La vecchiaia è una colpa? Una risposta negativa alla domanda se la vecchiaia è una colpa sembrerebbe scontata. Ma sarebbe un errore.
Cominciamo con l’osservare che nella nostra società non si distingue fra vecchi e anziani. Tanto per fare un esempio, l’Italia ha (e ha avuto) vari esempi in politica di persone anziane, ma non vecchie, perché ancora attive come dei ragazzini o quasi (molti ricorderanno la vitalità dell’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi oppure, in tempi più recenti, quella del presidente emerito Giorgio Napolitano).
La distinzione fra anziani e vecchi
A livello di linguaggio comune sarebbe opportuno distinguere fra l’anziano che vive ancora attivamente la sua vita (anziano e basta!) e vecchio, l’anziano che ha ormai una qualità della vita scadente, spesso perché ha fatto scelte salutisticamente scorrette.
Il rispetto degli anziani appartiene al senso comune e per molti è uno dei valori più importanti della nostra civiltà tant’è che non si perde occasione per rilevare come la nostra società si stia disgregando proprio per il venire meno di alcuni di questi valori.
Da ragazzo non ho mai compreso la ragione per cui un adolescente dovesse alzarsi per lasciare il posto sull’autobus o in una sala d’attesa a una donna o a un anziano. Cortesia? Educazione? Poi è venuta la parità fra uomini e donne e ora l’uomo che si alza per far posto a una donna fa solo la figura del galante fuori luogo; ma per gli anziani la regola resta radicata nella coscienza dei più.
Un aneddoto: mi trovavo in una sala d’attesa di un ambulatorio medico e me ne stavo comodamente seduto smanacciando sui tasti del portatile per scrivere uno degli articoli del sito. Una persona di una certa età era invece in piedi. Ovviamente non mi sono mosso di un millimetro, dopo aver verificato con un’occhiata che la persona deputata al mio posto aveva sicuramente vissuto malissimo la sua vita e che, nel suo caso, l’asserto che la vecchiaia è una colpa era facilmente dimostrabile.
Ora ho compreso il perché profondo del mio atteggiamento: di fronte a un anziano non mi alzo perché, se è anziano (e basta!) è altrettanto attivo del sottoscritto; se invece è vecchio non si merita più favori di altri. Crudele per i patosensibili, ma logico.
Ma è veramente sempre dimostrabile che la vecchiaia è una colpa? O per lo meno, lo è in un gran numero di casi? Questo concetto è uno di quelli che più mi hanno attirato critiche, ma è anche uno di quelli su cui si fonda la differenza fra una vita soft e una vita top. Per cui la mia risposta alle domande precedenti è un sì convinto. Analizziamo i tre principali casi che esauriscono praticamente il 100% delle possibilità.
Vecchiaia: un vita vissuta male
Se lo stile di vita del soggetto è disastroso (fumo, alcol, sovrappeso, sedentarietà ecc.) è abbastanza evidente che il vecchio non può essere assolto, come nessuno assolverebbe un ragazzo che non vuole studiare. L’analogia del ragazzo è sicuramente accettata anche da molti vecchi in cattivo stato di salute che quindi devono meditare sulle loro colpe passate.
Le malattie degenerative
Rappresentano comunque una piccola percentuale, se confrontate con quelle dovute a un cattivo stile di vita. Alzheimer, Parkinson, demenza senile ecc. sono malattie, quindi il soggetto è un malato, non è un anziano! Non a caso per queste patologie esistono spesso anche varianti giovanili, dove l’età di insorgenza è attorno ai 40 anni, a riprova del fatto che possono colpire indipendentemente dall’età. Anche il fatto che l’Alzheimer sia molto più frequente negli 85-enni che nei 65-enni non significa che la malattia sia legata all’invecchiamento e che ci siano fasce d’età più a rischio; la maggiore frequenza è dovuta semplicemente al fatto che molti 85-enni ammalati di Alzheimer sono ancora vivi, avendo iniziato a manifestare i sintomi della malattia anni prima.
Per le malattie degenerative, se alcune non sono interessate (o lo sono marginalmente) dallo stile di vita, altre come l’Alzheimer (che, ricordiamolo, da solo rappresenta il 60% delle demenze senili) sono nettamente influenzate dallo stile di vita, tant’è che attualmente la prevenzione si basa proprio sugli interventi nei 20-30 anni precedenti la possibile insorgenza della patologia.
La strategia errata
È il vero oggetto di questo articolo: la dimostrazione di come un atteggiamento soft nelle scelte esistenziali sia una pessima strategia in tutti quei casi in cui lo stile di vita è buono o per lo meno sufficiente e non si è in presenza di malattie degenerative gravi.
Per la parte teorica rimandiamo all’articolo Mai dire “Mai più”. Ricordiamo solamente che è
l’abbandono progressivo dei comportamenti giovanili che causa l’invecchiamento psicologico.
Cosa significa questa frase tradotta in una linea del tempo ideale?
Dai 30 ai 45 anni
In questa fase la persona soft inizia a declinare abbandonando
- mode e costumi nuovi
- attività fisica
- divertimento.
Il secondo punto è abbastanza chiaro: adducendo problemi di tempo, di forma fisica (non ho più l’età) ecc. il soggetto diventa ipoattivo. Per fortuna, recentemente è nettamente in crescita la percentuale di chi inverte la rotta; ma, attenzione: molti ritengono di salvarsi dall’invecchiamento solo facendo sport, non capendo che l’attività fisica è una condizione necessaria, ma non sufficiente!
Più interessanti i primi due punti. Il trentenne incomincia a disinteressarsi delle nuove mode, inconsciamente mettendo solide radici alla convinzione che “ai suoi tempi era meglio…”. Si continua a preferire la musica di dieci anni prima, ci si veste come dieci anni prima, si usano gli stessi strumenti di lavoro o di svago di dieci anni prima ecc. Anche qui bisogna prestare attenzione e afferrare la differenza: non è sintomo di vecchiaia preferire un certo genere musicale datato, è sintomo di vecchiaia non conoscere i generi moderni (molti genitori per esempio non conoscono nemmeno i cantanti preferiti dai loro figli)!
Il “già vecchio” ferma la sua conoscenza del mondo ai suoi tempi. Tipico è il caso di chi (trentenne) negli anni ’90 non ha mai imparato a usare bene il computer oppure quello di chi in questi tempi usa solo saltuariamente (e male) Internet senza aver mai approfondito l’argomento.
L’ultimo punto è altrettanto fondamentale, anche se riguarda soprattutto chi è stato trentenne molti anni fa. Una volta era quasi moralmente obbligatorio dedicarsi agli ideali sacri di famiglia, lavoro, figli ecc. Il risultato era che la persona dai trent’anni in poi metteva la testa a posto e dimenticava tutti gli hobby che aveva coltivato nel decennio precedente e da ragazzo. Ci sono molte persone che per farsi una casa ampia e lussuosa hanno letteralmente buttato gli anni migliori della loro vita, lavorando come pazzi, oppure genitori che hanno seguito nel miglior modo possibile la loro numerosissima prole senza concedersi nulla. Questi comportamenti, che sembrerebbero da elogiare, sono invece un gravissimo errore: se la propria vita non ha avuto altri oggetti d’amore che lavoro e famiglia, nel momento in cui questi oggetti svaniscono (arriva la pensione e i figli si fanno la loro vita), ecco che la persona si trova smarrita e senza reali sbocchi esistenziali.
Per cui
il lavoro e la famiglia non sono valori assoluti, ma sono valori positivi quando non soffocano la libera espressione della persona e ne consentono l’orientamento anche verso altri oggetti d’amore.
Dai 45 ai 55 anni
Si aggravano i problemi evidenziati nel decennio precedente, si fossilizzano e diventano situazioni irreversibili. Inoltre:
- compare la nostalgia dei “propri anni”; la frase “ai miei tempi” diventa sempre più frequente e, nei casi più critici, si fa strada la consapevolezza che il mondo d’oggi sia peggio di quello di ieri.
- la priorità del riposo aumenta di molto. Ci si deve riposare per la settimana di lavoro, per il duro anno passato, per il periodo stressante ecc.
- La soglia di fatica accettabile diminuisce.
Dai 55 ai 65 anni
Tipici di questa fascia d’età sono:
- l’apprezzamento della tradizione (anche quando è palesemente superata dai tempi e i giovani non la sentono più propria)
- la progressiva limitazione nell’uso dell’auto e dei mezzi di locomozione una volta usuali (per esempio la bicicletta).
Dai 65 ai 75 anni
Iniziano a comparire:
- la pretesa di avere rispetto dai più giovani
- l’insofferenza al contatto con gli altri vecchi
- la pretesa di farsi servire.
Il primo punto è sicuramente un retaggio culturale tant’è che anche al giorno d’oggi molti sono convinti che i figli debbano essere il bastone della loro vecchiaia.
Il secondo punto è singolare, visto che il vecchio si lamenta spesso della solitudine. In un mondo sempre più popolato di anziani, questi non riescono a parlarsi fra di loro, insofferenti alla minima differenza di comportamento.
L’ultimo punto esplode di solito nella fascia d’età successiva, ma è già presente prima dei settant’anni. Dall’approvvigionamento del cibo, al ritiro dei soldi in banca, alla prenotazione della visita specialistica ecc., si tratta sempre di un demandare ad altri la propria vita, senza un reale motivo: il vecchio decide che è arrivato il momento di tirare i remi in barca e inizia a scavarsi la fossa.

La vecchiaia è una colpa? Una risposta negativa sembrerebbe scontata. Quali sono gli errori più comuni che portano precocemente a questa condizione?
Oltre i 75 anni
In questa fascia si amplificano e diventano stabili i problemi della fascia precedente e inizia un percorso triste e irreversibile:
- il disinteresse per ogni attività intellettuale
- il disinteresse per ogni attività riabilitativa
- atteggiamenti ipocondriaci e/o depressivi.
Il primo punto è vero per tutti i vecchi e non solo per quelli che sono dotati di buona cultura e si manifesta con il distacco dalla lettura del semplice quotidiano o con l’abbandono dei programmi televisivi. Ciò che è intellettuale comporta fatica e il soggetto tende a rifiutarlo.
Il secondo punto è particolarmente penalizzante: il vecchio accetta le menomazioni dell’età e non tenta di porvi rimedio, anche quando quest’ultimo è decisamente possibile. La sordità o la diminuzione della vista sono viste come ineluttabili e lo sforzo per risolverle è spesso minimo e ogni aiuto dall’esterno non è sufficientemente supportato dalla volontà di risolvere il problema.
Questa fase si conclude poi con
- la prevalenza delle sole attività di sussistenza (sonno e alimentazione)
- la limitazione dello spazio vitale
- totale mancanza di autosufficienza.
Il vecchio che non esce più di casa per il clima o per non stancarsi si predispone a trascorrere gli ultimi suoi anni a letto o su una sedia.
Il percorso che abbiamo descritto dimostra chiaramente che spesso la vecchiaia è una colpa, perché, anziché parlare di invecchiamento, per una buona percentuale di vecchi si deve parlare purtroppo di autoinvecchiamento. Sintetizzando, sono tre i fattori che progressivamente dai 30 anni in poi si riducono progressivamente:
- la capacità d’amare, cioè la capacità di trovare oggetti d’amore e d’interesse
- l’autosufficienza
- la reazione alla fatica.
Chi ha occhi esperti, giudicando una persona di 30-40 anni, sarà in grado di comprendere come sarà la sua vecchiaia; e la miglior garanzia è essere persone top.
Come aiutare un vecchio non più autosufficiente?
La strada sbagliata è quella più spontanea: cercare di spronarlo a reagire. È come continuare a girare la chiave di una macchina che non parte, l’unico effetto è di scaricare ancora di più la batteria. Il dialogo tendente a rendere più attiva la vita dell’anziano deve avvenire quando la persona è ancora pienamente autosufficiente, in modo che abbia veramente la possibilità di mettere in pratica ciò che ha compreso (anche se, onestamente, è molto difficile che a settant’anni si possa cambiare stile di vita, anche molto parzialmente). Quindi è inutile sgridare, esortare, discutere.
Il secondo errore
È quello più comune che tende a confondere la vecchiaia non autosufficiente come una condizione di normalità, quando invece è una vera e propria patologia a carattere fisico (per chi ha vissuto male) o psichico (per chi ha un corpo ancora integro, ma si è lasciato andare). Prima di spiegare come risolvere la situazione, mi permetto di raccontare la storia della signora Anna (storia che indubitabilmente ha segnato la mia comprensione del problema). Anna era la madre di un mio collega di lavoro e amico che era ospitata dal figlio e dalla nuora; la signora passava la maggior parte del suo tempo seduta su una seggiola, in salotto davanti a quella televisione che lei non accendeva mai. Quando mi capitava di far visita al figlio, alla sera o alla domenica, si scambiava qualche parola con la donna, la cui mente sembrava sondare nel lontano passato i migliori ricordi della sua vita da proporre all’ospite per una facile conversazione, mentre il figlio, un po’ in imbarazzo, cercava di cambiare velocemente argomento per non rendere oltremodo penosa la situazione (visto che erano sempre le stesse storie…). Un giorno, per caso, alle tre del pomeriggio, mi ritrovai a pensare cosa facesse la signora Anna: la vidi sola, nella casa vuota in attesa che a sera rientrassero i giovani familiari. Sempre così per almeno 250-300 giorni all’anno.
Se riflettete un attimo su questa situazione, vi renderete conto che quello che insegna il Personalismo è oltremodo vero per i vecchi:
l’amore non si dimostra con le intenzioni, si dimostra con le azioni.
Che senso ha mantenere un vecchio in casa quando non si è in grado di dargli amore per almeno diverse ore al giorno? E amore significa:
- parlargli
- farlo muovere
- nutrirlo, vestirlo e lavarlo
- stimolare la sua intelligenza per evitare che avvizzisca del tutto
- coinvolgerlo in qualcosa di vitale
ecc.
Se tutto ciò è limitato a poche decine di minuti al giorno e la solitudine è la migliore compagna della persona non più autosufficiente, ecco che la degenerazione del soggetto raddoppia o triplica la sua velocità.
Il luogo comune
Molti familiari ospitano un loro congiunto non autosufficiente solo perché per luogo comune i figli devono essere il bastone della vecchiaia dei genitori e sarebbe moralmente riprovevole non agire di conseguenza. Secondo una ricerca inglese, solo il 6% delle famiglie sa accudire in modo corretto la persona che assistono; le altre 94 famiglie non fanno altro che accelerare il declino del familiare assistito. Infatti:
- lo seguono per meno di due ore al giorno, nell’altra parte della giornata domina la solitudine;
- non sono in grado di nutrirlo al meglio;
- non sono in grado di stimolare la sua attività fisica; anzi, spesso per non avere problemi, lo disincentivano da ogni forma “pericolosa” di movimento;
- non sono in grado di eseguire una psicoterapia corretta perché non riescono a vederlo che come “un vecchio”.
Il denaro
Se il primo motivo dell’accasamento presso familiari parrebbe “nobile”, seppur infruttuoso, occorre subito dire che spesso maschera il vero motivo per cui si preferisce un’assistenza familiare: il denaro.
Può sembrare squallido, ma gran parte di coloro che valutano come gestire un familiare non autosufficiente mettono fra i fattori più importanti il costo dell’assistenza. Spesso si sceglie la soluzione che permette di assistere la persona con la sola sua pensione, senza sborsare un euro. Ancora più squallido: si valuta che parte della pensione sia la giusta ricompensa per gli sforzi che la famiglia profonde nell’assistenza.
Ulteriormente più squallido: l’assistenza diventa il suggello etico per meritarsi una fetta maggiore (rispetto ad altri parenti) di una buona eredità. Nei casi migliori per le otto e passa ore di solitudine si assume una poco costosa badante extracomunitaria che, naturalmente, non ha nessun titolo per un’assistenza psico-fisica corretta.
Le strutture per anziani
Dovrebbero essere gli equivalenti degli asili e delle scuole per i bambini, ma purtroppo hanno una cattiva nomea, tanto che molti parlano ancora di ospizio. Per smontare gli alibi di chi non vuole spendere un euro (“io non porterò mai i miei genitori all’ospizio!”), è necessario dire che di ospizi-lager ne esistono ormai pochissimi; per approfondire l’argomento rimandiamo al nostro articolo specifico: Strutture per anziani.