La bocca sollevò dal fiero pasto è l’incipit del canto XXXIII dell’Inferno, il penultimo della cantica.
Prima di tutto merita fare una piccola introduzione relativa al canto stesso e ai suoi protagonisti.
Siamo nel nono girone, quello dei traditori; è il fondo dell’Inferno, caratterizzato da un lago ghiacciato alimentato dal fiume Cocito e suddiviso in quattro zone in base al tradimento perpetrato: Caina (traditori dei parenti), Antenora (della patria), Tolomea (degli ospiti), Giudecca (dei benefattori). Nel canto XXXIII le zone attraversate sono l’Antenora e la Tolomea, e i dannati sono immersi nel ghiaccio perché, durante la vita, hanno freddamente premeditato il loro tradimento e hanno rifiutato il calore della carità.
Il canto prende avvio da una scena cui Dante si era già trovato di fronte nel canto precedente: qui infatti egli aveva visto la testa di un dannato mangiare selvaggiamente quella di un altro e, spinto dalla curiosità, chiede il motivo di tanto odio.
Dunque il canto XXXIII inizia con la scena del dannato che, interpellato da Dante, solleva la bocca dal pasto bestiale, rivela la sua identità e inizia a raccontare la sua vicenda.
- La bocca sollevò dal fiero pasto
- quel peccator, forbendola a’ capelli
- del capo ch’elli avea di retro guasto.
Egli è il conte Ugolino della Gherardesca, di famiglia ghibellina e proprietario di molte terre in Maremma e in Sardegna; aveva ricoperto numerosi incarichi politici a Pisa e molti lo avevano accusato di aver favorito la fazione guelfa, capeggiata dalla famiglia Visconti, con cui aveva rapporti di parentela.
Dopo la sconfitta di Pisa nella battaglia della Meloria (1284) contro Genova, Ugolino, per dividere le forze degli avversari (i comuni di Genova, Firenze e Lucca), cedette alcuni castelli ai Fiorentini e ai Lucchesi, e questo atto gli verrà poi imputato come tradimento.
I ghibellini pisani, guidati dall’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, insorsero e Ugolino fu imprigionato nel 1288, insieme ai due figli e ai due nipoti, nella Torre della Muda, dove i prigionieri vennero lasciati morire di fame.
Ugolino rivela a Dante che il «fiero pasto» su cui si è scagliato è il cranio dell’arcivescovo Ruggieri. Avendo compreso che il suo interlocutore è fiorentino, il conte non ritiene di doverlo informare sui fatti storici relativi al suo tradimento, ma vuole rendergli noto il trattamento riservato a lui e ai suoi congiunti dall’arcivescovo.
Dopo qualche mese dall’inizio della prigionia, Ugolino fa un sogno che gli rivela il futuro; al risveglio, i figli piangono e reclamano cibo ma, giunta l’ora del pasto, l’uscio della torre viene inchiodato e, nei giorni successivi, i prigionieri muoiono uno ad uno:
- «Poscia che fummo al quarto dì venuti,
- Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
- dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?
- Quivi morì; e come tu mi vedi,
- vid’io cascar li tre ad uno ad uno
- tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
- già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
- e due dì li chiamai, poi che fur morti.
- Poscia, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno».
I critici sono concordi nell’interpretare l’ultimo verso nel senso di una morte dovuta alla fame: «più che il dolore, mi uccise la fame». È dunque da smentire qualsiasi interpretazione che insiste su un atto di cannibalismo del conte nei confronti dei figli.
Di seguito la parafrasi dei versi:
- «Quando fummo arrivati al quarto giorno,
- Gaddo mi si gettò ai piedi,
- dicendo: “Padre mio, perché non mi aiuti?
- Morì ai miei piedi; e come tu vedi me,
- io vidi gli altri tre morire ad uno ad uno
- tra il quinto e il sesto giorno; per cui io cominciai,
- già cieco, a brancolare su ciascuno,
- e per due giorni ancor dopo che erano morti li chiamai.
- Poi, più che il dolore, mi uccise la fame».

Dante e Virgilio sul lago ghiacciato alimentato dal fiume Cocito
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