L’aborto è l’interruzione della gravidanza prima che l’embrione sia in grado di condurre vita autonoma extrauterina, limite che può variare molto a seconda dei Paesi, anche se mediamente si intende un periodo inferiore alle 20 settimane. Alcuni Paesi utilizzano sistemi diversi per valutare la maturità del feto, per esempio tramite il suo peso (maturo attorno ai 500-1.000 g), ritenendo dunque come aborto la sua espulsione prima del raggiungimento dei 500 g. Studi scientifici hanno infatti dimostrato che feti nati in quest’epoca gestazionale e sottoposti a cure intensive sono riusciti a sopravvivere.
Bisogna comunque distinguere l’interruzione della gravidanza e l’espulsione del feto, situazioni che non necessariamente si susseguono. Si ha così un aborto completo quando tutte le componenti fetali (annessi compresi) sono eliminate, aborto incompleto quando una parte di essi (generalmente la placenta) rimane all’interno dell’utero e aborto ritenuto o interno quando avviene la cessazione della vita del feto senza che esso sia espulso.
Nel nostro Paese, in passato, l’aborto veniva definito come l’interruzione di gravidanza avvenuta entro il 180mo giorno dal concepimento; in ambito medico questa definizione è ormai ritenuta superata e si tende a indicare con il termine aborto l’interruzione di gravidanza in cui il feto non abbia raggiunto un peso minimo di 500 al momento della sua espulsione (o estrazione dal corpo della donna) oppure, nel caso in cui il peso sia ignoto, che sia stata raggiunta la 22ma settimana di gestazione oppure, in alternativa, che il feto non abbia raggiunto l’altezza di 25 cm. Si parla invece di parto pretermine (o parto prematuro) qualora il parto si verifichi a partire dalla prima settimana e prima della 37ma settimana di gestazione compiuta.
Nel caso in cui la morte del feto sopraggiunga dopo la 22ma settimana di gestazione non si utilizza più il termine aborto, ma si parla invece di morte endouterina fetale.
Basandosi sull’epoca gestazionale si distinguono le seguenti forme di aborto:
- aborto embrionale (entro le prime sette settimane)
- aborto fetale (dall’ottava settimana)
- aborto tardivo (dopo le 21 settimane di gestazione).
Si deve infine specificare che vanno ben distinte tutte quelle forme che rientrano nei casi di aborto spontaneo, trattato separatamente, e gli interventi atti all’ottenimento di un aborto volontario o provocato.
Aborto volontario
Con aborto volontario o provocato si intende l’interruzione della gravidanza indotta con manovre mediche e viene effettuato principalmente per scopi terapeutici o motivazioni mediche o per semplice intenzione da parte della donna (vedi legge n. 194 del 22/5/78). Vedasi Aborto volontario per approfondire.

Una donna protesta contro la messa al bando dell’aborto in Polonia
Aborto e Personalismo
Nel processo che conduce alla vita ci sono quattro stadi:
- ovulo e spermatozoo (anche un povero spermatozoo potrebbe rivendicare il diritto a diventare un bambino, di avere un ovulo per sé e iniziare un bellissimo viaggio)
- embrione
- feto senza possibilità di sopravvivenza se assistito al di fuori del grembo materno
- feto con probabilità di sopravvivenza se assistito (feto vitale).
Nel quarto caso l’aborto non deve essere consentito per legge; nei primi tre sì perché la “vera” vita non è ancora iniziata. La discussione non deve vertere su aborto sì o aborto no, ma bensì su quando un feto diventa vitale, in base alle evidenze scientifiche.
Fra gli antiabortisti esistono persone coerenti, ma anche moltissimi incoerentii: come può una persona essere contro l’aborto e poi usare metodi anticoncezionali (naturali o meno non importa)? Di fatto mette a morte un ovulo che poteva diventare un uomo. Una visione estesa del concetto di vita potrebbe portare a giudicare un “assassino” chi usa metodi anticoncezionali. Ciò è oggi dai più giudicato assurdo.
Gli antiabortisti giudicano il concepimento (l’unione tra ovulo e spermatozoo) come la fase in cui nasce la vita. Ciò è però incoerente perché siamo nella stessa situazione dell’ovulo. Come l’ovulo ha bisogno dello spermatozoo per continuare la sua corsa alla vita, così l’embrione ha bisogno di un’ulteriore evoluzione per poter nascere e sopravvivere: al concepimento manca una serie di gradini nello sviluppo dell’embrione (tanto che alcuni parlano di pre-embrione) e nulla per il momento dà la certezza che esso diventerà un uomo (o più; a questo punto c’è la possibilità che si generino gemelli monozigoti da un singolo uovo fecondato).
Alla terza settimana il pre-embrione si impianta nell’utero (gastrulazione). Per alcuni questa fase è l’inizio della vita (fra l’altro, si perde la possibilità di generare gemelli monozigoti). Peraltro non c’è ancora la capacità di nascere e di sopravvivere.
Un’ultima fase si ha alla ventitreesima settimana quando compare il primo tracciato elettroencefalografico; l’embrione è vivo neurologicamente e si ha il possibile inizio della coscienza (vita e morte sarebbero simmetriche, entrambe dettate dall’attività cerebrale e dalla coscienza). L’aborto terapeutico può avvenire fino a questa fase.
Il Personalismo sposa ovviamente quest’ultima fase come inizio della vita e quindi non è contrario all’aborto; non parla di “aborto terapeutico” perché tale termine di fatto criminalizza chi vuole semplicemente abortire perché “non c’è ancora vita”. Fra un secolo probabilmente l’aborto sarà naturale come oggi sono naturali i metodi anticoncezionali; non a caso, la pillola del giorno dopo va incontro a questa visione ed è fortemente osteggiata dagli antiabortisti.
Perché allora l’aborto viene visto spesso come un omicidio? Il motivo non dipende solo da motivi etico-religiosi; ritengo che la comune credenza che un matrimonio o un figlio siano fatti positivi della vita (i giorni più belli) porti a ritenere il loro contrario (divorzio e aborto) come fatti negativi.
Anche nei Paesi dove l’aborto è ormai accettato, si continua a negarlo almeno inconsciamente. Basta pensare alla gran parte di film in cui la protagonista deve decidere se abortire o no: grande dramma esistenziale, ma alla fine che cosa fa? Niente aborto, si tiene il figlio e tutti vivono felici e contenti. Peccato che nella realtà le cose non vadano così. Conosco molte donne che non hanno abortito perché pressate dalla famiglia, dalla religione o semplicemente dall’educazione ricevuta; il risultato è sempre lo stesso: un figlio amato a metà e una donna che continua a rimpiangere che la sua vita avrebbe potuto essere diversa.
Aborto: i numeri italiani
I dati completi più recenti relativi alle interruzioni volontarie di gravidanza risalgono all’anno 2015 (relazione inviata al Parlamento dal Ministero della Salute sull’applicazione della legge 194).
Dai dati emerge che nel 2015 il numero di aborti volontari è inferiore a 90.000, infatti sono state notificate dalle Regioni 87.639 interruzioni volontarie della gravidanza, una riduzione del 9,3% rispetto al dato del 2014, pari a 96.578 (-6.0% rispetto al 2013, quando erano stati registrati 102.760 casi). Gli aborti volontari si sono quindi più che dimezzati rispetto ai 234.801 del 1983, anno in cui si è riscontrato il valore più alto in Italia.
Tutti gli indicatori confermano il trend in diminuzione: il tasso di abortività (numero di interruzioni volontarie di gravidanza per 1.000 donne tra 15 e 49 anni), che rappresenta l’indicatore più accurato per una corretta valutazione della tendenza del ricorso all’aborto volontario, è stato 6,6 per 1.000 nel 2015 (-8.0% rispetto al 2014 e -61.2% rispetto al 1983), era 7,1 nel 2014.
Aborto: la scelta difficile
Immaginiamo questo scenario: Mario, sposato padre di un figlio, che scopre insieme alla moglie Maria che il secondo figlio che sta aspettando sarà affetto dalla sindrome di Down. Abortire o non abortire? Lui è favorevole all’interruzione volontaria della gravidanza, la moglie no. Si tratta di un caso classico che evidenzia come sia fondamentale, prima del matrimonio, sondare la compatibilità dei coniugi. Non trattare molti argomenti nella speranza che non si presenteranno mai, che alla fine si potrà convincere il coniuge delle proprie idee, che tutto si supera con l’amore ecc. è sicuramente un atteggiamento superficiale e purtroppo molto diffuso nella popolazione. Nel 90% dei casi questi discorsi si fanno solo a grandi linee. Se si è fortunati va tutto bene, ma se non lo si è, le conseguenze possono essere devastanti.
Quindi, una regola:
prima di sposarsi verificare la compatibilità.
Chi è abortista non ritiene che un embrione sia una vita perché una vita si misura dalla qualità della stessa. Anche una parte dell’insieme di chi è contro l’aborto non ragiona serenamente, ma si limita a ripetere tesi che altri (Chiesa in primis) gli hanno inculcato.
Se non c’è un minimo di qualità (come in chi è in coma irreversibile) parlare di vita è fare filosofia. Per coerenza, se è vita quella di un embrione o di una persona in stato vegetativo, allora sarebbe veramente un assassinio uccidere un animale o addirittura un vegetale. Ma sinceramente parlare di assassinio perché si strappa dalla terra una carota sembra fuori luogo. È irrealistico pensare che un bambino Down possa dare a una famiglia la stessa qualità della vita che un bambino normale. Basta pensare al fatto che la mortalità di chi è soggetto alla sindrome di Down è altissima e spesso non sopravvive ai genitori.
Certo se si è martiri e ci si inorgoglisce nell’impresa di aiutarlo, si può anche trovare uno scopo di vita, l’amore non ha confini, ma bisogna dirsi la verità.
Chi si trova nella condizione di Mario provi chiedere a sua moglie: “Se io fossi stato Down, mi avresti sposato?”. Non avrebbe nemmeno preso in considerazione la cosa. Basta questo fatto per dimostrare che non è vero che Down (checché se ne dica) può “essere bello”. Può essere accettabile. Ma a che prezzo?
La scelta della moglie inevitabilmente non graverà solo su di lei (però è una scelta sua) o sul marito, ma anche su altri (eventuali) figli. L’amore si dimostra con le azioni e le azioni richiedono tempo, forza, risorse ecc. L’amore necessario per assistere chi richiede maggiori cure viene tolto agli altri, è inutile illudersi che non sia così.
Perché allora, invece di mettere al mondo un bambino che avrà delle difficoltà, non si aiutano altri bambini poco fortunati che hanno le potenzialità per avere il massimo dalla vita?
Pensateci, forse il vostro figlio non ancora nato vuole dirvi questo. Come una madre sarebbe pronta a sacrificare parte della propria vita per un figlio affetto da morbo di Down, così un embrione può sacrificarsi per portare l’attenzione su tanti bambini già nati che potrebbero vivere meglio.