Le seguenti riflessioni vogliono rispondere alla paura della morte che attanaglia molte persone. La cosa più difficile è vivere bene la propria vita; c’è chi pensa di esserci riuscito e di aver tracciato strade in cui altri invece non si sono ritrovati, chi continua a cercare senza vedere e chi ha perso ogni speranza di felicità. A poco a poco s’invecchia, inevitabilmente nel corpo, ma quel che è più grave nello spirito, il sintomo più evidente che quella strada che si cercava non la si è trovata. Sono pochi quelli che amano intensamente la vita, che non si stancano mai di essa, che sorridono sempre senza difficoltà e che non cambierebbero la loro esistenza con quella di nessun altro. Sono quelli che amano in ogni loro attimo, non importa cosa, se un Dio o una musica assurda; a riprova di ciò sta il fatto che anche loro, quando si dimenticano di avere qualcosa da amare, cadono nei problemi e intristiscono, complicandosi tutto.
Mi accorsi di aver trovato la mia strada quando un giorno una persona che voleva a tutti i costi coinvolgermi in un discorso profondo mi chiese perché la paura della morte non mi angosciasse.
“Paura della morte? Ho troppe cose da amare per pensarci. Il segreto è dimenticarla”.
Un oggetto d’amore genera uno scopo (esempio: la madre che vuole crescere al meglio suo figlio; l’artista che vuole comporre un’opera immortale ecc.). Il ragazzo dell’aneddoto seguente deva recuperare un goal. Quello è il suo scopo che gli fa dimenticare la morte. Un oggetto d’amore ti prende a tal punto che ti anestetizza con gli scopi che ti impegnano. Nel sito faccio spesso l’esempio dei due scacchisti che, durante il terremoto del Friuli, rimasero in sala a finire la partita (il loro scopo). La presenza di uno scopo è anche quella che differenzia semplici hobby dagli oggetti d’amore.

La paura morbosa della morte è detta “tanatofobia” (dal greco thanatos, morte, e phobos, paura)
La paura della morte
L’uomo camminava lentamente sul viottolo che costeggiava la sponda bassa del fiume, riposando lo sguardo nell’ampia distesa di verde alla sua sinistra. Era solito passeggiare un po’, appena uscito dal lavoro, un piccolo premio che si concedeva dopo le fatiche della giornata. Ci si trovava bene in quel posto e a volte coltivava la pazza idea di restarci fino a sera, quando il buio avrebbe confuso ogni cosa, il fiume, la terra, gli alberi e i contorni della città.
Sapeva invece che a casa l’attendeva la famiglia, una moglie e due figli, gli esseri che, insieme al lavoro, gli davano la fierezza che era anche la sua forza. Spesso, durante quella passeggiata, era solito fare il bilancio della sua vita e da diversi anni ormai arrivava alle stesse, certe conclusioni: aveva fatto tutto per bene, raggiungendo gli obbiettivi che si era prefisso quando all’università aveva scelto la sua strada. Nonostante ciò, non riusciva ad accettare che quegli obiettivi fossero l’unico premio per essere invecchiato, forse aveva fatto tutto troppo meccanicamente, limitandosi a seguire delle convenzioni che a lui non s’addicevano: ora che i figli crescevano e incominciavano a scegliersi la propria vita, iniziando quel lento, ma inesorabile processo d’allontanamento dai genitori, ora che il lavoro gli pesava perché non aveva più grosse prospettive, ora che la moglie non gli dava più le emozioni di vent’anni prima, si trovava spaesato.
Con un amaro sorriso, ricordando un quadro di Gauguin che lo aveva sempre affascinato, si chiese da dove venisse, chi fosse e dove andasse. L’incapacità di rispondere lo inebetì in un’angoscia senza soluzione e divenne una statua che gettava uno sguardo senza speranza su un gruppo di ragazzi che giocavano a pallone.
Passarono alcuni minuti. Dal gruppo di ragazzi si levò un brusio più forte: un tiro maldestro aveva lanciato il pallone verso il fiume. Dopo i primi rimbalzi, l’erba ne aveva spento via via la corsa finché la palla non si fermò ai piedi dell’uomo. La statua si mosse, ritornò umana e raccolse la palla, mentre un ragazzo si era staccato dai compagni per recuperarla.
Quando fu di fronte all’uomo, questi, a sorpresa, mostrandogli la palla, lo interrogò: “dimmi: sai chi sei, cosa ci fai al mondo, sai cosa c’è dopo la morte?”
Il ragazzo lo guardò con una diffidenza un po’ scocciata, ma elaborò una risposta che non ammetteva repliche: “No. Ma abbiamo già perso tre partite e dobbiamo recuperare ancora un goal nella quarta, prima che faccia buio. Se mi dà il pallone…”.
L’uomo si stizzì per quella risposta, gli venne voglia di scagliare il pallone nel fiume, spiegando al ragazzo quanto fosse stupido a non affrontare certi temi. I loro sguardi si incrociarono come in un duello di spade finché gli occhi semplici del ragazzo trasformarono la violenza dell’uomo in una luce calda che dissolse tutte le sue masturbazioni mentali. Aveva capito che lo stupido era sempre stato lui, che le sue domande erano futili, inutili e assurde per chi aveva qualcosa da amare. Qualcosa che a lui era sempre mancato, tutto intento a vivere come gli altri.
E pose gentilmente il pallone al ragazzo.