Giuditta e Oloferne è un dipinto di Caravaggio realizzato tra gli ultimi anni del Cinquecento e i primi del Seicento per il banchiere Ottavio Costa. L’episodio biblico narra della vedova ebrea Giuditta che decapita il generale assiro Oloferne dopo averlo fatto ubriacare a un banchetto, per salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera. Il dipinto è stato riscoperto nel 1950 e fa parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma.
Una seconda versione dell’opera è stata scoperta nel 2014 nel soffitto di una casa a Tolosa: sarebbe il dipinto di Giuditta e Oloferne realizzato da Caravaggio a Napoli tra il 1600 e il 1610 e poi scomparso, ma la paternità effettiva è dibattuta.

Lo sfondo scuro di Giuditta e Oloferne fa risaltare i volti altamente emotivi dei personaggi
L’approccio di Caravaggio era, tipicamente, quello di scegliere il momento di maggiore impatto drammatico delle storie che rappresentava: in questo caso, il momento preciso della decapitazione. Le figure sono disposte in uno scenario poco profondo, teatralmente illuminate di lato, isolate sullo sfondo nero da cui emerge soprattutto la veste bianca brillante della protagonista, Giuditta. La cameriera di Giuditta, Abra, sta accanto alla sua padrona tenendo in mano il drappo in cui andrà posta la testa decapitata. Giuditta allunga il braccio e tiene la lama della scimitarra di Oloferne posata sul suo collo, da cui stilla sangue. Oloferne è sdraiato a pancia in giù, in una posa tesa e contorta mentre gira la testa verso il suo assassino, esposto e vulnerabile. I raggi X hanno rivelato che Caravaggio ha aggiustato la posizione della testa di Oloferne in corso d’opera, separandola leggermente dal busto e spostandola minuziosamente a destra. I volti dei tre personaggi dimostrano la padronanza delle emozioni dell’artista, in particolare il volto di Giuditta, che mostra un misto di determinazione e repulsione. Oloferne ha gli occhi vitrei della morte, ma i muscoli e la bocca ancora contratti dalla tensione degli spasimi di dolore e paura. La serva è un elemento di contrasto a Giuditta: è vecchia e brutta, mentre l’eroina è giovane e bella, per la tipica associazione fisiognomica tra virtù morali come il coraggio e virtù estetiche. Giuditta è la rappresentazione di un simbolo, più che di una donna vera e propria, il simbolo della salvezza: la sua posa è innaturale, non c’è uno sforzo fisico nel braccio teso laddove dovrebbe essercene molto, perché Giuditta è puro spirito di salvezza, come indica anche il bianco della sua veste.
Mentre la daga mediorientale usata da Giuditta mantiene la fedeltà all’episodio biblico, gli abiti della donna sono tipicamente seicenteschi e l’ambientazione è semplicemente teatrale, non contestualizzata.
Il modello di Giuditta è probabilmente la cortigiana romana Fillide Melandroni, che posò per diverse altre opere di Caravaggio in quegli anni. La scena stessa, in particolare i dettagli del sangue e della decapitazione, furono resumibilmente tratti dall’osservazione dell’esecuzione pubblica di Beatrice Cenci, nobildonna romana condannata a morte per l’omicidio del padre violento.
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