L’emancipazione femminile ha praticamente compiuto cento anni nel 2018; infatti nel 1918 il parlamento del Regno Unito approvò la proposta del diritto di voto per le mogli dei capifamiglia sopra i 30 anni. Dieci anni più tardi, il suffragio fu esteso a tutte le donne del Regno Unito.
Le donne che ottennero il diritto di voto vennero chiamate suffragette (il termine suffragio significa anche “voto”) e da allora il termine indica ogni donna che lotta per il riconoscimento della piena dignità delle donne (in parte coincide con il termine “femminista”).
Rimando alla fine dell’articolo un breve riassunto del movimento femminista, qui mi preme sottolineare che l’emancipazione femminile ha portato anche dei condizionamenti dai quali ogni donna dovrebbe comunque liberarsi.
Il più pesante condizionamento dell’emancipazione femminile è che “la donna deve lavorare”. In realtà il condizionamento l’ha ereditato proprio dagli uomini che “devono lavorare”.
Così nella nostra società da un lato si assiste al tentativo di gratificare la “casalinga” come una lavoratrice domestica (solita locuzione che tende ipocritamente a migliorare una condizione; riflettete: quando c’è bisogno di una locuzione migliorativa, si sta mentendo a sé stessi e a chi ascolta) e dall’altro si continuano a snocciolare le percentuali delle donne che lavorano, facendo credere alle donne che sono pari agli uomini quanto più la percentuale è maggiore!
Dove sta la verità? Ce lo dice la qualità della vita. Ecco le regole.
- Ovviamente una donna deve lavorare se lei e/o la sua famiglia ha bisogno del suo lavoro per mantenersi economicamente. Attenzione: mantenersi non significa “potersi permettere questo o quello”. Una donna che lavora solo per avere la casa più bella è sì uguale all’uomo che si ammazza di fatica per avere il macchinone o per pagare le rate del mutuo ventennale della casa, c’è uguaglianza, ma la qualità della vita decade. Nel caso che il lavoro sia necessario alla sussistenza economica, ecco il caso in cui l’emancipazione femminile deve salire in cattedra e far presente che donne e uomini devono essere trattati nello stesso modo.
- Una donna che può permettersi di non lavorare (lo fa già il compagno che da solo riesce a mantenere bene la famiglia, vive di rendita ecc.) se ha oggetti d’amore (se non li ha sarebbe opportuno che se li crei!) dovrebbe scegliere un lavoro non penalizzante con un indice di qualità molto vicino a 100.
Il punto 2 è quello che spesso mostra i condizionamenti dell’emancipazione femminile. In moltissimi casi si scopre che il lavoro scelto penalizza gli oggetti d’amore, rappresentati dal partner, dai figli, da altre passioni. Il lavoro apporta problemi, toglie tempo. Va da sé che qualunque donna che ama il proprio figlio vorrebbe passare più tempo possibile (se si ama qualcosa non ci si stanca di esso, vedasi Don’t let the sun go down on me) con lui: che senso ha lavorare se può non farlo? La risposta classica (è questo il condizionamento dell’emancipazione femminile) è che “il lavoro mi realizza”. Il lavoro diventa necessario per stimarsi socialmente e questo, dal mio punto di vista, è grave perché va in controtendenza con lo scopo della vita, viverla al meglio.
Ritornando alla nostra casalinga, la sua scelta è molto più intelligente di quella di altre donne che, scegliendo un lavoro non necessario, penalizzano la propria vita. La gestione della coppia è molto complessa, non conta solo chi lavora all’esterno della casa! L’articolo vuole rivalutare la figura della casalinga proprio perché molte donne, denigrandola, sono andate a stare peggio. Una casalinga non fa ciò che gli pare, ma lavora per la coppia, il suo lavoro è per la famiglia. Si noti che vale anche il duale, di coppie dove è la donna a mantenere la famiglia e l’uomo che si adatta a gestire la casa, magari con un lavoro part-time più modesto. La qualità della vita di entrambi sarebbe migliore e non è questo lo scopo della vita (e della coppia)?
Ovviamente intendo una casalinga moderna, non quella che passa 25 ore al giorno a pulire e a lavare, ma quella che gestisce in modo efficiente tutto ciò che riguarda la famiglia, avendo tempo poi per ciò che ama; paradossalmente il vecchio lavoro della casalinga si sposa con il concetto moderno del lavoro che cessa di essere un freno a ciò che amiamo.
Sento già le obiezioni di chi mi segue da tempo: ma con la scelta della casalinga, una donna non diventa “insufficiente“? Anni fa, quando vendetti l’azienda, trovai in città una mia conoscente che non vedevo da alcuni anni. Con una battuta, le dissi che avevo venduto l’azienda e ora ero disoccupato, in pensione. Con fare amorevole, lei mi disse:” non preoccuparti, vedrai che un altro lavoro lo trovi”. Le spiegai la battuta, che io non volevo trovare un altro lavoro, che preferivo godermi la mia semplice vita. Rimase perplessa.
Tornando al concetto di insufficienza, una persona lo è non perché non lavora, mantenuta da altri (in teoria anche uno studente universitario lo è, se mantenuto dai propri genitori), ma se, a torto o a ragione, pensa di non poter sopravvivere senza chi lo mantiene. Ovvio che ci sono casalinghe insufficienti (che non saprebbero fare altro) e altre equilibrate (che, se lasciate per esempio dal marito, si rimboccherebbero le maniche e troverebbero un’attività economica). Nel mio caso, se fosse stato necessario, non avrei avuto problemi a trovare un altro lavoro!

Il più pesante condizionamento dell’emancipazione femminile è che “la donna deve lavorare”. In realtà il condizionamento l’ha ereditato proprio dagli uomini che “devono lavorare”
Emancipazione femminile: il movimento femminista
Secondo molti autori la storia del movimento femminista inizia nel XIX secolo (anche se non si può dimenticare la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” di Olympe de Gourges, risalente al 1791, quando la Rivoluzione francese era al suo apice); si tende a dividerla nelle cosiddette “ondate” (più semplicemente si può parlare di “generazioni”). Ogni ondata femminista ha avuto metodi differenti e differenti priorità e, ovviamente, differenti protagoniste.
La prima ondata del movimento femminista è rappresentato dalle suffragette; il termine indica le appartenenti a un movimento di emancipazione femminile il cui scopo principale era quello di ottenere il diritto di voto per le donne. Il movimento delle suffragette ebbe il suo epicentro nel Regno Unito, nella seconda metà del XIX sec. (nel 1865 nacque un primo comitato, ma la data “ufficiale” della nascita del movimento viene considerata il 1869, anno in cui il movimento diventò di portata nazionale). La principale battaglia delle suffragette era l’estensione del diritto di voto, ma si iniziò anche a parlare della parità fra uomini e donne nel diritto di famiglia. Il primo Paese che concesse il diritto di voto anche alle donne fu la Finlandia (1906); in Gran Bretagna ci si arrivò nel 1918, negli USA nel 1920; andò peggio alle donne italiane e a quelle francesi che dovettero attendere il secondo dopoguerra.
La seconda ondata viene fatta risalire agli anni ’60 del XX sec.; l’epicentro stavolta sono gli USA; il boom economico del dopoguerra, che fu decisamente superiore a quello europeo, contribuì non poco al rinnovamento della società; c’era voglia di grandi cambiamenti e le donne volevano esserne parte attiva; erano state loro a sostituire gli uomini che erano impegnati nel conflitto. I temi ovviamente sono diversi; si inizia a parlare di problematiche che fino ad allora erano praticamente tabù: sessualità (la pillola anticoncezionale viene messa in commercio nel 1961), violenza domestica, parità di genere sul posto di lavoro ecc.
Negli anni ’70, il movimento femminista comincia a farsi strada anche nel nostro Paese; si inizia a parlare di tematiche particolarmente impegnative fra cui quelle del divorzio e dell’aborto; ma anche il diritto di famiglia andava rimodernato; basti pensare che le disposizioni sul cosiddetto delitto d’onore (pene ridotte a chi uccideva la moglie adultera) sono state abrogate soltanto nel 1981.
La terza ondata inizia negli anni ’90; se sulla carta, in moltissimi Paesi (soprattutto quelli occidentali), donne e uomini hanno stessi diritti e doveri, di fatto sono ancora presenti discriminazioni: maggiori difficoltà per le donne che intendono fare carriera, stipendi mediamente più bassi e molestie sul posto di lavoro.

Negli anni ’70, il movimento femminista comincia a farsi strada anche in Italia