Come valutare l’invecchiamento nello sport? Il sogno di ogni runner (questo articolo è dedicato alla corsa, ma molti concetti rimangono validi per ogni attività sportiva) è quello di riuscire a migliorare sempre la propria prestazione, tanto che molti smettono di correre quando, in stallo o in calo di prestazioni, non riescono a trovare una motivazione che sostituisca il record personale. Grande nemica di questo sogno è sicuramente l’età; se nel runner professionista il declino della prestazione è inevitabile dopo una lunga carriera, nell’amatore molti fattori possono nasconderlo per anni, permettendo di continuare a cullare i propri sogni di giovinezza perenne.
Diventa pertanto naturale la domanda: come cala la prestazione con l’età? L’ovvia risposta “dipende dal caso personale” in realtà non soddisfa nessuno, perché scopo della risposta è proprio stabilire qual è il miglior invecchiamento possibile.
Invecchiamento nello sport: la teoria
La maggior parte degli autori convengono che, fisiologicamente parlando, i 50 anni sono il confine tra l’età matura e quella che viene definita, un po’ pittorescamente, come terza età. Volendo genericamente tracciare l’andamento della variazione delle funzionalità fisiologiche in funzione dell’età, si può dire che si ha un miglioramento fino ai 30 anni, dopodiché si assiste a un declino più o meno accentuato; arrivati ai 45-50 anni, i segnali di un cambiamento in atto cominciano a farsi più evidenti. Fra i principali vi sono una progressiva diminuzione della massa magra associata a un’atrofia muscolare generalizzata che ha fra le sue conseguenze più importanti una riduzione della forza e delle capacità di contrazione dei muscoli. Si registrano inoltre una riduzione della massa ossea (fenomeno noto come osteopenia, uno dei maggiori fattori di rischio per l’insorgenza dell’osteoporosi), una diminuzione dell’equilibrio, una riduzione del contenuto di acqua nell’organismo, un rallentamento del metabolismo basale e alterazioni della termoregolazione (che si manifestano con intolleranza e ridotta risposta al freddo).

Una regolare attività fisica a intensità medio-alta consente non solo di mantenere una buona funzionalità muscolare, ma anche di influire in modo positivo sul processo di rimodellamento osseo
Questi importanti fenomeni involutivi fanno parte di un quadro fisiologico noto come sarcopenia [questo termine, che deriva dal greco antico (sarx = carne; penia = perdita), è stato coniato da Irwin Rosenberg nel 1988].
Oltre che al fisiologico invecchiamento cui sono sottoposti tutti gli organismi viventi, la sindrome sarcopenica è legata a vari fattori scatenanti quali una marcata riduzione dell’attività fisica, un regime alimentare scorretto, uno stile di vita non salutistico, l’esposizione a stress ossidativi, i cambiamenti ormonali ecc.
Non tutti gli autori, a onor del vero, concordano con questa visione e ritengono che si possa parlare di sarcopenia soltanto nel caso in cui la riduzione della massa muscolare sia almeno di due volte superiore alla varianza (in ambito statistico si definisce varianza la media dei quadrati degli scarti, ciascuno pesato con la probabilità loro attribuita), misurata su soggetti sani e in giovane età. Basandosi su questi criteri, detti autori ritengono che il fenomeno sarcopenico si riscontri soltanto in poco meno di un quarto dei soggetti che rientrano nella fascia di età che va dai 60 ai 70 anni e in circa la metà degli individui che hanno superato gli 80 anni di età. Il problema riguarderebbe maggiormente il sesso maschile e la sua insorgenza sarebbe indipendente da fattori quali alcolismo, fumo di sigaretta, attività fisica ecc.
Sarcopenia e funzionalità muscolare – Diversi autori ritengono che l’atrofia muscolare connessa al fenomeno sarcopenico dipenda da una perdita progressiva di fibre muscolari; secondo Zatsiosorky e Kraemer (2008), l’atrofia inciderebbe in modo particolare sulle fibre di tipo II (le fibre veloci) coinvolgendo in particolar modo quei muscoli che possiedono soprattutto questa tipologia di fibre. Basandosi sugli studi più recenti, si è osservato che i muscoli scheletrici mostrano i primi segni di atrofia a partire dai 35 anni di età; una volta giunti al traguardo degli 80 anni, si registra, nella maggior parte degli individui, una perdita di massa muscolare che va dal 30 al 40% circa. Le capacità di produzione di forza muscolare raggiungono il loro apice una volta arrivati ai 35 anni; tali capacità restano sostanzialmente immutate fin verso i 40 anni dopodiché si inizia a registrare un declino funzionale sì lento, ma progressivo che comincia a manifestarsi superati i 50 anni (per approfondimenti si consulti il nostro articolo Forza ed età). A questo punto, ogni dieci anni si registra una riduzione dell’efficienza muscolare di circa il 14%.
Un fattore da non sottovalutare è che, in molti soggetti, l’avanzamento dell’età si porta dietro la deleteria abitudine alla sedentarietà fra le cui conseguenze vanno segnalate le alterazioni a livello di microcircolazione periferica degli arti inferiori, un fattore che può contribuire ad aggravare il fisiologico problema dell’atrofia muscolare. Non va inoltre dimenticato che la perdita di forza muscolare, oltre a rappresentare uno dei maggiori fattori di rischio di caduta dell’anziano, è anche il parametro che influenza in modo determinante le capacità di effettuare movimenti quali, per esempio, il salire e lo scendere le scale o l’alzarsi dalla posizione seduta.
L’atrofia muscolare legata alla sindrome sarcopenica può subire ulteriori peggioramenti nel caso il soggetto segua un regime alimentare caratterizzato da un basso apporto di proteine.
Modifiche a carico dell’apparato cardiovascolare – L’invecchiamento ha un effetto notevole sulla capacità di trasportare e utilizzare ossigeno da parte del sistema cardiovascolare. Alcuni studi affermano che:
il massimo consumo di ossigeno diminuisce di circa 0,4-0,5 mL kg-1 (circa l’1%) per ogni anno di età dopo i vent’anni.
Questo dato, molto pessimistico, migliora se si considerano invece gli anziani che praticano attività sportiva, nei quali la riduzione del massimo consumo di ossigeno (VO2max) e quindi delle capacità funzionali di trasporto e di utilizzo dell’ossigeno, è meno marcata.
La frequenza cardiaca massima diminuisce con l’età, mentre non si hanno variazioni sulla frequenza cardiaca basale (a riposo). Diminuisce anche la gittata cardiaca, definita come la quantità di sangue che viene espulsa in un minuto dai ventricoli del cuore, portando a una riduzione della massima potenza aerobica.
Modifiche al sistema respiratorio – L’invecchiamento riduce alcuni indici che contraddistinguono le capacità respiratorie. Tuttavia alcuni studi hanno dimostrato che
soggetti anziani che hanno sempre praticato sport dimostrano valori di funzionalità respiratoria notevolmente superiori rispetto a gruppi di controllo sedentari della stessa età.
Modifiche all’apparato nervoso – Molti studi hanno cercato di stimare i tempi necessari a compiere movimenti semplici o complessi in vari gruppi di anziani, attivi nello sport o sedentari, confrontando i risultati con soggetti di controllo giovani. Nei soggetti anziani i tempi d’esecuzione si sono rivelati maggiori, ma sorprendentemente per gli anziani che praticavano attività sportiva i tempi di risposta erano migliori rispetto ai giovani sedentari. Inoltre, la pratica sportiva, indipendentemente dall’età, portava a un miglioramento dell’efficienza della funzione nervosa. Quindi, nonostante sia stato rilevato che
gli effetti dell’invecchiamento portano a una perdita del 37% del numero di fibre nervose e riduzione del 10% della velocità di conduzione,
molti studi hanno suggerito che mantenere uno stile di vita attivo aiuta a conservare il sistema neuromuscolare anche a livelli paragonabili a quelli relativi a soggetti giovani, ma sedentari.
L’importanza dell’attività fisica – Il fisiologico processo sarcopenico non può essere arrestato da un’attività fisica a intensità medio-alta, ma è fuor di dubbio che l’esercizio fisico regolare (abbinato a un’alimentazione corretta) renda meno sensibili gli effetti dell’invecchiamento.
Una regolare attività fisica a intensità medio-alta consente non solo di mantenere una buona funzionalità muscolare, ma anche di influire in modo positivo sul processo di rimodellamento osseo, contribuendo in tal modo a prevenire efficacemente il fenomeno dell’osteoporosi, patologia che interessa in modo particolare i soggetti di sesso femminile. Svolgono una funzione importante in questi ambiti sia i lavori muscolari basati sull’utilizzo di sovraccarichi sia gli esercizi di tipo aerobico.
Sono diversi gli studi che dimostrano che l’attività fisica è in grado di determinare un incremento della forza muscolare anche in individui che hanno superato i 70 anni di età; tali studi hanno evidenziato sia un incremento nella forza dinamica sia un aumento della forza isometrica; tali aumenti, a seconda delle condizioni di partenza dei soggetti, variavano dal 10 al 20% circa. Il livello di ipertrofia muscolare andava invece da un minimo del 2 a un massimo del 15%.
Altri fenomeni legati all’avanzare dell’età sono la riduzione progressiva dei livelli di ormone della crescita (la presenza di questo ormone inizia a diminuire dopo i vent’anni e si riduce significativamente dai quaranta in su) e la diminuzione dei livelli di IGF-1, un fattore di crescita responsabile della proliferazione dei tessuti. Si ritiene, ma mancano ancora conferme definitive, che una regolare attività fisica possa contribuire a innalzare tali livelli. Considerando che i trattamenti ormonali sostitutivi non sono sempre consigliabili, pare ragionevole affermare che l’esercizio fisico rappresenta uno dei mezzi più idonei ad alleggerire gli effetti della sindrome sarcopenica con inevitabili positive ricadute a livello di qualità della vita.
Invecchiamento nello sport: la pratica
Nel paragrafo precedente abbiamo visto che con l’età la prestazione peggiora. Il difficile è definire praticamente di quanto essa peggiori!
Purtroppo non esistono ancora certezze, anche se il grado di approssimazione si riduce sempre più grazie alla mole di dati che vengono raccolti a livello mondiale sull’attività di runner ormai attempati. Purtroppo i dati non sono pienamente significativi perché spesso si riferiscono ad atleti che non sono mai stati campioni in assoluto e che magari hanno stabilito il record della loro categoria solo perché in quel momento si sono trovati sotto i riflettori e hanno “dato tutto”; viceversa, campioni a 30 anni hanno poi smesso l’attività perché logorati da una lunga carriera e non si può sapere se avrebbero potuto sbriciolare gli attuali record master.
Sinteticamente, i parametri che più contano per la prestazione sono:
- Allenamento
- Motivazione
- Peso
- Infortuni.
Il primo punto è ovvio: se cala il valore dell’allenamento (qualitativamente o quantitativamente), una parte del calo della prestazione è da attribuire alla diminuita efficacia dell’allenamento. I punti 2 e 4 sono la causa indiretta più frequente di una diminuzione dell’efficacia dell’allenamento, anche se non si deve sottovalutare una diminuzione in sé dovuta proprio all’età (minori capacità di recupero).
Il punto 2 è legato alla psicologia del soggetto, ma spesso si nota un calo una volta che, con l’età, l’amatore è uscito dalla fase del recordman. In genere il calo di motivazione può non esserci o essere molto contenuto solo se la prestazione è sostituita da altre notevoli gratificazioni (per esempio i risultati di categoria).
Il punto 3 è quello che riguarda soprattutto gli atleti di punta in giovane età. Paradossalmente, a differenza di molti amatori di medio livello, sono soggetti meno attenti all’alimentazione, forse anche perché qualche chilo di troppo non vieta loro di eccellere comunque nelle categorie amatoriali.
Il punto 4 è responsabile di invecchiamenti a gradino; in occasione di infortuni particolarmente gravi e di lunghi periodi di inattività totale (superiori ai due mesi) l’invecchiamento accelera.
Dopo circa 20 anni di raccolta dati, è possibile comunque formulare una tabella d’invecchiamento ottimale molto attendibile.
“Ottimale” significa che ben pochi riescono a rispettarla (dovrebbero gestire al meglio i quattro punti sopraccitati), ma che esistono atleti “eccezionali” per i quali è verificata. Convenzionalmente si fissa l’inizio della fase d’invecchiamento a 30 anni, ma tale età è solo indicativa, come media con estremi significativamente presenti nella popolazione a 25 anni (invecchiamento precoce) o 35 (invecchiamento tardivo).
- Dai 30 ai 40 anni: 0,5″/km.
- Dai 40 ai 50 anni: 1,5″/km.
- Dai 50 a 60 anni: 2″/km.
- Dai 60 ai 70 anni: 3″/km.
Così un atleta che per esempio a 45 anni corre i 10 km a 4’/km, a 60 anni li dovrebbe ottimalmente correre a 4’27″5/km.
Come detto, questo è l’invecchiamento ottimale. Non devono essere ottimisti tutti coloro che sembrano immuni dall’invecchiamento solo perché nel tempo sono migliorati i fattori 1, 2 e 3 (allenamento, motivazione e peso); si consideri per esempio un jogger che inizia a correre una maratona a 30 anni, poco allenato, sovrappeso e con scarsa esperienza. Negli anni ci prende gusto e a 50 anni con un allenamento e un fisico perfetto corre la maratona più veloce che a 30 anni, simulando un invecchiamento addirittura negativo, cioè un ringiovanimento!

Dopo i 50 anni solo un’esigua percentuale di sportivi riesce ad avere un invecchiamento ottimale
L’invecchiamento normale
La tabella soprariportata è quella ottimale; in particolare significa che il soggetto ha conservato il proprio peso corporeo (che è anche funzione della mole dell’allenamento svolto) e le motivazioni agonistiche (che calano una volta terminato il periodo del recordman o si perdono interessi agonistici). Dopo i 50 solo un’esigua percentuale di sportivi riesce ad avere un invecchiamento ottimale per cui, partendo da una prestazione di circa 4’/km sui 10 km (l’invecchiamento si dovrebbe esprimere in percentuale della velocità e non in senso assoluto, anche se per semplicità si parla per tutti di secondi/km/anno), l’invecchiamento di un runner che da agonista diventa wellrunner, cioè corre per la salute, ragionevolmente è:
- Dai 50 ai 55 anni: 3″/km.
- Dai 55 ai 60 anni: 4″/km.
- Dai 60 a 65 anni: 5″/km.
- Dai 65 ai 70 anni: 6″/km.
Per cui a 70 anni dovrebbe correre i 10 km in 55’30”, sotto la soglia del test del moribondo.
COMMENTI E MAIL
L’età non conta
Quando nel 2006 il canadese Ed Whitlock (1931-2017) stabilì il nuovo primato mondiale di maratona over 75 con il tempo di 3h04’54”, a molti il dato sembrò incredibile.
Whitlock aveva praticato atletica da giovane (senza arrivare a livelli lsi, attorno ai 15′ sui 5000 m), poi riprese dopo i quarant’anni nelle file dei master; a 48 anni corse la maratona in 2h31’23” e nel 2003 la corse in 2h54’48”.
Che dire? La cosa più stupefacente non è il tempo in sé, ma che Whitlock avesse conservato le motivazioni per fare atletica agonistica. Secondo la mia tabella il suo livello di peggioramento fra i 48 e i 75 anni doveva essere di 1’03″/km cioè da 2h31’23” sarebbe dovuto passare a 3h15′ circa. i 10 minuti in meno costituiscono un vero e proprio record, probabilmente dovuto al fatto che negli anni la sua motivazione era diventata quella di un professionista e anche al fatto che, a vederlo, il suo peso si era ottimizzato.
In ogni caso, il suo tempo, tradotto a 30 anni, avrebbe dato un 2h08’38”, quindi un tempo a livello mondiale, ma sicuramente non il migliore.
Nell’ottobre del 2013 (82 anni) Whitlock corse la maratona in 3h41′; il dato però non è significativo perché Ed scoppiò nella seconda parte nel tentativo di ritoccare il suo record dell’anno precedente (è passato alla mezza nel folle tempo di 1h44’31”). Riferendoci a questo record (81 anni, 3h30’28”), Whitlock in sei anni peggiorò di ben 36″/km. La spiegazione più evidente è che la sua motivazione fu massima fra i 60 e i 75 anni e che in seguito (giustamente!) avesse vissuto di rendita.
L’importanza della motivazione
Roberto mi segnala: …il fondista etiope naturalizzato israeliano dal 1995 Haile Satain, che lo scorso 11 aprile ha compiuto 50 anni e che il 6 luglio in occasione dei campionati israeliani su pista ha compiuto una strabiliante impresa vincendo la gara dei 5.000 metri in 14’07″05.
Sinceramente la prestazione di Satain non mi stupisce affatto ed è coerente con quanto detto da me più volte. Il suo tempo parametrato a 30 anni equivale a un 12’47”, circa 10″ in più dell’attuale (gennaio 2014) record di Bekele. L’impresa è comunque notevole. Il difficile per un cinquantenne (e la situazione è peggiore per un sessantenne o per un settantenne) è mantenere altissime le motivazioni come accade invece facilmente per un professionista che mira a notevoli guadagni economici o a una vittoria olimpica.
Bisogna ormai rendersi conto che l’invecchiamento può essere rallentato e che non è corretto, come fanno molti, cercare cause oggettive per il “proprio” caso personale come accade nella prossima mail.
Il degrado della prestazione
Caro Roberto,
sicuramente ti ricordi di quando ti ho chiesto informazioni su problemi di doping e di integrazione alimentare, adesso vorrei farti una domanda molto interessante.
Dato che ho compiuto 40 anni e nonostante il fatto che mi sia allenato, se pur con un impegno minore dell’anno scorso, ho notato che rispetto all’anno scorso le mie prestazioni sono decisamente inferiori.
Credevo che fosse un cedimento psicologico, ma proprio oggi parlando con un ex-dilettante di circa 44 anni mi ha riferito che il fatto di essere passato da 39 a 40 anni la prestazione fisica subisce, e questo vale per tutti, un degrado di circa il 30%.
Certamente ho avuto i miei dubbi su questo concetto e allora pensando alla tua notevole esperienza e preparazione ti chiedo di illustrarmi bene la situazione.
Saluti. Domenico
È singolare che ognuno cerchi di vendere la propria verità e questo nella corsa ha spesso effetti devastanti perché si propagano idee, tecniche, strategie che di razionale hanno ben poco. Il 30% di degrado è un dato assurdo, sparato tanto per dire, vuol dire che se correvo i 10000 in 36′ a 39 anni a 40 li dovrei correre in 48′.
Alle persone non piace ridimensionarsi e spesso si cercano alibi, giustificazioni, accade in ogni campo non solo nella corsa: la propria condizione diventa “normale”. Questo atteggiamento rivela una totale mancanza di spirito critico.
Al tuo amico, io potrei rispondere che i miei migliori risultati li ho ottenuti a 46-47 anni (non perché non sono invecchiato, ma solo perché mi allenavo di più, meglio e sono dimagrito rispetto a quando correvo a 25-30 anni!). Oggi ho 60 anni e corro alla stessa velocità di quando avevo 25 anni (ma allora ero 10 chili in più!); rispetto al top da 45-enne avrei dovuto peggiorare di soli 27″, invece sono peggiorato di 40″.
Se analizzo la mia situazione trovo che sono cambiate diverse cose:
a) Nel 2001 a 47 anni ho subito un intervento al tendine d’Achille che mi ha costretto a circa 10 mesi di stop, provocando sicuramente un invecchiamento a gradino di qualche secondo.
b) Poiché i miei compagni di allenamento hanno smesso o hanno adesso orari diversi, mi alleno da solo, spesso per il piacere di correre con mia moglie e mia sorella. Prima ero abituato ad allenarmi morendo dietro a gente che andava più forte di me, ora anche quando tiro, essendo solo, arrivo morto solo al 99%, non al 101%. Prima l’allenamento era professionistico, ora è da ottimo amatore. E c’è una grande differenza.
c) Una concezione più ampliata della corsa mi ha portato a vedere meno interessante la parte agonistica. Io corro per stare bene e per correre per sempre, mi importa relativamente partecipare a una gara dove le persone della mia età gareggiano fra di loro (“quello lascialo andare, tanto non è della nostra categoria”) per guadagnarsi un salame. Mi attira per esempio di più l’idea di superare il test del moribondo a 80 anni!.
Quello che voglio dire è che devi verificare se dietro a quel “se pur con un impegno minore dell’anno scorso” non esistano motivazioni non fisiologiche, ma psicologiche o esistenziali che influiscono sul tuo rendimento. L’importante è che non influiscano sul tuo amore per la corsa.