Rispondo a chi umanamente mi potrebbe chiedere: “ma come si fa a non essere delusi, se una gara preparata per mesi, va male?”.
Premetto che lo sport non deve essere la valvola di sfogo di un’esistenza non del tutto appagante (un runner pavese, Roberto Romano, rendeva ironicamente il clima di assurda tensione che c’era durante le nostre garette amatoriali gridando a tutti prima della partenza: “ragazzi, ho puntato tutta la stagione su questa gara, lasciatemela vincere!”) e che la gara è solo un pretesto per vivere i mesi di preparazione, nei quali la gioia di fare sport, di stare bene, di correre con gli amici ecc. deve essere il vero fulcro delle nostre azioni.
Detto questo ribadisco che il non saggio (insofferente) non ha in realtà un piano di riserva: inconsciamente lui “pretende” che la gara vada bene, ne ha bisogno. E pretese e necessità mal si sposano con il concetto di saggezza. Per capire quanto sia doloroso (e poco saggio) non avere un piano di riserva, un altro aneddoto dal mondo degli scacchi.
Anni fa, a un campionato sociale affrontavo un giocatore non particolarmente forte. Forse sottovalutandolo, mi trovai in posizione nettamente inferiore e in forte svantaggio di tempo (per chi non si intende di scacchi, ogni giocatore ha un tempo massimo per giocare le sue mosse nella partita, finito il tempo perde, anche se è in netto vantaggio). Ricorsi a una banale trappola, sperando che il mio avversario non la vedesse, tutto preso ad attaccare.
Per difendersi c’erano almeno un paio di mosse valide, ma nella foga dell’attacco ne preferì una che, secondo lui, doveva mettermi ulteriormente in ginocchio. Appena mosse, realizzai che potevo dargli scacco matto in una mossa, ma non mossi subito (la mossa vincente è Th6; il mio avversario penso non l’abbia vista perché sicuro che la Torre non potesse andare in h6, a causa del pedone in g7, che però è inchiodato dall’Alfiere in b2).
Volli mettere alla prova la sua saggezza e finsi di pensare, preoccupato. Mi accorsi subito che non aveva un piano di riserva perché diventava sempre più sicuro, si alzò e incominciò a parlare con un giocatore che aveva già finito la sua partita. Poi ritornò al tavolo e con soddisfazione guardò che sul mio orologio il tempo scorreva; non solo la mia posizione gli appariva disastrosa, ma mi restavano così pochi secondi che era praticamente certo che avrei perso per il tempo, se anche avessi resistito all’attacco. Quando mancava una manciata di secondi allo scadere del mio tempo, presi la Torre e detti scacco matto.
Il mio avversario restò allibito quando si accorse che era finita, che non poteva catturare la Torre. Dopo un secondo di paralisi sferrò un terribile pugno sul tavolo che poco ci mancò che si ruppe una mano. Poi scurissimo in volto, se ne andò senza salutare.
Notate la differenza: a differernza del principe di Condé la notte prima della battaglia di Rocroi, il mio avversario del torneo sociale penso non abbia chiuso occhio!