Il principio di convergenza è una strategia raziologica (Albanesi, 2013) che permette a due posizioni, apparentemente inconciliabili, di trovare un punto di incontro. Consiste nel rendere continua una logica a due valori, introducendo una grandezza (grandezza di convergenza) che, anziché assumere un numero finito di valori (di solito due, corrispondenti al sì/no), può assumere un numero infinito di valori in un certo intervallo. Normalmente tale grandezza opera in un intervallo tale che i suoi valori estremi corrispondono alle due posizioni binarie (sì o no). Il principio di convergenza mi ha sempre permesso di mediare fra posizioni distanti e di far ragionare parti fra loro apparentemente incompatibili; dovrebbe essere il principio cardine della politica in un Paese democratico dove spesso le parti si confrontano perorando concetti apparentemente opposti. Purtroppo quello che invece accade è che si va alla ricerca del compromesso senza prima identificare la grandezza di convergenza, spesso con grande spreco di tempo.
Ovviamente la sua applicazione dipende dalla capacità di individuare la grandezza corretta, ma in genere non è difficile. Mi piace citare come esempio la vicenda di Hong Kong, colonia britannica: in piena guerra fredda si poneva il problema della sua riammissione alla Cina. Sì o no? La vicenda fu risolta individuando un parametro (dopo X anni) che in pratica riassumeva le due posizioni (X=0, subito, era uguale a sì; X=1.000, praticamente mai, era uguale a no). Nel 1984 Gran Bretagna e Cina si accordarono per X=13 anni con altri ulteriori 50 anni dopo X di grande autonomia dal governo centrale cinese. Un altro esempio è presente nell’articolo che tratta dello ius soli.
L’art. 18 dello statuto dei lavoratori
Per concludere, un argomento sul quale pare difficile trovare una grandezza di convergenza. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300) si applica solo alle aziende con almeno 15 dipendenti e afferma che il licenziamento è valido solo se avviene per giusta causa o giustificato motivo.
Nel 2012, nel tentativo di superare tale articolo, anziché applicare il principio di convergenza, si sono introdotte tre forme di licenziamento: discriminatorio, disciplinare (può avvenire per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo), economico (può avvenire per giustificato motivo oggettivo). La modifica non ha sortito alcun esito positivo sul mondo del lavoro perché, di fatto, per licenziare un dipendente al di fuori del vecchio art. 18 risultava comunque molto complesso, anzi la diversificazione delle forme di licenziamento era un “cavillo” giuridico nel quale era facile perdersi. La riforma del 2012 ha avuto comunque il pregio di identificare (senza una piena coscienza) la grandezza di convergenza: l’indennità risarcitoria.
Applicando il principio di convergenza l’articolo può essere riscritto semplicemente (la semplicità non piace ai politici) in questa forma:
se il licenziamento avviene per giusta causa o giustificato motivo nessuna indennità è dovuta al lavoratore; altrimenti, per qualunque motivo avvenga il licenziamento, è dovuta un’indennità risarcitoria pari a X mensilità.
In altri termini, massima libertà di licenziare, ma il datore di lavoro all’atto dell’assunzione si assume l’onere di un’eventuale indennità risarcitoria.

Il principio di convergenza è una modalità dinamica e alternativa di raggiungere accordi laddove sembri impossibile
Dal punto di vista legale, l’eventuale ricorso all’autorità giudiziaria è limitato solo alla giusta causa o al giustificato motivo oggettivo, senza entrare nel merito di altri mille motivi.
Prendiamo due comportamenti classici. L’imprenditore dal “grilletto” facile dirà che lui vuole avere libertà di licenziare senza versare un euro; il sindacalista classico dirà che il diritto del lavoratore al lavoro va tutelato e che l’art. 18 deve rimanere tale e quale. Se di fronte alla nuova versione, entrambi mantengono la loro posizione estremistica, vuol dire che hanno condizionamenti tali da impedire loro di ragionare. Infatti la posizione dell’imprenditore “padrone” equivale a porre X=0, mentre quella del sindacalista classico equivale a porre X, diciamo, uguale a 360 (30 anni di lavoro!).
Ora quale lavoratore capace di intendere e di volere non accetterebbe di essere licenziato anche per motivo discriminatorio (magari perché tifoso della squadra odiata dal suo capo) se gli venissero corrisposti 30 anni di lavoro?
Quindi sul nuovo articolo ci si deve confrontarsi e decidere quale X è corretto: il problema da binario (sì/no) è diventato discreto. Da un punto di vista pratico tale valore dipende dal particolare momento economico, dagli indici di disoccupazione ecc. Per capirci, X deve essere fissato in base al tempo medio che il soggetto ha di trovare un nuovo lavoro (non necessariamente equivalente a quello precedente) poiché appare evidente che, se un lavoratore viene licenziato, ma non riesce più a trovare un nuovo impiego, evidentemente il problema non è l’azienda, ma la sua totale mancanza di competitività nel proporsi nel mondo del lavoro.
Per questo tipo di lavoratori ormai superati dal mercato appare sensata l’ipotesi di reddito di cittadinanza anziché quella di obbligare un’azienda ad assumersi l’onere di un soggetto fuori mercato.
NOTA – Si osservi come la posizione espressa in questa pagina non appartenga né alla sinistra classica (non deve esserci libertà di licenziare), né alla destra classica (se il lavoratore viene licenziato il problema è suo, nessun reddito di cittadinanza), è una posizione moderna. Purtroppo in Italia, spesso, la politica non è moderna.