Il concetto di intelligenza emotiva è stato introdotto attorno agli anni ’90 del secolo scorso da interessanti correnti psicologiche che, partendo da basi neurobiologiche, vogliono porre le premesse per una qualità della vita migliore. Tali correnti si basano sulla suddivisione del cervello in due parti: quella più interna (cervello limbico) che controlla le emozioni e l’equilibrio fisiologico e quella più esterna (cervello corticale, neurocorteccia) che controlla le facoltà razionali. L’equilibrio fra queste due parti è quella che D. Goleman ha definito intelligenza emotiva. Fin qui nulla da eccepire. Sull’entusiasmo di queste scoperte, alcune correnti di pensiero propongono che l’intelligenza emotiva possa essere correlata con il successo nella vita del soggetto, successo inteso esistenzialmente. In realtà, non fanno altro che ripetere l’errore di Freud: studiare casi limite e supporre valide per tutti le scoperte fatte nel risolvere i casi studiati. Si chiama errore di allargamento del campione. Comprendiamolo con una semplicissima analogia. Un cardiologo stila delle regole di comportamento per un suo paziente affetto da un grave scompenso cardiaco:
- nessuna attività sportiva
- astensioni da attività lavorative troppo impegnative fisicamente e/o mentalmente (stress)
- abolizione del fumo
- alimentazione equilibrata e controllata ecc.
Notiamo come alcuni consigli possano essere validi anche per un soggetto sano (per esempio abolizione del fumo), mentre i primi sicuramente no: renderebbero un soggetto sano poco più di un vegetale. Sono sicuramente compatibili con una vita sana, ma a che prezzo? Allo stesso modo, le correnti emotive sembrano ottenere significativi successi nello studio di casi limite, cioè patologici. Se il soggetto valuta negativamente una situazione oggettivamente positiva perché la sua ragione soffoca le sue emozioni che la giudicherebbero positiva (esempio classico l’inibizione sessuale) oppure se le sue emozioni vanno in corto circuito e prendono il sopravvento (esempio classico l’attacco di panico) ecco che lo stato emotivo è negativo perché manca l’armonia fra le due componenti cerebrali. Sono questi i casi (soffocamento razionale e cortocircuito emotivo) in cui le teorie emotive raggiungono i risultati migliori, ma si tratta spesso di casi patologici, non di persone che vivono i “problemi della quotidianità”.
Le correnti emotive non si occupano minimamente di costruire la situazione ottimale entro cui l’equilibrio emozione/ragione possa essere positivo al massimo. Così facendo, trascurano una gran parte della realtà e finiscono per essere utili in un numero limitato di casi, quelli in cui sopravvivere è già una conquista! Per capire come sia riduttiva (o meglio, accademica, di chi non vede che una realtà “teorica”) la posizione delle correnti emotive basta pensare ad alcuni casi:
- Maria, figlia di un piccolo spacciatore e di una prostituta.
- Giovanni, con una moglie che lo ha sposato solo per una sicurezza economica e che ora lo tradisce in continuazione e dalla quale non può divorziare perché perderebbe gran parte di quel poco che ha.
- Mario, che ha perso il lavoro e non ne trova uno nuovo.
- Luigi, che ha una figlia anoressica e un’altra che non lo può sopportare.
Casi limite? Non poi così limite come si potrebbe credere. Pensiamo all’ultimo caso e ai dissapori fra genitori e figli: pensare che a un genitore basti trovare l’armonia interna per non “sentire” i problemi con i figli (problemi che magari dipendono dai figli e non dall’educazione loro impartita) è pura teoria che di fatto toglie ogni umanità all’uomo. Diventa perciò un insulto a chi soffre veramente pensare che basti “meditare” o fare esercizi di respirazione per trovare l’armonia dentro di sé. Forse può servire a far calare una saracinesca fra noi e i problemi (una sorta di anestesia), ma non certo a darci una vita felice. È per questo che le teorie sull’intelligenza emotiva non funzionano più di tanto percentualmente nella popolazione, gran parte della quale le vede come un gioco per intellettuali.
Se il soggetto ha un buon potere logico e dati esterni ottimi e l’ambiente è favorevole alla sua vita, l’equilibrio emozione-ragione lo porta a stati emotivi positivi e quindi l’integrale della felicità è positivo. Ma ciò non deve illudere perché percentualmente si verifica in rari casi, per esempio quello dei “guru”, personaggi che hanno una vita positiva con la sola ricerca del “dentro di sé” semplicemente perché hanno la fortuna di avere casualmente i tre sopraccitati fattori dalla loro parte. Per la maggioranza della popolazione non è così. E allora cosa ottengono le teorie emotive? Disinteressandosi del “fuori di sé”, al massimo fanno giungere il soggetto in uno stato neutro, di serenità (cosa importante per un malato psichico, ma non certo sufficiente per chi vuole vivere al massimo; come era importante per il cardiologo prolungare la vita del cardiopatico).
Del resto le recenti correnti neurobiologiche che spingono l’intelligenza emotiva non sono altro che la traduzione scientifica di molte discipline orientali che hanno come scopo la serenità piuttosto che la felicità. Dallo yoga alla meditazione, allo zen queste discipline insegnano a fronteggiare i problemi, a gestire le frustrazioni derivanti da situazioni negative che spesso si sono create perché il soggetto ha uno scarso potere logico e ha pessimi dati esterni. La conseguenza è che se il soggetto vive continuamente di problemi, al massimo l’integrale della felicità ha valore zero: il soggetto sopravvive, ma non vive! In altri termini, chi vive perennemente in situazioni critiche, stressanti ecc. al più controlla le emozioni negative, ma certo non ne ha di positive!
È per questi motivi che il successo di correnti psicologiche emotive, discipline orientali ecc. è massimo nei soggetti con seri problemi psicologici (la serenità è un grosso successo) o in soggetti che hanno una vita già abbastanza fortunata e si accontentano di vivere con i problemi di tutti, fronteggiandoli (invece che eliminandoli) alla meglio.

L’intelligenza emotiva è diventata oggetto di studio soprattutto a partire dagli anni Novanta con gli studiosi Peter Salovey e John D. Mayer
Guarire – David Servan-Schreiber
Ecco un’analisi critica di un’opera che è poi il testo di riferimento di una delle correnti che nascono dal concetto di intelligenza emotiva: Guarire (Guérir) di David Servan-Schreiber (1961-2011).
Il testo si prefigge di combattere il disagio esistenziale grazie allo studio dell’interazione fra cervello emotivo e cervello cognitivo, giungendo a definire sette metodi terapeutici particolarmente efficaci:
- controllo del battito cardiaco
- rimozione dei traumi del passato attraverso i movimenti oculari (EMDR)
- energia della luce
- agopuntura
- assunzione di acidi grassi omega 3
- attività sportiva
- comunicazione emotiva nonviolenta.
Già nella seconda puntata abbiamo visto i limiti delle correnti emotive e, per chi li ha compresi, il libro è una piccola delusione. Se potrà aiutare quella parte (piccola) di soggetti il cui disagio esistenziale dipende da una mancanza di equilibrio fra parte emotiva e parte razionale, sicuramente nel grande pubblico apporterà più danni che vantaggi. Infatti, la pretesa di ridurre tutto all’equilibrio cuore-cervello non farà altro che fornire un alibi a tutti coloro che usano male sia l’uno sia l’altro. Sono coloro che confondono l’equilibrio emozione-razionalità con il fatto che nella loro vita possano convivere ragione e passione, una volta prevalendo la ragione e un’altra la passione, senza nessuna armonia, semplicemente a caso. Questo, è chiaro, non è equilibrio: è conflitto perenne. In sintesi:
ragione e passione fanno solo confusione.
L’opera sostanzialmente è troppo ottimistica e può essere considerata semplicemente un punto di partenza, non d’arrivo, verso una visione del disagio esistenziale più approfondita e più complessa. Il limite maggiore è l’errore di base: l’allargamento del campione. Basandoci su rilievi clinici e su ricerche mediche, l’autore estrapola conclusioni valide per tutti quando in realtà sono solo interessanti indicazioni che possono aiutare una piccola parte della popolazione.
Senza entrare negli aspetti pratici di applicazione dei singoli metodi, vediamone i limiti.
Controllo del battito cardiaco – Il merito delle correnti emotive è l’aver dato una base scientifica a tutta una serie di terapie empiriche, sia orientali (meditazione) sia occidentali (training autogeno). La coerenza cardiaca è la spiegazione del perché queste teorie funzionino. Il limite delle tesi di Servan-Schreiber è di non aver minimamente indagato perché a volte non funzionano! Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che uno stato emotivo può dipendere non solo dall’equilibrio cuore-ragione, ma anche da altre tre variabili: ambiente, potere logico del soggetto, dati esterni.
Dall’esame di 1.800 schede di persone che in questi anni mi hanno scritto manifestando il loro disagio esistenziale, solo nel 18% dei casi si poteva parlare di mancanza di coerenza (o se vogliamo di mancata armonia cuore-cervello, per un soffocamento razionale o un cortocircuito emotivo); nel 12% dei casi il disagio nasceva dall’ambiente, nel 48% da un basso potere logico e nel 22% da dati esterni cattivi.
EMDR – È sicuramente il capitolo più interessante, ma è anche quello il cui campo d’azione viene limitato in maniera scientificamente corretta (“nella mia esperienza, questa tecnica funziona meno bene per sintomi che non affondano le loro radici in avvenimenti traumatizzanti del passato”).
L’EMDR (eye movement desensitization and reprocessing) utilizza i movimenti oculari e altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali. Si basa sull’ipotesi che quando avviene un evento “traumatico” viene disturbato l’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione e per il superamento del trauma.
Fra i metodi citati da Servan-Schreiber è sicuramente quello più clinico, cioè legato a grandi traumi. L’esempio di come un’interessante strategia clinica non riesca a essere efficace per “persone normali” in cui il disagio esistenziale non è necessariamente dovuto a grandi traumi o alla somma di piccoli traumi. La scarsa scientificità dell’approccio generale di Servan-Schreiber è legata a una frase che tradotta dal francese suona pressappoco così: “è possibile che la scoperta dell’EMDR trasformi la pratica della psichiatria e della psicanalisi”, lasciando intendere che possa essere utile anche al di fuori del DSPT (disturbo da stress post-traumatico, in francese ESPT). Invece l’EMDR è una tecnica applicata dai primi anni ’90, ma solo ai disturbi da stress post-traumatico. E gli addetti ai lavori continuano ad applicarla solo a questo tipo di disturbi.
Energia della luce e agopuntura – Sicuramente ci sono aspetti interessanti in queste due terapie, ma i capitoli sembrano scritti da chi non ha mai approcciato un discorso in modo distaccato, travolto dall’entusiasmo di un successo. Il citare qualche caso positivo (nel caso dell’energia della luce, uno solo!) senza chiedersi perché migliaia di altri casi non reagiscono è un approccio casuale, non scientifico.
Il fatto che la luce possa aiutare lo stato esistenziale del soggetto è noto, ma, se si quantifica l’importanza, si vede che, in soggetti normali, non può creare condizioni patologiche. L’agopuntura è stata utilizzata da secoli per la cura anche di patologie nervose, ma i risultati sono molto modesti. Non si può confondere la speranza (ragionevole) che conoscendola meglio possa effettivamente giovare con il fatto che già ora possa essere utile su grandi numeri.
Per esempio, citando il caso di Paul, l’autore dice chiaramente che non ha mai smesso di prendere l’antidepressivo, ma che i miglioramenti si sono avuti dalle prime sedute di agopuntura. È la chiara ammissione dell’effetto tempo: se solo una percentuale piccola di soggetti risponde all’agopuntura, è estremamente probabile che questa percentuale sia quella che avrebbe comunque mostrato un miglioramento, frutto dello scorrere del tempo o delle altre terapie che finalmente hanno avuto effetto.
Omega 3 e attività sportiva – Questi capitoli sono illuminanti e mostrano tutto il limite dell’opera di Servan-Schreiber. Da addetto ai lavori sia dello sport che dell’alimentazione, non posso che rilevare un esagerato ottimismo verso questi due fattori, comunque importanti. L’impressione è che l’autore sia rimasto vittima di chi gli ha proposto entusiasticamente queste due “terapie” e che le abbia sposate, amplificandone arbitrariamente i confini. Che gli omega 3 siano importanti non ci piove, che possano essere fondamentali in patologie psichiatriche anche, ma che possano risolvere una grande percentuale di disagi esistenziali di lieve entità è molto ottimistico. Sull’onda di molti articoli comparsi negli ultimi anni sui giornali, molti pazienti “minori” (cioè di forme non gravi) hanno assunto omega 3: il risultato è che puntualmente mi arrivava una mail del tipo “non ho avuto nessun giovamento dall’assunzione di omega 3, cosa posso fare per la mia depressione?”.
Anche per l’attività sportiva, la posizione dell’autore è da “inesperto”. In particolare non comprende che ci sono mille modi di fare sport e che, se fatto male, lo sport diviene un’attività stressante, come capita in moltissime persone non equilibrate. Anzi, il semplice consiglio di fare sport, in soggetti non equilibrati che decidono di provarci in maniera autonoma, si traduce spesso in un’ulteriore debacle esistenziale.
Comunicazione emotiva nonviolenta – Un’interessante strategia per i rapporti interpersonali che però funziona solo se il soggetto “cambia dentro”, si dà altre priorità, valuta diversamente la propria vita. Per Servan-Schreiber in situazione di conflitto esistono solo tre modi di reagire: passività (o passività-aggressività, tipica di quella che per il Personalismo è la personalità del debole, succube con i più forti e aggressivo con i più deboli), aggressività e comunicazione emotiva nonviolenta. In realtà non è che la traduzione dell’atteggiamento orientale di chi impara a gestire le persone con gentilezza, cercando ottenere il massimo dal rapporto. Non funziona. O meglio, funziona solo in circostanze dove il conflitto di fatto non esiste (quindi un certo miglioramento lo apporta), per esempio guidare l’auto nel traffico cittadino oppure parlare a uno sportello di un ufficio. Quando
- il conflitto esiste oggettivamente,
- l’altra persona usa l’aggressività ed è “impermeabile” alla nostra nonviolenza,
- il soggetto è rimasto debole,
a poco a poco esplode comunque, ricadendo in un’ansia micidiale. Ho più volte sperimentato la cosa con persone che cercavano di applicare la comunicazione nonviolenta in situazioni di oggettivo conflitto (fra me e loro). Essendo dotato di una forte personalità, infrangevo uno dei regolamenti cardine della comunicazione nonviolenta: non dare giudizi personali diretti, iniziando la frase con io, piuttosto che con tu o con lei. Non dicevo: “a mio avviso sarebbe opportuno …”, ma “la tua posizione è inaccettabile…”; morale: dopo pochi tentativi estremamente gentili, il “saggio zen” o lo psicologo “equilibrato” perdevano le staffe, diventavano rossi come peperoni, iniziavano a insultare ecc.; la loro vecchia natura era ritornata prepotentemente.
È evidente che la comunicazione nonviolenta funziona solo se tutti comunicano così, ma non si può pretendere che le persone modulino la verità solo per non ferirci. In sostanza: meglio imparare a diventare forti (e calmi) dentro che apparirlo fuori, applicando tecniche di comunicazione.