L’intuito è quel tipo di conoscenza immediata che non si avvale del ragionamento o della conoscenza acquisita, mentre la ragione è l’insieme delle facoltà tramite le quali l’uomo è in grado di pensare, stabilire rapporti e connessioni tra le idee, esprimere giudizi, discernere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto. Dai tempi di Aristotele, genericamente la ragione si contrappone alla conoscenza intuitiva (intelletto). L’etimologia del termine ci dice che intuito deriva dal latino intuitus, l’atto di guardare o vedere dentro. Sinonimi di intuito sono per esempio fiuto, intuizione, istinto, perspicacia, prontezza. In realtà, questa visione classica deve essere corretta e migliorata. Ciò che è sbagliato nella definizione è il termine immediata che può portare fuori strada in molte situazioni dove l’intuito è comunque fondamentale. Il confine fra intuito e ragione risulta però abbastanza fumoso per chi non decida di esaminarlo profondamente dal punto di vista filosofico; nella vita pratica ci si imbatte spesso in termini come “ragionevole” attribuiti anche a qualcosa che in realtà è essenzialmente intuitivo.
Molte persone considerano erroneamente intuitive posizioni razionali in cui mancano molti dati per una elaborazione logica o statistica; in molti scenari incerti la decisione non è intuitiva in senso classico, ma è semplicemente coerente con un’elaborazione veloce di tutti i dati che abbiamo. Supponiamo che prenda un treno in tarda serata. Salgo e mi si offre la possibilità di sedermi in due scompartimenti. Nel primo dormono alcuni giovani trasandati e un barbone, nel secondo ci sono una suora, un signore di mezza età che legge un libro e una giovane ragazza che ascolta musica con le cuffie. I dati sono sicuramente incompleti, ma molto probabilmente sufficienti a stabilire che nel secondo scompartimento avrei probabilisticamente meno problemi che nel primo; infatti, entro nel secondo senza pensarci su troppo.
Molti direbbero che sono entrato nel secondo intuitivamente. In realtà, ho elaborato velocemente i dati che avevo e, senza sentire la necessità di approfondire (il signore che legge potrebbe essere un killer mentre i tre giovani trasandati potrebbero essere pacifisti a oltranza), ho scelto razionalmente e non intuitivamente (in senso classico). Si tratta quindi di un’elaborazione veloce (magari approssimativa), ma non intuitiva (in senso classico).

“La mente intuitiva è un dono sacro” (Einstein)
Come interviene l’intuito nell’intelligenza razionale?
Come interviene quindi l’intuito nell’intelligenza razionale? Lo si comprende dalla constatazione che ogni applicazione dell’intelligenza razionale richiede un tempo di elaborazione.
(1) La razionalità consente l’uso dell’intuito quando il tempo di elaborazione sarebbe troppo lungo (penalizzante) ai fini della decisione.
Facciamo altri due esempi.
Pensiamo a un giocatore di basket in possesso della palla con la squadra sotto di un punto a cinque secondi dalla fine. Può decidere se tentare il tiro a canestro oppure, in quei pochi secondi, passare la palla a un compagno, magari meglio smarcato o miglior tiratore. La decisione non potrà che essere intuitiva in senso classico.
Devo andare in vacanza e posso scegliere fra due Paesi; potrei informarmi e trovare tutte le statistiche su incidenti in cui sono rimasti coinvolti turisti, per motivi di terrorismo, di criminalità o naturali (dagli tsunami all’attacco dei leoni nella savana). Mi ci vorrebbe probabilmente un sacco di tempo, tempo che economizzo usando l’intuito statistico (ved. Senso statistico) che mi dice che per esempio la Svezia è un posto più sicuro della Tunisia.
Ricapitoliamo i tre esempi:
- scompartimento del treno
- scelta del giocatore di basket
- scelta del Paese in cui andare in vacanza.
Nel primo caso non c’è nessun modo di arrivare a dati numerici oggettivi, concludendo che è sicuramente meglio scegliere lo scompartimento A, né si può dire che A è meglio di B nell’x% dei casi. Il nostro intuito, basato su dati ed esperienze più o meno consci, ci fa scegliere A piuttosto che B. Potremo parlare di intuito empirico (che proviene dall’esperienza).
Il secondo caso è quello in cui la definizione classica funziona. Parliamo di intuito immediato (classico).
Il terzo caso invece è quel caso in cui funziona il nostro approccio (1), mentre la definizione classica fallisce. Fallisce perché il termine “immediata” (relativo a conoscenza) è fuorviante. In realtà, non c’è nulla di immediato, scandito dai secondi, solo che non abbiamo la possibilità di accollarci il tempo di lunghe ricerche e analisi di dati. Facciamo molto prima ad affidarci al nostro intuito statistico, convinti di avere molto poche probabilità di sbagliare.
Notiamo comunque la differenza fra 1 e 3. In 3 aumentando il tempo di elaborazione si migliora (probabilmente di poco) la probabilità di non sbagliare, mentre in 1 una decisione troppo lunga potrebbe essere ininfluente o addirittura fuorviante o penalizzante. L’intuito empirico è a metà strada fra quello immediato e quello statistico (in fin dei conti so che in uno scompartimento di suore ho meno probabilità di avere problemi che in uno occupato da omoni tatuati). L’intuito immediato ha qualche relazione con l’esperienza, ma anche un giocatore con molta esperienza (e poca classe) potrebbe sbagliare decisione rispetto a uno con minore esperienza (ma più classe).
Gli esempi fatti dovrebbero convincerci che l’intuito non deve essere confuso solo con un’elaborazione veloce delle informazioni. Va da sé, che nei campi in cui serve esistono sicuramente individui più dotati di altri.
Un esempio di applicazione errata dell’intuito è l’amore a prima vista. A prescindere da altre considerazioni, nella stragrande maggioranza dei casi non esiste nessun motivo per non andarci con i piedi di piombo e procedere a un’acquisizione ulteriore di dati che ci permetta di decidere meglio prima di coinvolgerci.
Così possiamo concludere che chi crede nell’amore a prima vista sicuramente è poco razionale.
Strategie decisionali
Le strategie decisionali variano? Sicuramente sì. Dare la preferenza a una o all’altra forma decisionale è conseguenza del nostro apprendimento e dell’indirizzo che diamo alla nostra vita.
La frase “ha messo la testa a posto” significa spesso che il soggetto (in genere gli adolescenti sono più inclini all’intuito emotivo finché non prendono sonore mazzolate che li fanno diventare adulti) si è spostato verso la razionalità.
Anche l’apprendimento è importante. Un ragazzo che a scuola odia la matematica difficilmente avrà capacità logiche e razionali sufficienti: sarà piuttosto incline all’emotivo e a scegliere emotivamente. Ovvio che poiché l’apprendimento non termina mai, il nostro posizionamento sulla scala della logica è variabile nel tempo: ho conosciuto persone che sono diventate molto più razionali semplicemente per aver dato maggior spazio nella loro vita al calcolo delle probabilità e alla statistica o semplicemente alla lettura di opere a sfondo logico. Infatti, un ottimo metodo per potenziare la propria logica è studiare opere (anche divulgative) di logica matematica o di calcolo delle probabilità.
Il falso scienziato
Quello che abbiamo appena esposto può essere applicato al concetto di falso scienziato.
Il falso scienziato (pseudoscienziato) è un soggetto che applica alla scienza l’intuito emotivo.
Su consiglio di un mio amico ho letto il libro L’arcobaleno della vita di Richard Dawkins, un grande divulgatore scientifico. Il risultato è stato catastrofico perché alla fine non solo mi sono accorto di non aver imparato nulla (ciò che Dawkins racconta può essere interessante per chi non conosce nulla di fisica, biologia, astronomia ecc., ma basta una buona cultura liceale per conoscere gran parte di ciò che descrive), ma ho anche capito che la lettura mi aveva infastidito. Nel testo Dawkins se la prende spesso con chi tratta male la scienza e arriva a denigrare anche la serie televisiva X-Files perché troppo incline a parteggiare per il mistero. In realtà, non si accorge di essere lui stesso affascinato dal meraviglioso e dal fantascientifico, un “letterato (centinaia le citazioni di Keats, Coleridge e altri poeti inglesi) con il fascino per lo scientifico”: se si contano nel testo le parole ipotesi, teoria, potrebbe, pura speculazione ecc. si supera facilmente un numero a tre cifre. Dawkins cioè non fa scienza, ma espone teorie affascinanti che la sua carica emotiva vorrebbe che fossero vere. Non è molto dissimile da chi attribuisce un cerchio in un campo di grano a un’opera aliena solo perché affascinato dalla possibilità che gli alieni esistano (vedasi l’errore di interpretazione).
In realtà, ogni discorso in cui compare una proposizione emotiva ha valenza scientifica nulla.
L’ultima frase è molto importante per rispondere a tutti coloro che si sentono esclusi dalla scienza ufficiale.
Non si può far parte della scienza ufficiale se non se ne riconoscono le regole.
E la regola principale è l’impiego della logica. Esistono molte discipline mediche alternative che hanno qualche riscontro pratico (come l’agopuntura). L’errore di fondo dei sostenitori è di usare ancora le spiegazioni date migliaia di anni fa, anziché, con metodi logici e attuali, rifondare la disciplina con “nuove spiegazioni”. Ovvio che nel momento stesso in cui si usano concetti filosofici si è fuori dalla scienza ufficiale. Nessuno può scientificamente prendere sul serio chi, per esempio, parla di “anima”.
Ciò non significa che le conclusioni del soggetto non siano vere, ma non sono scientifiche perché non esiste nessuna dimostrazione dell’anima. Quindi non facciamo confusione fra filosofia, religione e scienza; quest’ultima se vogliamo è una disciplina molto arida (e perciò concreta!), come è dimostrato da personaggi come Einstein o come gli scopritori del DNA Watson e Crick, grandi cervelli capaci di sintetizzare e superare il lavoro di altri, forse troppo inclini a mischiare ragione ed emozione.
Basta citare il caso di Rosalind Franklin (nella foto), la prima a fotografare la struttura del DNA (1951); la sua relazione e i dati ricavati erano così pieni di ipotesi che l’emozione per la scoperta annegava nei fantastici sviluppi del lavoro. Due anni dopo, due baldi giovani nemmeno troppo inclini alla ricerca, Watson e Crick, non fecero altro che ripulire il lavoro della Franklin (che morì a 38 anni per il cancro contratto a causa delle radiazioni assorbite nel proprio lavoro), dedurne le logiche conseguenze ed esporre ciò che era certo e ormai noto. Vinsero il Nobel dieci anni dopo. Molti sostengono che la scelta a quei tempi era inevitabile, visto che il femminismo non aveva ancora ottenuto risultati tangibili; in realtà la Franklin (come del resto anche l’altro doppio premio Nobel, ma per altri motivi, Linus Pauling) non seppe mai estrarre dalla sua fotografia delle conseguenze “logiche”. E le conseguenze logiche fanno parte del “linguaggio” della scienza.
Quindi seconda regola:
se si vuol essere ascoltati da uno scienziato parlatene la stessa lingua.
Molti di coloro che si sentono oggetto di discriminazioni dovrebbero riflettere su questo punto: non sono gli altri che non vogliono starli ad ascoltare, ma sono loro a non farsi capire!