Si può morire in tanti modi, ma molti non sanno che da vivi si può morire dentro. Da un brano di una mail:
Ora i miei genitori sono entrambi anziani e in un qualunque momento potrebbero non esserci più. Non so se si può essere preparati a questo evento. Io credo di non esserlo e la religione devo dire non mi è di grande conforto. Come sai ho quasi cinquanta anni, sono felicemente sposato, ho dei figli e non ho problemi di carattere economico nel senso che ho una casa di proprietà, un lavoro che mi permette di vivere bene, ma mi fa paura immaginare di non averli più fisicamente, affettivamente e di non poter più avere una sicurezza alla spalle. È chiaro che in questo emerge la “paura”, il senso di “insicurezza” e forse la “scarsa autostima”. Dimmi come posso migliorarmi per essere pronto.
Notevole il coraggio di ammettere che la religione spesso non è che una droga con cui gente non top cerca di superare le proprie debolezze, senza dignità: ho paura della morte, mi creo un Dio che mi farà vivere in eterno. Bella illusione, alla quale però intimamente solo pochissimi credono (infatti molti credenti poi della morte hanno comunque paura o, se muore una persona a loro cara, piangono: perché piangere se c’è la vita eterna?).
La morte dei genitori può essere gestita nell’ottica del distacco. Per il Personalismo il fatto che ancora ti diano sicurezza è indice che il distacco non c’è stato. In tutta franchezza, io non mi sarei mai sposato se avessi ancora avuto bisogno dei miei genitori per “avere sicurezza”. Sono convinto che troppe persone, se facessero il test che c’è alla fine della pagina sui genitori, risponderebbero 2. Per me è stato normale rispondere 3 proprio quando sono diventato adulto perché mi sono reso conto che non avevo più bisogno dei genitori per vivere. Fra l’altro, chi vuol essere un buon genitore, deve sperare che un giorno i suoi figli non abbiano bisogno di lui perché ciò significa che saranno diventati forti. Cosa che non vuol certo dire che non lo ameranno più.

Oltre alla morte fisiologica esiste anche una morte psicologica
L’altro punto che ci fa temere la morte dei nostri cari è la concezione che la vita sia comunque un bene assoluto, da salvaguardare a ogni costo. Purtroppo non teniamo conto della qualità della vita, cosa che per altre culture è fondamentale (cito spesso l’esempio del capo indiano che, non più utile a sé e alla sua tribù, prende la coperta e se ne va sulla montagna a terminare la sua esistenza).
Morire dentro: non si muore quando il cuore cessa di battere, ma quando non si ha più la possibilità o la capacità di gestire oggetti d’amore.
Come si può morire dentro
Mio padre morì un giorno d’autunno quando, ormai minato dall’enfisema, mancò una lepre. L’avevamo cercata per tutta la mattina, io che battevo la campagna, lui che l’aspettava al varco seduto sullo sgabellino portatile che ormai era suo compagno inseparabile. L’avevo trovata in un bosco giovane di pioppi e levata con i piedi; incredibilmente non gli sparai, come se inconsciamente avessi realizzato che sarebbe finita in bocca a mio padre, un tiro facilissimo. Tre spari inutili e fu l’ultimo giorno che venne a caccia. Quando morì un anno dopo non fui triste perché lo ero già stato in quel bosco.
Mia madre è sempre stata una donna molto attiva, finché un giorno, superati gli ottant’anni, decise, secondo un’antica concezione della vita, che era vecchia e che gli altri dovevano occuparsi di lei anche nelle cose più semplici e banali. Passò gli ultimi anni in una residenza per anziani, apparentemente felice di essere trattata come in un hotel, rassicurata dal fatto che aveva ben due medici (per fortuna è sempre stata sanissima) sempre a sua disposizione. Quand’era attiva aveva molte passioni, fra cui quella di preparare quantità industriali di ravioli. Un giorno decise che era troppo vecchia per “fare i ravioli” e, virtualmente, morì. Quindi, quando è mancata non fui disperato o impreparato. Il dolore dura un attimo, vinto dalla dignità di andare avanti, di mettere in pratica ciò che di buono ci hanno insegnato, di amare altre persone in una continua trasmissione del messaggio della vita.
Quando li ricordo, non lo faccio con angoscia, ma con il sorriso. E il rapporto continua, magari assaggiando in un ristorante un piatto di ravioli “che non sono come i tuoi” (ovviamente mia madre non è presente, ma è come se lo fosse) oppure portando un mazzo di fiori sulla tomba di mio padre, un mazzo un po’ strano fatto delle lunghe code dei fagiani della stagione; e mi viene da ridere al pensiero di come gli “altri” trovino offensivo quel dono in mezzo a tanti bellissimi e impersonali omaggi floreali, ma in fondo “tu ne saresti onorato”.
In fondo a me bastanon morire dentro, partecipare e aver partecipato al test di personalità di Albanesi, non ho la pretesa di essere eterno. è come quando giochi a basket e l’allenatore ti butta in campo. Titolare o riserva, tu dai il massimo, senza pretendere di giocare per sempre, tutta la partita.