In ambito podistico cosa si intende per capacità di sofferenza? Alcune premesse. Negli sport di resistenza e nella corsa in particolare sono molto noti sia il termine soglia che l’espressione capacità aerobica. A prescindere da differenti interpretazioni che a volte si danno dei due termini, si resta sempre nel campo della fisiologia dell’atleta. Non si può però trascurare che spesso la prestazione è frutto anche della psicologia, cioè delle capacità mentali del soggetto. Se una mente forte non trasformerà mai un ronzino in un purosangue (non a caso abbiamo usato la stessa frase che usiamo per il doping: chi pensa che con la mente si possa arrivare ovunque non fa che doping psicologico, spesso con effetti devastanti sull’atleta, soprattutto se amatore), è certo che per fare un campione ci vuole una mente forte. La definizione della fatica è al di fuori degli scopi di questo articolo (del resto nessuno è comunque mai riuscito a precisarla in modo completo e convincente), ma è possibile ottenere qualche risultato concreto introducendo definizioni più facili e a tutti comprensibili.
La soglia di sofferenza è la fatica psicologica massima che l’atleta accetta durante la gara.
La capacità di sofferenza è il tempo che l’atleta riesce a reggere alla fatica massima.
Sembrano definizioni piuttosto imprecise (fra l’altro non è possibile definire nemmeno delle unità di grandezza), ma sono molto importanti nel definire la psicologia del soggetto. Per esempio, molti sedentari giovani che affrontano il test del moribondo non riescono a superarlo perché hanno una bassissima soglia di sofferenza. Si può dire che tutti i soggetti soft hanno soglie di sofferenza basse.
La soglia di sofferenza può essere migliorata (partendo dal sedentario e arrivando allo sportivo evoluto):
- con la comprensione e l’adesione al concetto di forza di volontà anevrotica
- con l’allenamento fisico
- con un miglioramento dell’autostima
- con tecniche di allenamento mentale.
Nel caso di atleti professionisti o amatori evoluti è quasi scontata una buona soglia di sofferenza; ci limitiamo a osservare che tale soglia in soggetti psicologicamente instabili non è costante, ma può essere abbassata o alzata da fattori sportivi o extrasportivi. Abbiamo trattato anche delle deformazioni patologiche della soglia di sofferenza.
Più interessante il concetto di capacità di sofferenza. Data una certa distanza, l’atleta, arrivato alla soglia di sofferenza per quella distanza, dovrebbe riuscire a mantenerla fino alla fine, ottimizzando la prestazione. La capacità di sofferenza dipende principalmente:
- dall’allenamento
- dal rapporto del soggetto con la corsa
- dalle aspettative del risultato.
Si potrebbe pensare non tanto di aumentare la soglia di sofferenza, quanto di aumentare la capacità: un atleta con minore soglia, ma maggiore capacità potrebbe arrivare prima di un altro con maggiore soglia, ma minore capacità. La minore capacità lo fa saltare prima o per lo meno rallentare notevolmente. Per capire come ciò sia possibile rileggiamo la definizione di soglia e soffermiamoci su “accetta”. Se un atleta partecipa a un 10000 m agonistico sa che dovrà fare fatica, accetta questa fatica, ma non è detto che questa accettazione sia prolungata durante tutta la gara. Se non ha capacità di soffrire, dopo poche decine di secondi che ha raggiunto la soglia si porta sotto di essa, magari giustificando inconsciamente la cosa con il fatto che la prudenza gli permetterà di arrivare.

La capacità di sofferenza è il tempo che l’atleta riesce a reggere alla fatica massima
Capacità di sofferenza: qual è la vostra gara?
Molti anni fa (se non ricordo male nel 1975) corsi una gara amatoriale di 10 km in compagnia di Pietro Farina, valente 200-400-ista, olimpionico a Montreal nel 1976. Erano i tempi in cui viaggiavo piano (ero giovane…) e non si scendeva sotto ai 4’/km. Dopo due chilometri circa, Pietro raggiunse la soglia di sofferenza. Incredibilmente dopo qualche centinaia di metri non lo sentii più alle mie spalle; pensai che un velocista non fosse adatto a corse lunghe, per quanto di fisico longilineo e di valore internazionale sui 200 m. Errore: dopo un chilometro me lo trovo a fianco, salvo riperderlo ancora dopo poche centinaia di metri. Continuò così fino alla fine. Gli chiesi se avesse fatto un fartlek, ma la risposta fu negativa, quello era il suo modo di correre i 10 km.
La spiegazione dell’aneddoto è semplice: Pietro non aveva una buona capacità di sofferenza per i 10 km e li correva usando l’alta soglia di sofferenza dei 400 m con la piccola capacità di sofferenza (meno di 1′) di tale gara.
Tutta questa discussione può essere sintetizzata in un consiglio:
la “vostra” gara è quella nella quale la capacità di sofferenza è tale da coprire gran parte della competizione.
Questo non vuol dire che la tattica migliore è andare in crisi al primo chilometro e soffrire fino alla fine. Ricordo che la capacità di sofferenza implica che il ritmo non diminuisca. Se si parte a 3’/km e dopo ci si trascina soffrendo come cani a 4’/km per il testo della gara, non è sofferenza, è ingenuità agonistica.
Quanto detto è molto importante nell’ottica della maratona. Molti atleti sono convinti di essere maratoneti semplicemente perché a loro piace correre a lungo. È come essere convinti di essere sex symbol solo perché il sesso è al centro dei nostri pensieri.
In realtà correre a lungo senza la capacità di sopportare carichi di sofferenza importanti è come parlare sempre di donne e non concludere mai nulla.
Se si trasforma la capacità di sofferenza in una distanza, forse è ancora tutto più chiaro. Nell’esempio precedente, Pietro Farina aveva una capacità di sofferenza di circa mezzo chilometro. Io non sono un maratoneta perché la mia capacità di sofferenza può arrivare (a seconda del grado di allenamento) da 5-6 km a 12 al massimo.
Poiché ritengo che arrivare al 100% del proprio potenziale in maratona sia dannoso (cosa che non è per esempio per un 10000 m) a patto di non essere allenati come un professionista, che l’allenamento alla maratona non sia quello che fa durare di più ecc., scatta un blocco psicologico che, a mo’ di salvavita, limita la capacità di sofferenza. Il tutto può tradursi in un paio di minuti, poca cosa, ma sicuramente nelle otto maratone che ho corso in 25 anni non sono mai arrivato distrutto come in molti 5000 m in pista.