I sopravviventi sono la personalità critica più diffusa nella popolazione. Può essere utile accostare alla parte teorica esempi molto famosi, da tutti conosciuti; ne ho scelti due: Fantozzi e Willy Loman.
Alcune sere fa discutevo con un amico di come alcune serie televisive abbiano più successo di altre. Argomento non facile, ma alla fine abbiamo evidenziato un fattore che conta e che normalmente non è fra quelli menzionati classicamente: i personaggi principali sono personalità pure (secondo il Personalismo). Una condizione facilitante il successo è cioè che in qualche modo i protagonisti (o semplicemente il protagonista) abbiano tratti ideali; questo è molto facile da capire per i vecchi film di guerra o i film western dove l’eroe di turno era inossidabile.
Lo è un po’ meno per film ad ambientazione moderna: si noti per esempio come film d’autore pluridecorati alla fine non interessino nessuno quando passano in televisione o al cinema (cioè giudicati dal grande pubblico) perché il protagonista è un personaggio troppo comune, un mix troppo complesso di personalità.
Un esempio di quanto detto è il successo dei personaggi creati da Paolo Villaggio, Fracchia e Fantozzi. Il primo è la personalità pura del debole, il secondo quella del sopravvivente, direi il Sopravvivente. Ogni suo difetto è in qualche modo riconducibile alla sua mediocrità, al comportamento di chi nella sua vita ha implementato tutti i condizionamenti ricevuti per rimanere a galla in un’esistenza mediocre.
Ha una moglie trovata probabilmente con la strategia dell’ultima spiaggia, una moglie che non ama, ma con la quale ha costruito una famiglia con “i problemi di tutti”.
Poi ovviamente ha una figlia che è la classica dimostrazione che i figli non sempre danno la felicità, ma che è stata fatta per chissà quale motivo; e, quando diventa nonno, la nipote è peggio della figlia, una specie di naturale percorso verso la fine, tant’è che, divenuta adolescente, è la tipica ribelle che rifiuta i buoni consigli dei genitori e dei nonni che hanno fallito ogni azione educativa.
Il titolo di studio (ragioniere) è stato “capitalizzato” senza nessun obiettivo o creatività ed è servito solo a dare a Fantozzi un lavoro di una mediocrità assoluta, in una grande azienda dove il lavoratore non è che una formica al servizio di api regine che si limitano a farlo sopravvivere.
Che dire della cultura fantozziana? Un mix di tentativi di superare l’analfabetismo con scivoloni megagalattici sui congiuntivi.
Non va meglio con gli hobby che sono vissuti con le caratteristiche del sopravvivente perfetto: il tifo come sfogo dell’incapacità di vivere una vita propria, le vacanze come rivincita esistenziale ecc. Mitica la rappresentazione di Fantozzi davanti alla tv durante la partita della nazionale, un raggio di luce che in realtà non è che un farmaco con cui cercare di guarire la malattia incurabile della sua vita, la mediocrità. Altrettanto mitica la povera auto (rigorosamente da sopravvivente) che parte per le vacanze accompagnata dalla nuvola temporalesca che mai abbandona lo sfigato ragioniere. Al di là di queste classiche opportunità, solo i tentativi di essere normali come la patetica partita a tennis con Filini.
Titolo di studio, cultura, lavoro, moglie, figli, hobby ecc.: in ogni campo Fantozzi prende 10 alla scuola della sopravvivenza. Tutti ridono, ma non si accorgono che Fantozzi ce l’abbiamo dentro quando non arriviamo al massimo della qualità della vita. Avere un matrimonio da 6 vuol dire essere Fantozzi per 4/10; avere un lavoro da 6 idem ecc.
Non è facile scalzare Fantozzi dalla nostra vita, ma non provarci nemmeno ci rende proprio del tutto uguali al ragioniere e ridere di lui vuol dire ridere di noi stessi.
Morte di un commesso viaggiatore
Morte di un commesso viaggiatore è probabilmente l’opera più nota di Arthur Miller, drammaturgo, scrittore e saggista statunitense divenuto famoso, probabilmente, più che per le sue opere, per il fatto di essere stato uno dei mariti della mitica Marylin Monroe.
Il testo di Miller è imperniato sulla vita di Willy Loman, tipico esponente di quella classe sociale la cui unica ragione di vita è il raggiungimento della ricchezza e del successo, quella middle class statunitense che trascorre tutta la sua esistenza all’inseguimento del Sogno Americano.
La trama dell’opera è abbastanza semplice. Dopo un incidente d’auto, Willy Loman, un commesso viaggiatore di 63 anni, comincia a sentirsi più stanco, più vecchio, incapace di continuare a svolgere al meglio il suo lavoro che lo porta in giro per il Paese da ormai trentacinque anni; chiede quindi al suo datore di lavoro un posto fisso in ufficio, ma le cose non vanno come Willy sperava; non solo il suo principale respinge la sua legittima e comprensibile richiesta, lo licenzia addirittura. L’opera si dipana poi attraverso l’analisi di tutti i personaggi significativi della vita di Willy: la moglie, i figli, l’amico Charley, il suo datore di lavoro, la “donna” con la quale anni prima Willy aveva avuto una relazione extraconiugale ecc. Dopo la perdita del suo posto di lavoro, Willy vede tutto il suo mondo sgretolarsi a poco a poco.
Siamo alle battute finali, il dramma sta per consumarsi; Willy comincia a prendere coscienza dell’inutilità della sua vita, tutta trascorsa al servizio della sua azienda, della sua clientela, dei suoi figli, figli che peraltro sembrano regalargli nient’altro che delusioni. Willy è sopraffatto dall’angoscia, si vede invecchiato, bistrattato da quei datori di lavoro per cui tanto si era impegnato, il suo sogno è svanito, i suoi figli sono dei mediocri, sua moglie è destinata alla povertà. Willy prende allora una decisione estrema, decide di farla finita per sempre; se non altro, il suo suicidio permetterà, grazie all’assicurazione stipulata anni prima, una vita dignitosa all’unica donna che lo ha amato veramente, Linda, quella moglie che non saprà darsi pace del fatto che il marito si sia suicidato proprio nel giorno in cui avevano finito di pagare il mutuo…