Separazione e divorzio sono i mezzi che ci consentono di recuperare il decadimento della qualità della vita successivo a un matrimonio non felice.
Il semplice buon senso dovrebbe indicarci che quando il matrimonio peggiora la qualità della nostra vita non resta che una soluzione: separarsi. La separazione e il divorzio sono eventi spiacevoli, ma in quanto necessari e migliorativi della condizione che si era venuta a creare non possono essere visti come un fallimento esistenziale né diventare un trauma. Bisogna cioè riflettere attentamente sul perché molte persone che li vivono cadano in crisi o comunque ne abbiano, paradossalmente, una ricaduta esistenziale negativa.
A spiegare la crisi non bastano di certo l’improbabile o impossibile speranza di ricomporre la situazione oppure il “giudizio sociale” negativo sulla mancata capacità di tenere unita la famiglia. Il primo fattore di solito allunga i tempi della separazione, ma, nella maggior parte dei casi, una volta che questa è decisa, si è ben coscienti della necessità del passo compiuto; il secondo fattore è sempre meno importante in una società moderna dove il singolo è meno al centro dell’attenzione sociale.
È ovvio che un divorzio possa portare con sé un momento difficile, se non altro per le riflessioni che si fanno sugli errori delle proprie scelte; ma un momento difficile (che può essere anche costruttivo) non è un trauma. In realtà la crisi post-separazione evidenzia cosa ancora manca al soggetto per diventare una persona forte ed equilibrata. Vediamo i motivi più comuni della crisi in relazione alle personalità del Personalismo.
Romantici, mistici, inibiti, apparenti (solo quelli per cui il matrimonio dà apparenza) sentono di “aver fallito” perché danno al matrimonio un valore assoluto. Il senso di fallimento è elevato. Se basano la propria autostima sui risultati esistenziali anziché sui valori proveranno un grande senso di fallimento: non a caso molte persone non si separano proprio per barare con sé stessi: evitare di rendere evidente il proprio presunto fallimento. Convenzioni vecchie, ma non superate, ci dicono che una persona per realizzarsi deve avere un coniuge, dei figli, una buona carriera (la “posizione”) ecc. In realtà per realizzarsi basta avere oggetti d’amore.
Per capire come non abbia senso parlare di “fallimento”, basta riflettere sul fatto che esso è sempre un termine negativo. In realtà, l’esperienza da sé si basa anche sui nostri errori che quindi possono avere una valenza positiva. Il vero fallimento è quando non impariamo nulla dai nostri sbagli e continuiamo a ripeterli. Un matrimonio finito non è un fallimento, è stato un errore e occorre darsi da fare per trarne il migliore degli insegnamenti. Spesso il concetto di fallimento porta con sé sensi di colpa completamente improduttivi, mentre l’errore viene recuperato se ci permette di capire (“inutile piangere sul latte versato”). Anche nei confronti di eventuali figli un divorzio può essere “recuperato” se con serenità ed equilibrio serve a mostrare loro le difficoltà di un rapporto, istruendoli senza ossessioni e senza nevrosi a evitare simili errori nella loro vita.
Nell’inguaribile romantico, nell’insofferente (forte) o nel violento (possessivo) scatta la negazione della separazione che, se subita, viene rifiutata con posizioni e comportamenti al limite del patologico che spesso portano a veri e propri drammi.
Lo svogliato è sicuramente penalizzato dalla consapevolezza che per trovare un altro partner e/o creare un’altra famiglia dovrà darsi ancora da fare e che ciò potrebbe non essere facile.
L’insofferente (debole) può gestire la mancata aspettativa di un matrimonio felice con un profondo senso di frustrazione.
Nel sopravvivente e nell’insoddisfatto la crisi è un modo di prendere coscienza della propria situazione, ma spesso, anziché migliorare la propria personalità, c’è solo un timido tentativo di convivere con la nuova situazione, tanto che, se i rapporti con il coniuge sono rimasti civili, si mantengono rapporti di amicizia che sottolineano le carenze di socializzazione del sopravvivente.
Nell’insufficiente scatta l’angoscia della presa di coscienza della sua situazione con domande del tipo “che sarà di me”; “come andrò avanti” ecc.
Nell’indeciso la crisi è dovuta al carattere di irreversibilità della condizione per cui è il divorzio, più che la separazione, che accentua i dubbi della sua personalità, soprattutto se non entra in una nuova relazione.
Nello statico e nel vecchio la crisi si innesca se la fine del matrimonio viene vista come la sottolineatura della fine di una vita attiva.
Posizione certamente più complessa è quella del debole nel quale la crisi può essere dovuta a più cause; in alcuni ritorna la paura della solitudine (non a caso il matrimonio sbagliato è stata la conseguenza della strategia dell’ultima spiaggia, in altri la crisi è dovuta all’incapacità di gestire i rapporti con l’ex-coniuge (per la legge “ex” è di troppo perché resta coniuge fino al divorzio), soprattutto se quest’ultimo è violento, fisicamente e/o legalmente: il debole vede come una montagna insormontabile tutte le difficoltà legali della separazione e la sua mancanza di forza calma rende difficile ogni contatto con l’ex-coniuge.

La riduzione dei tempi richiesti tra separazione e divorzio ha determinato l’aumento del ricorso a queste pratiche
Separazione: perché no?
Abbiamo analizzato il dopo, occorre ora prendere in esame il “prima”: perché in condizioni evidenti a un osservatore esterno il soggetto ritarda o non concepisce nemmeno la separazione? Non occorre essere fini psicologi per elencare motivazioni (in questo caso veri e propri errori esistenziali) molto comuni.
Lo svogliato e il sopravvivente ritengono che la situazione, più o meno, sia vissuta da tutti, che è normale, in ambito matrimoniale, avere momenti difficili, che periodi di crisi capitano a tutti ecc.
Il debole e l’insufficiente sono magari disposti ad accettare l’inaccettabile (per esempio la violenza domestica), ma non hanno la forza sufficiente per “staccarsi”.
Il mistico (religione) e il succube (famiglia) non concepiscono nemmeno la parola separazione (o divorzio) e quindi sono pronti a “immolarsi”; così fa pure il romantico estremo dominato dall’idea del matrimonio come “giorno più bello della vita”. Per l’indeciso il passo è troppo radicale per essere compiuto, mentre per lo statico e il vecchio ogni cambiamento diventa più problematico che il problema stesso! L’insoddisfatto, abituato a non vedere comunque una luce del tutto positiva nella sua vita, si cristallizza nella condizione perché “tanto una vale l’altra…”
Quegli apparenti che vedono nel matrimonio un motivo di “successo sociale” sono pronti a tutto pur di “salvare le apparenze”. Più complessa la situazione dell’insofferente, la cui reazione alla mancata aspettativa di un matrimonio felice può essere un divorzio rapido, ma anche una negazione del problema.
I figli – Sembra tutto semplice, ma le cose si complicano quando ci sono di mezzo i figli. A prescindere dall’equilibrio del soggetto, c’è chi non divorzia “per i figli”, per evitare loro un trauma e un’adolescenza senza un genitore.
In realtà, molte situazioni di famiglie in crisi sono molto più traumatizzanti che una vita con genitori separati: mancanza d’amore, falsità, apparenza, per non parlare di odio o violenze. La situazione non è positiva nemmeno nelle famiglie dove i genitori cercano di convivere civilmente senza far pesare il loro distacco ai figli: il risultato di questa civile convivenza forzata è che i figli percepiranno che il matrimonio di per sé non è certo un valore e tenderanno a cadere nella posizione di chi lo vede comunque come una condizione penalizzante dell’esistenza.
I figli non devono diventare l’alibi per non dirsi la verità sulla propria unione; è importante capire che per loro una buona separazione è statisticamente migliore di una convivenza forzata; non è il divorzio che causa i problemi ai giovani:
i figli hanno problemi quando ereditano la capacità di crearseli dall’educazione ricevuta dai genitori.