questi ultimi, che usano il bene ma, si può dire, sanno che lo fanno perché autorizzati da altri che, invece, restano i veri possessori. La distinzione come è facile comprendere è tutta nell’animus del soggetto: il detentore si comporta come il possessore, ma sa di non esserlo.
La conseguenza di quanto appena esposto è che se il detentore vuole mutare il proprio ruolo deve mutare il titolo, in forza del quale esercita le proprie facoltà; deve porre in essere la cosiddetta interversione del possesso.
Non basta, però, che muti il proprio animus, ma è necessario che lo esplichi nei confronti del possessore. Il detentore, infatti, già mantiene comportamenti materialmente riconducibili al possesso; se fosse sufficiente mutare animus, senza nulla aggiungere, non vi sarebbe cambiamento percepibile all’esterno (in primis in capo al possessore). La legge, quindi, prescrive che il detentore compia “uno o più atti esterni, sebbene non riconducibili a tipi determinati, dai quali sia consentito desumere la modificata relazione di fatto con la cosa detenuta, in opposizione al possessore” (Cass. Civ. 28.02.2006 n. 4404).
La casistica è, ovviamente sterminata. Utile parametro per comprendere se si possa parlare di un atto utile all’interversione, è valutare se esso sia inerente alle facoltà proprie del detentore oppure qualifichi un possessore.
Tornando al banale esempio del terreno da coltivare: se si coltiva un terreno altrui, per esempio, in forza di un comodato, non costituisce atto di interversione il porre in opera un ricovero attrezzi o eseguire migliorie (Cass. Civ. 12.05.1999 n. 4701) perché è tipico di chi utilizza il bene poter apportare delle modifiche; se, invece, recinta il terreno, pone un cancello e non consegna le chiavi al possessore, allora, manifesta l’intenzione, da quel momento, di considerarlo proprio.
Rimane un unico ulteriore aspetto, riconducibile alla percezione soggettiva, in materia di possesso: ci si riferisce all’art. 1144 del codice civile che stabilisce come “gli atti compiuti con altrui tolleranza non possono servire a fondamento all’acquisto dell’usucapione“.
Da subito si precisa che la tolleranza, al più, rileva al momento del sorgere del possesso, a evitarlo, ma una tolleranza mantenuta a partire da un momento storico successivo all’insorgenza di un possesso non vale a escludere gli effetti dell’usucapione.
Ciò precisato, si può cercare di delimitare i margini (ma non gli esatti confini) del concetto di altrui tolleranza. La definizione è legata a una terminologia facente riferimento all’ambito soggettivo (un soggetto tollera), ma in verità non basta sostenere di aver tollerato, debbono esservi anche delle tipiche caratteristiche di quanto accade.
La tolleranza, quindi, è certamente connaturata dall’intento del possessore o del titolare del diritto di “fare una mera concessione“, per spirito di benevolenza o per qualsiasi altro interesse (tornaconto personale, sopportazione) del soggetto. Ma la concessione deve avere a oggetto un “godimento di modesta portata“, il quale incida debolmente sul diritto o sul possesso (facente capo al soggetto tollerante).
La casistica è ricca di valutazioni concrete; certamente la lunga durata del godimento costituisce il tipico elemento che vale a escludere la tolleranza (nel che si trova anche una certa contraddizione: se la tolleranza esclude la nascita del possesso, cosa importa, poi, quanto dura?).
È certo, infine, che la mera inerzia non costituisce tolleranza.
Vedremo, parlando dell’usucapione, che è importante per quanto tempo si sia posseduto un bene.
L’art. 1142 del codice civile, allora, dispone che il possesso attuale fa presumere il possesso intermedio, in chi abbia posseduto in tempo più remoto. Se si è posseduto un terreno nel periodo 1992/1995 e dal 2007 lo possiedo ancora, la legge presume (ovvero è ammessa la prova contraria), che si sia posseduto anche dal 1995 al 2007.
Il possesso attuale, però, non fa presumere un possesso anteriore, a meno che tale potere non si basi su un titolo di acquisto; in questo caso, provata l’esistenza del titolo ed il possesso attuale, vale sempre una presunzione di possesso dalla data del titolo.
L’art. 1146 del codice civile, invece, si occupa dei fenomeni della successione e dell’accessione del possesso. Il primo prevede che il possesso continui nell’erede, essendo l’accettazione dell’eredità retroattiva; i due periodi temporali (possesso del de cuius e possesso dell’erede) si uniscono per disposizione legislativa. Il secondo comma, invece, prevede l’accessione ovvero la possibilità che il soggetto che subentra nel diritto su un bene (per esempio perché acquista il terreno) possa cumulare il proprio possesso a quello del proprio venditore. In questo caso, però, è necessario che i due possessi siano temporalmente uniti, per ottenere l’effetto di cumulo.
Siamo arrivati sino a qui e manca, sostanzialmente, solamente di affrontare gli effetti del possesso, tra i quali, come vedremo, l’usucapione è certamente il più rilevante.
La legge, a tal fine, introduce anche il concetto di buona fede nel possesso, la quale viene presunta (art. 1147 del codice civile); colui che inizia a possedere si presume che lo faccia ignorando di ledere il diritto altrui (e ciò anche perché, magari, incorre in un errore di diritto, perché è convinto di essere legittimato al possesso).
Il possesso determina diritti, ma anche doveri.
L’art. 1148 del codice civile prevede che il possessore di buona fede faccia propri i frutti naturali separati fino al giorno della domanda giudiziale (evidentemente con cui si chiede di privarlo del possesso) e civili (rif. art. 820 del codice civile) della cosa fino allo stesso giorno.
Però, dal momento della domanda, egli risponde dei frutti percepiti dopo la domanda e anche di quelli che avrebbe dovuto percepire, usando la diligenza del buon padre di famiglia nell’esercizio del suo potere.
Qualunque possessore, comunque, ha diritto al rimborso delle spese sostenute, quando debba rendere i frutti percepiti (art. 1149 del codice civile).
Il possessore (anche di mala fede) ha diritto, inoltre, al rimborso delle spese per riparazioni straordinarie e all’indennità per i miglioramenti; se deve il rimborso dei frutti, gli spetta anche il rimborso delle spese per le riparazioni ordinarie, per il tempo per cui la restituzione è dovuta.
Il possessore (ma solo di buona fede) ha diritto di ritenere la cosa (ovvero rifiutare la consegna) se non gli vengono corrisposte le indennità dovute, come sopra prescritte.
Dell’usucapione e del cosiddetto “possesso vale titolo”, parliamo in altro articolo.
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Lorenzo Zanella
Avvocato
Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Treviso