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Chi vive sperando

Un proverbio italiano recita che chi vive sperando muore cantando. Questa versione è positiva, nel senso che “più si spera meglio è”; al limite, la speranza si confonde nel sogno e c’è chi, un po’ ingenuamente, sottolinea che “non si vive forse di sogni?”.

Esiste una seconda versione, totalmente opposta, negativa, che sostituisce il positivo “cantando” con il volgare “cagando” (i Litfiba cantavano Chi visse sperando, morì non si può dir, Gioconda, 1991).

Quale delle due versioni, ottimista o pessimista, è corretta? Nessuna delle due.

La versione positiva richiama principalmente una personalità critica: il romantico. Si tende a scambiare l’obiettivo (personalità equilibrata) con il sogno. Un grande esempio di questa scelta esistenziale è dato dalla novella di Maupassant, Lo zio Giulio.

Giuseppe vive a Le Havre con il padre Filippo, la madre Clarissa e due sorelle che non aspettano altro che il matrimonio per sfuggire alla loro condizione economica: piccoli borghesi che faticano ad arrivare a fine mese (i sopravviventi del XIX sec.). L’unico svago della famiglia (strategia del carcerato) è la passeggiata domenicale sul molo del porto cittadino, durante la quale si parla spesso dello zio Giulio, un fratello del padre emigrato in gioventù negli Stati Uniti che, nelle lettere al fratello, raccontava di aver fatto fortuna.

Ogni domenica, la famiglia vive nella speranza che lo zio Giulio ritorni con uno dei grandi piroscafi in arrivo dagli Stati Uniti e porti loro un po’ della sua ricchezza: “Eh, che sorpresa, se Giulio fosse lassù!”.

Finalmente una delle figlie si fidanza e la famiglia decide di permettersi una gita all’isola di Jersey, poco distante da Le Havre; sulla nave l’attenzione del padre è attratta da un vecchio marinaio lacero che vende frutti di mare ai passeggeri. Lo riconoscono, è lo zio Giulio; la delusione è cocente, ogni speranza è infranta, il padre Filippo esclama “che catastrofe!” e la famiglia si allontana furtivamente senza farsi riconoscere dal povero congiunto.

Chi vive sperando

Più si spera e meglio è?

La seconda versione è altrettanto scorretta perché di fatto boccia anche gli obiettivi, in una visione cupa e pessimistica della vita.

Per capire i limiti delle due forme di speranza è opportuno definire la speranza positiva, quella realistica.

La speranza positiva (realistica) è quella che si lega a:

  1. Un’informazione abbastanza precisa e dettagliata da poter essere utile.
  2. Probabilità di successo non marginali.

Il punto 2 è già ben descritto nella pagina che differenzia gli obiettivi dai sogni, mentre per il punto 1 basti pensare all’ottimistico slogan coniato nella prima ondata della pandemia 2020: “andrà tutto bene”. Senza sapere molto della malattia, delle possibilità della scienza di sconfiggerla in tempi brevi ecc., molta gente si limitava a sperare. Slogan poi del tutto scomparso nella seconda e terza ondata, quando dai 35.000 morti della prima si è arrivati a superare i 125.000.

Se la non adesione al secondo punto deriva spesso da una personalità romantica, il primo requisito non è verificato in presenza di una personalità irrazionale o semplicistica. Una delle manifestazioni più irrazionali della speranza è rappresentata dai festeggiamenti per il Capodanno, quando si spera in un anno migliore, spesso senza avere nessuna informazione utile sul futuro.

Infine, la speranza ottimistica può essere associata a una personalità indecisa che spera sempre di arrivare al massimo, quando non ha capito che sperare vuol dire rimanere immobili dove si è, perdendo tante opportunità.

La speranza pessimistica è invece tipica dell’insofferente o dell’insoddisfatto, ormai deluso dalle esperienze precedenti, incapace di elaborare piani di riserva, fissati su obiettivi più raggiungibili.

Speranza e religione

Una forma di speranza ottimistica è quella della religione. Che si creda nel paradiso o nella reincarnazione, fondamentale è sperare che ci sia qualcosa dopo la morte: l’uomo crea Dio come frutto della speranza di una sconfitta della fine. Una semplice analisi razionale (paradosso di Buechner) mostra che, se Dio esiste, sicuramente non si interessa alle sorti degli uomini e quindi non si vede perché debba preoccuparsi di renderli “eterni”. Si noti che, per avere più credito, le religioni rivelate (peraltro non compatibili fra di loro: se un cristiano fosse nato a Baghdad sarebbe islamico!) costruiscono miti e Chiese, liturgie e modi di vita quasi scaramantici (con “proibizioni” per esempio nell’alimentazione, nel sesso ecc.) per guadagnarsi la vita eterna.

Speranza e salute: il trucco del futuro

Salutisticamente, esistono processi, come l’invecchiamento (si pensi alle rughe) che sono tutto sommato molto lenti. Il trucco del futuro consiste nel pubblicare ricerche (spesso su media di dubbia credibilità, non certo sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali) che lanciano una soluzione affidandosi al fatto che per mostrare concretamente che non funziona si dovranno attendere anni, se non decenni. Se peroro l’uso di X per fermare l’invecchiamento, prima che la “bufala” sia scoperta, chi vende X potrà fare molti soldi speculando sulle speranze della gente. Il sistema corretto sarebbe quello di mostrare che su animali (magari biologicamente più simili all’uomo come i maiali) il tutto funziona: si prende un maiale di 12 anni (la vita media di un maiale è di 18 anni) e si mostra che non invecchia. Cosa che per ora nessuno è riuscito a fare.

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