Le definizioni di dolore sono molteplici. La International Association for the Study of Pain (IASP), Associazione Internazionale per lo studio del dolore, definisce quest’ultimo come “un’esperienza sensitiva ed emotiva associata a un reale o potenziale danneggiamento di un tessuto”. Da questa definizione si nota come il dolore sia a oggi riconosciuto come un’esperienza soggettiva, ancora difficile da misurare oggettivamente, ma comunque ben inquadrata dal punto di vista fisiologico.
Una svolta cruciale per capire come nasce il dolore è stata ottenuta circa 150 anni fa in seguito alla scoperta, da parte di Müller e Weber, dei recettori del dolore, strutture biologiche sparse in tutto il nostro corpo che riescono a convertire un opportuno stimolo esterno in un impulso nervoso che sarà poi integrato e percepito nel sistema nervoso centrale. L’aver dimostrato che il dolore ha delle basi biologiche ne ha definitivamente spostato il concetto dalla mera sfera psico-filosofica (pensiamo agli Epicurei o ai trattati di Schopenhauer) alla sfera medica. È comunque solo con la pubblicazione dell’articolo Pain mechanism: a new theory (Melzach R., Wall P.D; Science, 1965 Nov 19;150(699):971-9) che vengono posti all’attenzione della comunità scientifica i meccanismi anatomo-fisiologici alla base della percezione del dolore. Da allora si è iniziata la strada verso approcci razionali per lo studio e per la cura della sensazione dolorosa non solo come fenomeno secondario a una lesione, ma anche come patologia a sé stante.
Nella teoria proposta da Melzach e Wall, conosciuta anche come teoria del cancello, i recettori, stimolati da agenti chimici, dal calore, dal freddo o da stimoli meccanici, trasmettono un segnale nervoso al midollo spinale da dove poi altri fasci nervosi partono per raggiungere il sistema nervoso centrale. La teoria del cancello afferma che a livello dei neuroni midollari si ha una convergenza di stimoli dolorifici e no, come quelli tattili per esempio, e il neurone in uscita deve riuscire a discriminare qual è l’informazione prioritaria, agendo quindi da “cancello”. In questo evento sembrano giocare un ruolo chiave delle strutture, dette interneuroni, che utilizzano come neurotrasmettitore un oppioide endogeno, l’encefalina, e che integrano opportunamente le informazioni pulendo il segnale uscente. Ciò comporta che, se uno stimolo dolorifico e uno stimolo meccanico vengono trasmessi simultaneamente, la trasmissione dello stimolo dolorifico potrà essere attenuata: pensiamo a quando ci massaggiamo una parte lesa per attenuare il dolore. Questo concetto è stato applicato per spiegare il meccanismo d’azione dell’agopuntura.
Il dolore evocato dalla stimolazione di questi recettori viene definito nocicettivo e rappresenta una risposta con un’intrinseca funzione protettiva in quanto la percezione del danno subito da una parte del nostro corpo ne consente poi l’eliminazione, mediante archi riflessi o mediante azioni coscienti.
La localizzazione del dolore nocicettivo è immediata e ciò rende diagnosi e cura abbastanza accurate. Le terapie antidolorifiche sono trattate nella pagina sugli analgesici.
Accanto a quello nocicettivo va citato quello neuropatico: in questo caso, invece di una reale stimolazione recettoriale, si verifica un danno a carico dei sistemi di trasporto degli stimoli dolorosi: in pratica il sistema deputato alla percezione del dolore subisce un danno provocando esso stesso una percezione aberrante delle sensazioni dolorose. Spesso questo dolore deriva dal danneggiamento di nervi e viene spesso riferito come bruciante o pungente, ma è di difficile localizzazione; di conseguenza la sua cura è spesso incerta e a volte i normali farmaci risultano inefficaci.
Come visto finora, inquadrare il dolore dal punto di vista medico è alquanto complesso e comunque è al di fuori degli scopi di questo articolo. La suddivisione appena proposta in dolore nocicettivo e neuropatico si basa sulla fonte del dolore, in termini tecnici l’eziopatogenesi. Accanto a questa definizione, la letteratura medica propone altre classificazioni per cercare di ottenere una corretta diagnosi, integrando il maggior numero di informazioni ottenute dal paziente; ricordiamo che purtroppo il dolore è un’esperienza totalmente soggettiva, attualmente non misurabile se non tramite la comunicazione tra il medico e il paziente.
Esso può essere descritto facendo riferimento alla sua durata, alla sua localizzazione e alla sua intensità. La suddivisione più a monte distingue il dolore acuto da quello cronico. Questa suddivisione non definisce solo la durata del sintomo, ma ne dà anche una qualificazione esistenziale: dal dolore episodico e momentaneo, il dolore acuto, si passa a una vera e propria malattia spesso invalidante, il dolore cronico. Quello acuto, dal punto di vista medico, è un dolore di recente insorgenza, ma di durata non superiore ai sei mesi. Se il dolore acuto è visto come meccanismo protettivo e la strategia medica è la cura delle cause al fine di giungere alla guarigione clinica, quello cronico diventa una malattia a sé stante con un impatto psicologico importante.
L’intensità del dolore
Per analizzare l’intensità del dolore si utilizzano delle scale di valutazione soggettiva; tra queste sono abbastanza comuni la scala analogica visiva (VAS), dove il paziente indica, in una scala da “nessun dolore” a “massimo dolore”, l’entità del dolore percepito oppure la scala numerica verbale (VNS), la scala delle espressioni facciali (FPS) e la scala di valutazione verbale (VRS).

Il dolore può essere descritto facendo riferimento alla sua durata, alla sua localizzazione e alla sua intensità.
VAS – È costituita da una linea retta di 10 cm compresa fra due estremi: nessuno e massimo. Il paziente definisce un punto che, a suo parere, rappresenta il grado di intensità del dolore che egli percepisce, espresso in millimetri a partire dal punto di minima intensità. La scala VAS ha un’alta sensibilità e fornisce una buona valutazione della dolorabilità nel breve periodo (ore). Non può però essere utilizzata con pazienti che accusano disturbi visivi, deficit cognitivi o fisici; non è di facile utilizzo nei pazienti in stato avanzato di malattia.
VNS – Si tratta di una scala molto simile alla precedente; per rappresentare il livello del suo dolore, il paziente sceglie un numero compreso fra 0 (nessun dolore) e 10 (peggior dolore immaginabile). Rispetto alla VAS ha il vantaggio che elimina la necessità della coordinazione visiva e della coordinazione motoria.
FPS – Nota anche come “scala delle faccine”, viene usata soprattutto nel paziente pediatrico; le facce corrispondono a valutazioni quali “non fa male”, “fa male un poco”, “fa male un po’ di più”, “fa male ancor di più” e “fa maggiormente male”.
VRS – È una scala che utilizza espressioni quali nessun dolore, lieve, moderato, forte e insopportabile; ha il vantaggio della semplicità, ma la si considera una scala a bassa sensibilità. Un problema è rappresentato dal fatto che il passaggio da un grado all’altro della scala non corrisponde a incrementi di intensità uguali fra loro e ciò può determinare interpretazioni non corrette.
Le scale sopracitate sono scale unidimensionali; misurano cioè soltanto l’intensità del dolore; esistono anche scale multidimensionali come, per esempio, la scala MPQ (McGill Pain Questionnaire, basata sull’utilizzo di 78 descrittori del dolore che comprendono 3 dimensioni, ovvero quella sensoriale, quella affettiva e quella valutativa e 20 sottoclassi), la scala BPI (Brief Pain Inventory, che prevede 7 aree di attività relative alla sfera fisica e a quella psicosociale. Tutte le attività vengono valutate secondo due dimensioni, ovvero l’intensità del dolore e l’impatto che esso ha sulla vita quotidiana; il punteggio viene espresso tramite l’uso di scale numeriche che vanno da 0 a 10. La misurazione dell’intensità è riferita alle 24 ore precedenti e al momento attuale; la scala BPI prevede altresì l’utilizzo di una scala che misura, da 0 a 100%, il sollievo dal dolore) e la scala Painad (si tratta di una scala che viene utilizzata nel caso di pazienti non collaboranti con grave deterioramento cognitivo; è basata sull’osservazione di 5 indicatori (respirazione, vocalizzazione, espressione del volto, linguaggio del corpo e consolazione) ai quali viene assegnato un punteggio che permette poi una sovrapponibilità con le scale numeriche più in uso).
A motivo della loro complessità, l’uso delle scale multidimensionali è abbastanza limitato nella pratica clinica.
Nota – Presupposti fondamentali per un utilizzo corretto delle scale di valutazione sono innanzitutto la possibilità di stabilire un rapporto verbale con il paziente e la capacità di quest’ultimo di capire ciò che viene richiesto dalla scala di valutazione
La componente psicologica
La componente psicologica è importante nella percezione del dolore; un numero crescente di studi farebbe notare che pazienti affetti da depressione manifestano inspiegabili dolori come male alla schiena e alla testa e sembrano avere una soglia più bassa del dolore. Parallelamente, la dolorabilità cronica può sicuramente innescare una serie di effetti psicologici che poi facilitano l’insorgenza della depressione. Non a caso, molti farmaci antidepressivi trovano impiego tra gli analgesici. Un caso tipico dove si nota una stretta correlazione tra psiche e percezione del dolore è la fibromialgia che a volte trova tra le cure antidolorifiche proprio farmaci antidepressivi come gli antidepressivi triciclici e gli inibitori della ricaptazione delle serotonina. Il fatto che la nostra mente valuti il dolore in modo diverso a seconda delle situazioni è tipico, per esempio, della soglia del dolore che cambia da runner principiante a runner professionista (vedasi l’articolo Sono infortunato?).
Gli analgesici
Gli analgesici o, più comunemente, antidolorifici, sono farmaci usati per alleviare le sensazioni dolorose. Circa 25 anni fa l’OMS ha proposto una suddivisione dell’intensità del dolore oncologico utilizzando la scala analogica visiva associando diverse categorie di analgesici a specifici intervalli di valori; questa suddivisione è stata poi anche utilizzata per i dolori muscolo-scheletrici.
Per approfondimenti si consulti il nostro articolo Analgesici.
La terapia del dolore
Si tratta di una forma di terapia che appartiene, di fatto, a quella serie di cure, definite palliative (con il termine palliativo si fa riferimento a un trattamento o a un farmaco grazie ai quali si possono rimuovere o alleviare i sintomi di una patologia, pur non potendo rimuoverne le cause), che vengono generalmente impiegate nei pazienti colpiti da gravi patologie che tendono a evolversi e che nella maggior parte dei casi risultano irreversibili. I soggetti che vengono trattati con questo tipo di approccio sono solitamente pazienti in cui i tradizionali sistemi terapeutici non sono in grado di sortire effetti significativi.
Per approfondimenti si consulti il nostro articolo specifico.
Bibliografia
International Association for the Study of Pain
Principi di Chimica Farmaceutica; Foye, Lemke, Williams.
Farmacologia degli analgesici
Progetto ASCO
Harvard Health Publications