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Traslazione dello scenario

La traslazione dello scenario è un errore razionale molto grave, talmente comune che è accettato da tutti senza la consapevolezza che è la causa principale di molti dialoghi improduttivi.

Le regole del dialogo perfetto

Se volete imparare a dialogare correttamente e con successo con le persone dovete imparare 4 regole fondamentali:

Quando siete voi a parlare:

1) Verificare che le proprie argomentazioni non contengano errori razionali o contraddizioni (check-up della coerenza).

2) Evitare la traslazione dello scenario.

Quando rispondete:

1) Confutare direttamente le argomentazioni dell’interlocutore evidenziando errori razionali o contraddizioni (per esempio con l’uso del Ma se…).

2) Evidenziare la traslazione dello scenario.

La causa della traslazione dello scenario

Supponiamo che la nostra argomentazione sia molto stringente, valida, inattaccabile. Il soggetto avverte più o meno consciamente che non può contestarci (trovando una falla nel nostro ragionamento) e allora trasla lo scenario portandosi in uno dove ha “sicuramente” ragione. Poi usa una logica del tipo “se ho ragione nel nuovo scenario, ho ragione anche nel vecchio”.

La traslazione dello scenario è il “trucco” che gli avvocati usano per screditare un testimone: se è “poco attendibile” (spacciatore, prostituta, soggetto con ritardi mentali, bambino ecc.) non ha detto la verità perché in altri scenari non l’ha detta o non la direbbe. Si tratta di un esempio di argumentum ad hominem: Tizio afferma la tesi X; si scredita Tizio -> X è falsa.

Una variante dell’argumentum ad hominem è la circumstantiam ad hominem, dove la traslazione è fatta non sulla persona, ma su una situazione che la persona sta vivendo: Tizio afferma la tesi X; si scredita ciò che è legato a Tizio (per esempio l’ambiente in cui vive) -> X è falsa.

I politici usano la traslazione dello scenario quando, messi alle strette di fronte a un successo innegabile degli avversari, non riescono ad astenersi dal citare una sfilza, a loro dire, di insuccessi: “sì, è vero che il prodotto interno lordo è aumentato, ma cosa dire dei diritti civili?”.

Se si analizzano i commenti in Rete, si scopre che le persone hanno gravi difficoltà a controbattere tesi anche scorrette e ricorrono sempre alla traslazione dello scenario; si può dire che questo comportamento è un atto di accettazione della superiorità intellettuale dell’altro: “non so contestare quello che dici, ma in quest’altro scenario ho ragione io”, ragione che comunque è tutt’altro che dimostrata.

Traslazione dello scenario

La traslazione dello scenario vanifica il dialogo

Un esempio

Si supponga di analizzare il seguente ragionamento:

Il non credente può essere una brava persona? Se sì, la religione rivelata non è necessaria, se no, essa è integralista.

Il ragionamento non lascia spazio a scappatoie; l’unico modo che il credente ha di non professarsi integralista è di usare una traslazione dello scenario. Fra l’altro, non ci sarebbe nulla di male, da un punto di vista strettamente religioso (per esempio, per i musulmani chi non crede è un infedele), ma i più, capendo che “integralista” ha una connotazione poco positiva, anziché ammettere che il ragionamento è corretto, iniziano ad arrampicarsi sugli specchi.

Infatti traslazione dello scenario è spesso l’equivalente della locuzione comune “arrampicarsi sugli specchi”. Non a caso, chi usa la traslazione dello scenario non risponde direttamente alla domanda; chi invece non la usa risponde e poi, eventualmente, cerca una confutazione nelle deduzioni di chi gliel’ha posta.

Di seguito alcune traslazioni dello scenario relative al ragionamento proposto.

Colui che non crede in nulla direi di no.

Si trasla lo scenario dalla religione al non credente, praticamente si precisa e si risponde alla domanda, ma si evita di proseguire con la seconda parte del ragionamento. Premesso che credere tanto per credere è da creduloni, è ovvio che la traslazione serve solo per non arrivare alla conclusione “la religione rivelata è integralista: chi non crede in nulla è una cattiva persona!”.

Magari la religione aiuta ad essere qualcosa in più che delle semplici “brave persone”.

Si trasla lo scenario sui compiti della religione, di fatto non rispondendo (sì o no) alla domanda e concludendo il percorso logico che porta a una delle due sole possibili soluzioni.

Cosa vuol dire brava persona?

Qui si trasla lo scenario sul significato più generale dell’etica. Ovviamente per evitare di rispondere. Si noti come il ragionamento vale a prescindere dalla definizione di “brava persona”. L’interlocutore deve semplicemente rispondere se Tizio è o non è una (per lui) “brava persona”, una locuzione che tutti noi afferriamo quotidianamente.

Chi dice che il “vero” religioso debba essere integralista?

Qui, anziché seguire il filo logico proposto, si trasla su un altro (si risponde a una domanda con un’altra domanda) che è comunque facilmente smontabile: sono proprio le religioni rivelate (si prendano i dieci comandamenti nella parte che impongono il rispetto di Dio) che definiscono cattiva persona chi non segue i dettami della religione.

Io sono integralista e sono un’ottima persona, faccio del bene e non faccio del male a nessuno.

La traslazione evita la risposta “no, per me un credente non può essere una brava persona”. Fra l’altro, il soggetto farà anche del bene, ma può solo illudersi di non far del male a nessuno perché comunque il suo integralismo gli fa ritenere un delitto ciò che per altri è un diritto (per esempio i matrimoni omosessuali).

L’integralismo è credere soltanto alla propria idea rendendola indiscutibile.

Traslazione sul significato di un altro termine. Il soggetto dà una definizione giusta per aggirare la domanda. Se ho dei dubbi sulla mia religione (cioè la discuto), di fatto sono parzialmente un non credente (se credo che al 90% Dio esista vuol dire che al 10% credo che non esista!) e, come tale, non sono integralista (notare che dicendo “sono credente” mento a me stesso per il 10%). Ma questo che c’entra con il ragionamento? Dove si evidenzierebbe l’errore logico del ragionamento?

Dare un senso alla propria vita dopo la morte, secondo me, ci rende migliori.

Ancora una traslazione sul concetto di “brava persona” e sui parametri per essere migliori di altri. Si evitano la domanda e il ragionamento. Quindi chi dà senso alla propria vita è migliore e chi non lo dà è una persona meno “brava”? Fra l’altro, si noti come la paura della morte spinga il soggetto a creare Dio.

Non è vero che chi dà un senso alla propria vita con una religione rivelata deve seguirla con coerenza e ritenere un non credente una cattiva persona.

Qui si riformula la domanda traslando lo scenario su una versione buonista e falsa della religione, creata a uso e consumo del soggetto che, per non vedere le incoerenze, stravolge la realtà. Nelle religioni rivelate non si ammette la bontà del non credente (per esempio, nel Vangelo, parlando a Nicodemo, Gesù spiega che “chi non crede è già stato condannato”, Giovanni 3,18).

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