Campioni si nasce o si diventa? Questa domanda è più frequente di quanto non si pensi. In ambito podistico, per esempio, con il diffondersi dello sport amatoriale, accade sempre più spesso che l’entusiasmo sportivo del genitore coinvolga il figlio (sperabilmente in maniera spontanea) e lo avvicini alla corsa. La degenerazione del fenomeno si ha quando il genitore amplifica oltre misura le aspettative della carriera sportiva del figlio. Se ciò è classico in alcuni sport come il calcio (dove non è raro vedere il genitore che insulta l’arbitro di una gara giovanile, reo, a suo dire, di non aver fischiato un fallo a favore del suo ragazzo), purtroppo non è infrequente anche nel mondo della corsa, dove non essendoci l’arbitro, spesso il parafulmine delle frustrazioni del genitore diventa l’incolpevole ragazzo, accusato di non impegnarsi abbastanza. Per sgombrare il campo da ogni patologica illusione di gloria, questo articolo vuole chiaramente dimostrare che campioni si nasce e che si può solo sprecare il proprio potenziale sportivo, non certo amplificarlo oltre misura.
In altri termini, chi diventa campione sicuramente ci ha messo molto di suo, ma nessuno può illudersi, se nasce ronzino, di diventare purosangue: non ci riesce con il duro allenamento, non ci riesce con il doping, non ci riesce con la forza della mente ecc.
Cosa significa essere ronzini? – Vuol dire essere comuni mortali. Chi conosce la curva gaussiana, capirà bene cosa voglio dire.
Se si esaminano i risultati di un campione (abbastanza numeroso) scelto a caso fra la popolazione diciamo fra i 20 e i 30 anni, si allenano i partecipanti all’esperimento e poi si verificano i risultati, si vedrà che i risultati sono distribuiti come la curva di Gauss. In altri termini, la maggioranza avrà risultati normali (per esempio 42′ sui 10000 m) e sarà centrata attorno al massimo. Per esempio la curva si legge dicendo che il 20% dei soggetti corre i 10000 m in 42′, pochissimi avranno risultati pessimi e pochissimi avranno risultati brillanti. Se ogni sigma (la deviazione standard, rappresentata dalle varie tacche) è per esempio 13′, si vede che meno dell’1% dei soggetti corre più lentamente di 55′ e più velocemente di 29′. Spostarsi a destra nella curva significa migliorare, a sinistra peggiorare. Concentratevi soltanto sul concetto che la probabilità di ottenere tempi da record del mondo è veramente bassa. Dovrebbe essere chiaro che i campioni sono quelli molto vicini alla quarta tacca (4 sigma).
La frase “campioni si nasce” vuol dire semplicemente che tutto ciò che di buono può fare il soggetto (allenamento, determinazione, stile di vita ecc.) è al massimo spostare di una tacca la sua posizione. È veramente illusorio pensare che un soggetto (già allenato) dal gruppo a 0 sigma possa passare a quello a -4 sigma.
Cosa c’è alla base dell’illusione? – Molti amatori che primeggiano a livello provinciale o regionale pensano che se avessero fatto sport da giovani avrebbero potuto avere un futuro sportivo notevole (“sarei andato alle olimpiadi” è la classica frase che ho sentito più volte). In realtà, non capiscono che primeggiare a 40 anni a livelli locali è come farlo a 20 sempre nello stesso ambito. Un campioncino regionale o provinciale spesso non ha nessun futuro atletico; per esempio, un ragazzo di 18′ anni che corre i 5000 m in 15’40” può fare atletica, ma è a ben 3′ dal record del mondo; se è ben allenato e corre da tempo le probabilità che ottenga qualcosa in campo internazionale sono nulle.
Cosa dice la scienza – Nel 1971 Klissouras pubblicò il primo di una serie di articoli in cui studiava il peso dell’ereditarietà nella prestazione sportiva, prendendo in esame coppie di gemelli monoovulari e coppie di gemelli non monoovulari (provenienti cioè da due uova diverse). Da allora una serie di studi interessanti ha chiarito molti dubbi. Tutti i risultati sono stati riassunti da Bouchard e Perusse (Heredity, activity level, fitness and health – Physical Activity, Fitness and Health, Campaign, IL, Human Kinetics, 1994). Ecco la tabella riassuntiva:
Variabile | Contributo percentuale del fattore genetico |
Massimo consumo di ossigeno | 25% |
Frequenza cardiaca massima | 50% |
Capacità del volume allenante | 70% |
Risposta al lavoro submassimale | 25% |
Efficienza muscolare | 25% |
Profilo dei lipidi plasmatici | 40% |
Pressione arteriosa a riposo | 30% |
Grasso corporeo totale | 25% |
Distribuzione regionale del grasso corporeo | 30% |
Capacità di recupero | 30% |
La tabella si legge così: su 100 soggetti che hanno un valore di massimo consumo di ossigeno da campioni ben 25 sono figli di campioni. Si potrebbe pensare che queste percentuali non sono altissime e che anche un figlio di genitori che, allenati, non sono diventati campioni possa farcela. In realtà, occorre considerare che la probabilità di essere un campione è la probabilità composta di tutte queste grandezze. Ciò significa che per essere un campione bisogna avere tutte le caratteristiche. Per trovare un soggetto non figlio di campioni che le abbia tutte debbo moltiplicare le singole probabilità fra di loro. Per esempio, considerando solo le variabili soprariportate: 0,75×0,5×0,3×0,75×0,75×0,6×0,7×0,75×0,7×0,7=0,01%, cioè un soggetto su 10.000.
Da ultimo si deve rilevare che il fatto che un soggetto diventi campione avendo genitori sedentari o comunque non sportivi non inficia le considerazioni fatte: potenzialmente, se allenati, probabilmente anche i genitori avrebbero ottenuto eccellenti risultati nello sport.
La morale – Se siete sedentari potete sperare che vostro figlio possa diventare un campione, ma se fate sport da tempo e non avete raggiunto livelli nazionali” (titoli reali: non fittizi come “campione nazionale di maratona per bancari calvi over 55 possessori di gatti e con suocera di nome Pina”) non illudetevi che vostro figlio possa salire sul podio olimpico: è molto più utile orientarlo da subito al wellrunning.

Moltissimi campioncini regionali o provinciali spesso non hanno nessun futuro atletico di spessore
Negli ultimi anni sono stati fatti diversi progressi nel campo della cosiddetta terapia genica (Gene Therapy), locuzione con la quale ci si riferisce al trasferimento di uno o più geni sani in una cellula malata, con lo scopo di trattare una patologia provocata dall’assenza o dalla mutazione di uno o più geni.
I primi tentativi di terapia genica sono stati effettuati con l’eritropoietina (EPO) e con l’ormone della crescita, due proteine che, oltre che in ambito medico, sono state utilizzate per pratiche dopanti. Da qui a pensare di utilizzare le conoscenze della terapia genica in ambito sportivo il passo è stato abbastanza breve; ecco quindi che nel 2012, anno delle olimpiadi di Londra, uno degli argomenti più gettonati in ambito sportivo è stato il doping genetico. Il doping genetico comunque, è giusto precisarlo, non è una novità dell’ultima ora; infatti, è dall’inizio del 2003 che il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) lo ha incluso nella lista della classe di sostanze e metodi proibiti (ma già nel 2002 l’argomento era stato ampiamente trattato in una conferenza organizzata dalla World Anti-Doping Agency e nell’ambito di un congresso sugli sviluppi futuri della politica anti-doping tenutosi in Olanda). Nel 2004, la WADA ha aggiornato le proprie liste definendo il doping genetico come “l’uso non terapeutico di cellule, geni, elementi genetici o della modulazione dell’espressione genetica con lo scopo di migliorare le prestazioni atletiche”.
Secondo molti autori, la definizione data dalla WADA dovrebbe essere specificata più compiutamente in quanto lascia spazio a diversi dubbi interpretativi, dubbi che, perlomeno in teoria, potrebbero legittimare il ricorso a questa pratica evitando, di fatto, di incorrere nelle sanzioni previste.
Tanto per fare un banale esempio: come inquadrare un atleta che riceve il gene EPO codificante l’eritropoietina allo scopo di incrementare la velocità di recupero delle funzionalità del midollo osseo dopo essere stato sottoposto a cicli di chemioterapia per la cura di un tumore? È un atleta dopato geneticamente oppure l’uso dei geni è da considerarsi squisitamente terapeutico e, conseguentemente, non sanzionabile?
E che dire di futuri atleti che potrebbero acquisire una variante genetica a motivo di una terapia medica magari subita negli anni della loro infanzia? Vanno esclusi dalle competizioni perché, in effetti, sono dopati geneticamente oppure no? Forse adesso il problema non si pone, ma in futuro, probabilmente prossimo, ci sarà molto da discutere sulla questione doping genetico. Basti pensare al pandemonio scatenato dalla straordinaria performance alle olimpiadi londinesi del 2012 della nuotatrice cinese sedicenne Ye Shiwen che ha sgretolato il precedente record sui 400 misti percorrendo gli ultimi 100 metri, quelli in stile libero, in 58″68, un tempo stratosferico, soprattutto se si considera che gli ultimi 50 m sono stati più veloci di 0″17 rispetto a quelli percorsi dal nuotatore statunitense Ryan Lochte nella prova maschile (nei penultimi 50 metri, peraltro, la giovane cinese è stata di otto decimi più rapida dell’altro campione statunitense, Michael Phelps). Inevitabili le accuse di doping genetico da parte di molti, anche se, a onor del vero, alcuni invitano alla prudenza come, per esempio, il genetista Edoardo Boncinelli che afferma: “Doping genetico è una bella frase che fa un certo effetto, ma va analizzata nel suo significato. Doping vuole dire alterazione delle facoltà fisiche, genetico vuol dire che si usano i geni in tutto o in parte. Per il momento non è stato fatto quasi nulla in questo senso, ma non è inconcepibile che in futuro succeda qualcosa del genere, all’inizio saranno risultati insignificanti e poi sempre più complessi”. Per Boncinelli non è semplice arrivare a modificare, in modo molto mirato il corredo genetico di una persona perché “un gene non ha un solo effetto, ma una molteplicità di effetti. Dunque il doping genetico deve essere molto ben ponderato e mirato e per ottenere l’effetto voluto ci vogliono una serie di circostanze fortunate. Ci si arriverà certamente, su base scientifica e non di lealtà sportiva, ma non sarà così semplice e avremo (si spera) tutto il tempo di ponderarne gli effetti positivi e negativi”.
Non tutti però chiudono la porta al doping genetico; a tale pratica, per esempio, sono favorevoli Juan Enriquez e Steve Gullan, due studiosi storici di Harvard che oggi dirigono la Excel Venture Management, un’azienda che si occupa di biotecnologie. In un lavoro pubblicato sulla rivista Nature (Nature 487, 297, 19 July 2012), Enriquez e Gullan dichiarano: “Man mano che le modifiche genetiche diventeranno più comuni, aumenterà l’accettazione di questa forma di doping, purché fatta in modo sicuro”. Ci sarà molto da discutere, quindi, in un futuro non molto lontano.
I “geni” dello sport
A tutt’oggi sono state identificate più di 200 varianti genetiche correlate alle capacità atletiche di un soggetto. Di seguito illustriamo alcuni esempi.
È stato osservato che moltissimi dei velocisti olimpici sottoposti a test genetici sono portatori di una variante (577R) del gene ACTN3, responsabile della crescita delle fibre bianche o rosse nei muscoli. Per questo motivo la variante in questione è stata ribattezzata gene dello sprint.
Alcuni soggetti, non molti sembra, possiedono una mutazione dell’EPOr, il recettore dell’EPO che favorisce la produzione endogena dell’eritropoietina. Ne risulta una migliorata capacità di trasportare ossigeno ai tessuti; capacità che fa molto comodo a chi pratica sport di resistenza. Si sa per certo che possiede questa variante l’ex sciatore fondista finlandese Eero Antero Mäntyranta, vincitore di sette medaglie olimpiche (3 d’oro, 2 d’argento e 2 di bronzo) e di 5 titoli mondiali negli anni ’60, (per inciso, Mäntyranta risulta affetto da una policitemia di origine familiare dovuta alla mutazione in questione).
Un’altra mutazione che influisce sulle prestazioni sportive è la mutazione I del gene ACE (dal nome dell’enzima convertitore dell’angiotensina); chi la possiede gode di una resistenza decisamente superiore a quella di coloro che ne sono sprovvisti. Per questo motivo, ci si riferisce al gene ACE I definendolo gene del maratoneta o gene degli sherpa (la mutazione in questione è presente nel 94% degli sherpa himalayani, un gruppo etnico delle montagne del Nepal).
Altri geni candidati al doping genetico sono il PPAR-delta e quelli che controllano la produzione di IGF-1 e di miostatina.
L’IGF-1 (Insulin-like Growth Factor-1) è un ormone coinvolto nella crescita e nella riparazione dei muscoli. Studi effettuati su cavie hanno dimostrato che l’introduzione dell’IGF-1 ha prodotto sia un’ipertrofia muscolare con aumento percentuale della forza di circa il 15% sia un incremento della capacità di riparazione muscolare. Ovvio che un suo controllo per via genetica favorirebbe la prestazione.
La miostatina è un enzima che agisce limitando la crescita muscolare negli esseri viventi. Il suo ruolo fisiologico però non è ancora stato del tutto chiarito. Sostanze che bloccano questa proteina enzimatica (oppure geni che producono una miostatina funzionalmente difettosa) potrebbero consentire una crescita sovrafisiologica della muscolatura favorendo sia un incremento del numero delle fibre muscolari striate sia un aumento delle loro dimensioni.
Il PPAR-delta (Peroxisome Proliferator-Activated Receptor delta) è un fattore di trascrizione che risulta coinvolto in alcune modificazioni del metabolismo energetico, risulta inoltre correlato alla formazione di fibre lente (fibre di tipo I) ed è in grado di indurre la conversione da fibre veloci (fibre di tipo II) in fibre di tipo I. In studi su cavie animali si è osservato che l’introduzione del gene PPAR-delta ha portato a un miglioramento significativo della resistenza; si è inoltre osservato un miglioramento del metabolismo anche in assenza di esercizio. Gli effetti fisiologici di tale gene sono attribuibili all’incremento della capacità, da parte dei tessuti muscolari, di ossidazione degli acidi grassi allo scopo di soddisfare le richieste energetiche che provengono dall’organismo.